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Capitali cinesi

Capitali cinesi

Davide Giacalone – Libero

Non mi spaventano i soldi che i cinesi investono in Italia, mi preoccupano quelli che non investono. E’ curioso che ci si agiti, con animo giulivo o contrito, per l’acquisto di pacchetti azionari di società quotate, ovvero per quello che la proprietà aveva già venduto. Semmai si dovrebbe avvertire che la pretesa di vendere e restare proprietari, esercitata mediante artificiali ostacoli al mercato, già esistenti (come le soglie basse per far scattare l’obbligo di segnalazione) o che si vogliono introdurre (come il voto plurimo in capo a chi è già azionista), è uno di quei sintomi che rivela quanto la globalizzazione venga vissuta come minaccia, anziché opportunità. Tre sono le osservazioni che devono essere fatte, per capire quel che succede e per trarne il massimo vantaggio.

1. Considerato che l’Italia è la seconda potenza industriale e la terza economica d’Europa, le operazioni cinesi (e non solo) d’ingresso nel capitale delle grandi società è largamente al di sotto del nostro peso effettivo. Detto in modo diverso: sono poche e per valori bassi. Rothschild Italia calcola che le operazioni fatte da noi sono state 35, su 400 relative all’intera Unione europea. Segno che l’attrattività del nostro mercato è inferiore alla sua importanza e ricchezza. Sicché, a dispetto di quelli che vanno strillando circa l’ipotetica invasione cinese, il problema è opposto: vanno più altrove che qui.

2. Si deve distinguere fra le operazioni attivate da istituzioni finanziarie e quelle che hanno come protagonisti dei soggetti industriali. Se prendiamo gli acquisti che hanno dato luogo a segnalazioni rivolte all’autorità di controllo (Consob), vediamo che banche cinesi hanno investito in titoli come Eni o Enel. In buona sostanza, sono delle rendite. La banca diversifica il rischio, per conto dei propri clienti e correntisti, acquistando quel che assicura un guadagno. Eni ed Enel non ci guadagnano nulla, sono i loro guadagni ad arricchire gli azionisti. Chiunque questi siano. Poi c’è Fca, la fu Fiat, che è quotata anche in Italia, ma è ardito definire italiana. Investire in quel titolo non significa avviare una conquista, piuttosto scommettere sulla riuscita del disegno industriale, sostenuto anche dal mercato cinese. Telecom è azienda mal messa, da tempo priva di strategia e con investimenti bassi. Comprare significa puntare sulla sottovalutazione del titolo, oppure, più realisticamente, sulla convinzione che l’attuale assetto proprietario non è in grado di reggere. Se si avviasse una scalata, quegli acquisti si dimostrerebbero un ottimo affare.

Poi ci sono gli investimenti industriali: State Grid compra il 35% di Cdp reti e Shanghai Eletric compra il 40% di Ansaldo energia, perché fanno mestieri simili. Potenzialmente sinergici. La cosa singolare è che le vendite che comportano una certa cessione di sovranità (perché essere proprietari esclusivi delle reti di distribuzione energia o esserlo in società con altri non è per niente la stessa cosa) vengono fatte dallo Stato. Sia nella versione Cassa depositi e prestiti che in quella Finmeccanica. Il fatto che ciò avvenga dopo un viaggio in Cina del ministro dell’economia e del presidente del Consiglio può essere casuale. Ma anche no. In quei casi sarebbe stato ragionevole che qualcuno avesse da eccepire. Non è succeso. Se i cinesi (o altri) investono in rendite, quali queste sono, si mettono nella condizione d’importare ricchezza (nostra) senza esportarne (loro). Non è un dettaglio.

3. Le istituzioni finanziarie si muovono seguendo i rating, come pollicino seguiva mollichine e sassolini. Il guaio, serio, è che resta fuori dal tracciato la parte succosa e promettente della ricchezza italiana, fatta d’innovazione e prodotti eccellenti, ma assistita da gracilissima o inesistente finanza: la piccola e media impresa. Come restano fuori gli investimenti infrastrutturali. Se al governo stessero cercando crescita, e non solo soldi, dovrebbero subito approntare una seria collaborazione finanziaria con la Cina (e non solo), destinata a portare l’irrigazione verso il terreno più fertile, ma anche più aggredito dall’aridità. Ci guadagnerebbero i cinesi, perché un fondo di quel tipo avrebbe rendimenti non immediati, ma alti. Ci guadagneremmo noi italiani, perché vedremmo crescere la nostra capacità produttiva e d’esportazione, non solo il bisogno e la voglia di vendere pezzi di proprietà.

Questi sono i denari che non vengono investiti. Questi quelli che mi preoccupano. Questo il lavoro che lo Stato potrebbe fare, senza mettere le mani nel mercato, ma aiutandolo ad avere libere e forti le proprie mani. Se restassero cinque minuti liberi, mentre ci si occupa di nomine nei mille enti misteriosi (quando non del tutto inutili), si potrebbe dedicarli a far nascere una politica di cooperazione finanziaria, capace di trasformare in piante d’alto fusto quei germogli e quei cespugli cui, oggi, si nega luce e acqua. O che se le trovano da soli, sperando di non essere visti.

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Maurizio Belpietro – Libero

Ci sono voluti pochi giorni per capire chi avesse ragione tra Carlo Cottarelli e Matteo Renzi. Il dubbio che il commissario alla spending review avesse esagerato nel descrivere lo stato di salute dei conti pubblici è stato dissipato ieri da due notizie. La prima è la marcia indietro del governo sul prepensionamento di 4 mila insegnanti e sul tetto dell’età pensionabile per i primari, ossia sull’emendamento che proprio Cottarelli aveva dichiarato senza alcuna copertura, sostenendo che fosse stato finanziato con un generico quanto inesistente taglio di prossime spese.

La precedente settimana, quando il Parlamento aveva votato il provvedimento, il ministro della Pubblica amministrazione era stato zitto, lasciando intendere di essere favorevole alla misura. Ma poi, vista la denuncia del super commissario il quale ha di fatto dato le dimissioni beccandosi pure un poco gratificante saluto dal premier, ecco la retromarcia di Palazzo Chigi e di Marianna Madia. Segno evidente che le critiche erano fondate, altrimenti il presidente del Consiglio avrebbe tirato dritto. E allo stesso tempo prova concreta che la spending review è diventata la madre di tutte le spese, in quanto annunciando futuri tagli si dà via libera a costi immediati che prossimamente graveranno sullo stato di salute della contabilità nazionale e dunque sulle spalle dei contribuenti.

Tuttavia non c’è solo l’episodio di ieri a confermare che Cottarelli ha ragione e Renzi torto. E dunque che i tanto sospirati risparmi sulle uscite dello Stato sono solo sospirati ma non destinati a tradursi in realtà. L’altra notizia della giornata è che la sanità pugliese si prepara ad assumere 2.500 persone. Ad annunciarlo è stato il governatore della Regione che poi è pure il numero uno di Sinistra ecologia e libertà. Evidentemente, non contento di essere a capo di un sistema sanitario tra i più costosi d’Italia, tanto da dover approfittare della solidarietà del fondo sanitario da cui incassa 487 euro pro capite, Nichi Vendola vuole pure assumere. E poco importa che – come segnalava ieri il Sole 24 Ore – dal 2007 al 2013 il disavanzo della regione sia stato di 1 miliardo e 312 milioni, cioè uno dei più pesanti tra quelli registrati in Italia: il governatore prima di ritirarsi dalla politica preferisce fare un’altra infornata di medici e infermieri. Pazienza se questo si tradurrà in un aumento del ticket, che, sempre come segnalava il quotidiano confindustriale, sarà presto preso in esame con una revisione del contributo richiesto agli ammalati in base al reddito. Di questo passo altro che servizio sanitario nazionale, presto avremo il servizio sanitario fiscale, nel senso che per essere curati bisognerà presentare la dichiarazione dei redditi insieme con la carta di credito, mentre gli indigenti – e dunque la maggior parte degli immigrati – avranno cure gratis: tanto il ticket lo paga chi guadagna e versa le tasse.

È questo il fantastico mondo della spending review, che dopo le parole di Cottarelli è stata ribattezzata Spending di più. Del resto, l’operazione di rimettere in equilibrio i conti del welfare, facendo sparire il fondo sanitario che grava sulle regioni virtuose (Lombardia tra le prime) a favore di quelle che invece sono spendaccione, ha poche speranze di successo. La chiusura del rubinetto che ogni anno toglie alle Regioni meritevoli per dare a quelle che non meritano avrebbe dovuto avvenire nel 2013 e invece con i ritmi adottati da diversi governatori l’addio al sistema di finanziamenti a fondo perduto alle sanità colabrodo arriverà nel 2066. Sì, avete capito bene: fra cinquant’anni, parola della bibbia salmonata diretta da Roberto Napoletano. C’è da stupirsi dunque se in Italia continuano ad aumentare le tasse? Ovvio che no. La logica conclusione dei tagli alla spesa non fatti è il Fisco che diventa sempre più vorace.

E a proposito di imposte si segnala che è in dirittura d’arrivo un nuovo siluro: la riforma del catasto, ovvero la revisione degli estimi che venerdì scorso ha ricevuto il via libera dalla commissione Finanze del Senato. Sempre secondo il solito Sole 24 Ore in molte città si registreranno rincari d’imposta, in quanto tra i valori catastali attuali e quelli di mercato che si vorrebbero adottare c’è una differenza che in qualche caso sfiora il 300 per cento. Ma a rischiare di più a quanto pare non sono i proprietari di attici, ma chi possiede un’abitazione di categoria A3, cioè quelle considerate economico popolari. Essendosi queste case rivalutate di molto nel corso degli anni, l’Agenzia delle entrate si prepara a battere cassa. E ovviamente con i soliti metodi molto gentili, dato che nonostante il cambio al vertice nulla è cambiato. Insomma, Cottarelli ha ragione. Governo, Parlamento e Regioni spendono senza tagliare e ai soliti noti tocca pagare. Ma almeno ora è chiaro chi devono ringraziare.

Contarelli

Contarelli

Davide Giacalone – Libero

I soldi non ancora risparmiati sono stati già impegnati e spesi. Lo sapevamo e lo scrivevamo prima che lo ricordasse il commissario alla revisione della spesa, Carlo Cottarelli. I soldi per onorare le promesse già fatte non ci sono. In autunno servirà una correzione dei conti per un minimo di 15 o 20 miliardi, ma che nessuno osi chiamarla manovra o stangata. Chiamiamola rottamazione delle assicurazioni date, così si continua il viaggio verso l’avvenire. Tutto questo è il meno, anche perché scontato, mi preoccupano ancora di più i soldi che non sono ancora stati incassati, derivanti dall’equivoco capitolo delle “privatizzazioni”. Come si pensa di utilizzarli? Perché se andranno a equilibrare le partite correnti, a finanziare la spesa, anziché ad abbattere il debito, avremo assicurato la rovina d’Italia. Quella che dovrebbe essere un’arma vincente rischiamo di puntarcela alla tempia, inebetiti dal suo fugace effetto stupefacente.

Nel novembre dell’anno scorso scrivevamo che se il lavoro di Cottarelli fosse andato a buon fine (e ce lo auguravamo), avrebbe inevitabilmente comportato scelte politiche. Al tecnico si chiede la conoscenza, al politico spetta la decisione. Quello di cui finge d’accorgersi Matteo Renzi, quindi, ci era chiaro e lo chiarivamo fin dall’inizio. Scegliere significa discernere fra interessi contrapposti e rompere con le costose e improduttive retoriche in voga. Fin qui, invece, i tagli alla spesa pubblica si sono applicati seguendo due scuole: a. i tagli lineari (il copyright è di Gordon Brown), ciechi e deprecati, ma funzionanti; b. i risparmi dovuti a maggiore efficienza. Nessuno dei due approcci sfiora il problema italiano: troppa spesa, per troppe cose, cui si aggiungono mostruosi interessi sul debito. Noi non dobbiamo (solo) risparmiare, dobbiamo sopprimere funzioni pubbliche disfunzionali. Invece si pensa di rendere pubbliche e rette da spesa pubblica anche le banche del seme. Che la sinistra insegua lo statalismo, cullante e sepolcrale, è frutto di una cultura. Sbagliata. Che faccia lo stesso la destra è frutto di vuoto culturale.

Per questo mi fanno paura quelle privatizzazioni che, per altro verso, auspico. Già è capitato: noi chiediamo vendite e ci ritroviamo con svendite; noi chiediamo più mercato e ci ritroviamo con più mercanti. Se si vendono altre azioni Eni, o una quota della società delle reti, se si punta alla quotazione di Poste o di RaiWay, e così via, dove finiscono i proventi e che si fa del resto? Perché quella roba è patrimonio pubblico, pagato dai contribuenti, ed è bene che sia ben valorizzata e, se venduta, che il ricavo vada massicciamente ad abbattere il debito pubblico, che grava sui contribuenti. Semmai una parte agli investimenti. Neanche un centesimo alla spesa corrente. Ma se, giusto per retare a un esempio, la Rai pensa di usare l’incasso per finanziare un baraccone che andrebbe sbaraccato e venduto nel suo insieme, allora occhio, perché si prepara una gigantesca opera di depredazione e dilapidazione. Al termine della quale saremo più poveri e più indebitati, salvo avere goduto una breve parentesi d’equilibrio nei conti pubblici.

Per evitare che tutti i conti finiscano in contarelli, per evitare che ci si accorga dell’ovvio con mesi e anni di ritardo, direi che non si vende nulla se prima non sono disponibili: 1. il piano generale delle dismissioni; 2. il metodo che si intende seguire (pezzo a pezzo, società di partecipazioni, mandato unico a vendere, etc.); 3. l’impegno non derogabile su come usare i soldi incassati. Si aggiunga che vendere non deve servire solo a far cassa, ma anche mercato. Attirando capitali per investire nella creazione di ricchezza. Da questo punto di vista il decreto “competitività”, che modifica il diritto societario e trasforma la capacità di voto delle azioni, per le società quotate, introducendo il “voto plurimo”, serve a blindare gli assetti esistenti, quindi va in direzione opposta. Con quel meccanismo dall’estero investiranno solo in rendite, portandoci via ricchezza, ma non lo faranno in produzione. E’ un tema tecnico e noioso, ma se chi mette soldi non conta per quanti soldi ci mette semplicemente li mette altrove.

Comprare il consenso elettorale con la spesa pubblica è costume deprecabile e non nuovo. Comprare l’omertà sulle reali condizioni dei conti pubblici e sulle conseguenze del loro mancato risanamento, usando soldi derivanti da patrimonio per occultarle, è costume altrettanto immondo. E disperato. Una grossa parte degli italiani amano essere ingannati, sperando che nulla cambi. Ma a pagare il conto è solo l’altra parte, quella che ancora ci consente d’essere la seconda potenza industriale d’Europa. Sono italiani in minoranza e in crescente difficoltà. Fregarli ancora significa suicidare la nostra sovranità economica. Dopo di che quella politica sarà solo la pacchiana rappresentazione di un Parlamento combattente e irrilevante.

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Mariastella Gelmini – Libero

Le previsioni sull’economia italiana segnalano un autunno di burrasca e le parole del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, devono essere motivo di riflessione per tutti. Non sono che l‘ultimo campanello di allarme. La prospettiva di una manovra autunnale è reale, è particolarmente preoccupante alla luce dell’affaticamento economico del Paese. Dopo il governo Berlusconi, l’ultimo scelto direttamente dagli elettori, i tre successivi hanno fatto manovre per quasi 90 miliardi di imposte. Nello stesso periodo prima l’allora ministro Giarda, poi un manager di valore come Enrico Bondi, quindi Cottarelli, che ha guidato il dipartimento di finanza pubblica del fondo monetario, hanno lavorato al cantiere della «spending review».

Il bilancio dello Stato é una cosa tremendamente complicata, ci vuole una vita di studi per venirne a capo, molto spesso ministri e governi sono spettatori passivi rispetto alle dinamiche di spesa. Per questo, è stato giusto ricorrere all’esperienza di tecnici preparati. Ma il risultato, davvero poco confortante, è che se alcuni tagli, peraltro minimi, alla spesa sono stati individuati, sin ora non e stato tagliato neanche un centesimo. L’Italia ha una spesa pubblica, al netto degli interessi, di poco superiore al 50% del Pil. Ogni volta che sentiamo interessi di parte chiedere più risorse, ogni volta che ascoltiamo autorevoli colleghi parlamentari tuonare contro il pareggio di bilancio e il fiscal compact, ogni volta che qualcuno paventa l’ipotetica «ritirata dello Stato» che avrebbe avuto luogo negli scorsi anni, ricordiamoci di questo dato di fatto. La spesa pubblica supera la metà del prodotto interno lordo: neanche nell’Egitto del faraoni!

La Germania ha una spesa pubblica che nel decennio 2002-2012 si è sempre attestata attorno al 44,7%, misurata. In più, negli ultimi anni, quel Paese è vistosamente cresciuto, cosa che noi non abbiamo fatto. Potrebbe quindi permettersi, per così dire, più spesa pubblica. Il che è invece, oggi, al di là delle nostre possibilità.

Interventi incisivi e fruttuosi sulla spesa pubblica vanno fatti «per cassa», devono cioè produrre benefici immediati in termini di deficit e, nel medio termine, sul debito. Quando ero ministro dell’Istruzione sollevai il problema di uno squilibrio di spesa in quel settore. A parte la scarsità di risorse, posi una questione di fondo rimasta ancora senza risposta: quale tipo di istruzione e di crescita civile può assicurare un Paese se l’80% delle risorse se ne vanno in stipendi e soltanto il 20% in infrastrutture, manutenzione e investimenti? Quella situazione non riguardava e non riguarda soltanto quel dicastero. Si pensi alla Sanità dove, con l’eccezione di alcune Regioni del Nord, la spesa è assorbita per il 75% dagli stipendi (nel Sud si arriva fino all’85-90%).

Renzi pensa alla staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Si è chiesto a carico di chi andranno le maggiori spese? Quali saranno i costi? Per ridurre sensibilmente la spesa pubblica, vanno almeno chiarite due questioni di metodo e di merito, sulle quali purtroppo nessuna rassicurazione ci giunge da questo governo.

In primo luogo, proprio per quanto scrivevo poc’anzi, per ridurre la spesa pubblica serve una buona riforma della Pa. Una buona riforma della Pa è una riforma che ne riduce i costi. L’attuale esecutivo parla di riforma della Pubblica Amministrazione eludendo sapientemente il tema dell’impatto economico. È probabile che la nostra Pa abbia bisogno di assorbire nuove persone e nuove competenze. Ma in assenza di un disegno di razionalizzazione, non si tratta di altro che di un disegno fanfaniano di «occupazione» dello Stato.

In seconda battuta, la spending review non può prescindere da un’altra questione, alla quale il governo Renzi ha messo la sordina: le privatizzazioni. È giusto e opportuno che il presidente del Consiglio ascolti esperti ed economisti, ma la riduzione della spesa è una questione eminentemente politica. La domanda alla quale rispondere è: quanto e quale Stato vogliamo? Che cosa desideriamo che faccia, lo Stato? Che cosa altri possono fare meglio di lui? E sotto questo profilo, è del tutto illogico considerare revisione della spesa e privatizzazioni come questioni del tutto indipendenti l’una dall’altra.

Le riforme istituzionali sono importanti, noi siamo i primi a crederlo, è un merito di Renzi averle messe al centro del dibattito. Ma il silenzio del presidente del Consiglio, altrimenti assai loquace, su questi temi ci lascia sospettare che egli non abbia un pensiero in merito. O perlomeno che non abbia una maggioranza, in grado, quel pensiero, di seguirlo e sostenerlo.

L’Italia degli imboscati

L’Italia degli imboscati

Maurizio Belpietro – Libero

La Cgil si è accorta che in Italia non c’è lavoro. Meglio tardi che mai: sono anni che il totale delle persone occupate diminuisce, ma finora la situazione non aveva indotto il principale sindacato a uno studio approfondito del fenomeno. Adesso a colmare la lacuna pare abbia provveduto l’Associazione Bruno Trentin, ovvero l’ufficio studi della confederazione rossa. Elaborando i dati Istat, i ricercatori hanno scoperto che dal 2007 ad oggi il tasso di occupazione è passato dal 51,4 per cento al 48,2, ma ciò che è peggio è che il confronto con l’Europa ci dà sotto e di parecchio alla media dei Paesi della Ue. Sette punti e mezzo percentuali ci separano infatti dal tasso di occupazione dell’Eurozona, della quale fanno parte non solo la Germania o altri Paesi del Nord la cui economia fila come un treno ad alta velocità, ma anche Spagna, Portogallo e Irlanda, posti dove la crisi ha colpito duro e il cui tasso di occupazione risulta comunque superiore al nostro.

Già questo basta e avanza a capire che in Italia c’è qualcosa che non va: se infatti meno di un abitante su due lavora significa che uno su due campa sulle spalle di chi un posto ce l’ha, con tutto ciò che ne consegue. In realtà però la ricerca della Cgil non dice tutta la verità, perché ad approfondire la statistica si scopre che non tiene conto delle persone che ufficialmente un posto di lavoro ce l’hanno ma è come se non l’avessero. Si può infatti considerare regolarmente occupato un lavoratore che sta in cassa integrazione da anni? È possibile continuare a far figurare nei censimenti della pubblica amministrazione quei dipendenti di società municipalizzate o servizi regionali che sono stati chiaramente assunti anche se non servono? Insomma, se si togliessero dal 48 per cento stimato dalla Cgil i posti finti o quelli precari, probabilmente in Europa batteremmo ogni record di disoccupazione.

E però oltre a questo forse è il caso di cominciare a parlare di chi il posto di lavoro ce l’ha ma si guarda bene dal lavorare. In questi giorni ha suscitato scandalo un rapporto interno del Comune di Napoli. A Palazzo San Giacomo hanno radiografato il servizio di vigilanza urbana, scoprendo che su duemila guardie municipali in servizio soltanto 900 lavorano. Gli altri non sono imboscati i ufficio, come spesso capita: sono proprio imboscati, cioè assenti. Chi per malattia, chi in permesso sindacale, chi per assistere un parente, chi per assistere gli affari suoi. Risultato, a dirigere il traffico e multare gli automobilisti indisciplinati rimangono meno della metà di quelli che sono pagati per fare tutto ciò.

Può stare in piedi l’economia di un Paese dove uno lavora e l’altro incassa senza lavorare? Può crescere il Pil di una nazionale che avendo più siti archeologici di tutto il mondo messo insieme organizza un concerto, attirando visitatori paganti da ogni dove, ma sul più bello, quando c’è da tirar fuori gli strumenti i violinisti se ne vanno e dicono buonanotte ai suonatori? Eppure questo è ciò che è successo nei giorni scorsi a Caracalla, di fronte a spettatori venuti dall’America per assistere allo spettacolo. Spesso ci lamentiamo delle difficoltà in cui l’Italia si dibatte, registrando anno dopo anno gli insuccessi economici che ci spingono ad avere il minimo della crescita e il massimo delle tasse. Tuttavia, se stiamo in questa situazione, gran parte della colpa la si deve agli italiani. O meglio: a quegli italiani che si imboscano. Perché oltre che un popolo di santi, sognatori e poeti siamo anche un popolo di furbi che appena può se ne approfitta, o per scioperare oppure per non lavorare. In qualche caso evitare di faticare è addirittura diventato un mestiere, ovviamente retribuito a caro prezzo dallo Stato. Non si spiega diversamente l’alto tasso di pensioni di invalidità registrato in alcune zone della Penisola. Possibile che le dieci Province con il più alto numero di invalidi siano tutte concentrate al Sud? Perché a Bolzano gli invalidi superano di poco l’1 per cento della popolazione residente e a Oristano o Nuoro, ma anche a Lecce e Reggio Calabria ci si avvicina al 10 per cento? Difficile pensare che in certe località ci sia stata un’epidemia. Più facile ritenere che lì, come al Comune di Napoli, fra i tanti che marcano visita ci sia un’epidemia di approfittatori. Di gente che ha imparato a godersela a sbafo, alla faccia dell’articolo 18 e di chi davvero ha bisogno di assistenza. Tanto, alla fine c’è sempre qualcuno che paga per tutti.

Per non fare i conti

Per non fare i conti

Davide Giacalone – Libero

C’è il buon affare del Senato e il cattivo affare dei conti. Il governo spera di usare il primo per affrontare o scansare il secondo. La canoa italiana ha imboccato il ramo delle rapide, senza sapere se e quando ci sono le cascate. C’è chi s’inebria con un futuristico elogio della schiuma e della velocità, chi coglie l’occasione per sbracciarsi e mettersi in mostra, e chi, all’opposto, approfitta della distrazione per nascondere il vuoto d’idee. Tutto in un delirio tatticistico e politicista, senza che ci si curi di quel che viene dopo lo spumeggiare.
Il Senato è un buon affare. Per molti, se non per tutti. Matteo Renzi può far la parte del condottiero che non s’arresta. Gli oppositori più chiassosi possono far la parte dei combattenti senza paura. Finiscono sommersi quelli che vorrebbero correggere un testo mediocre e squilibrato, scompare la voce delle persone serie, a sinistra (con molto dolore) e a destra (con troppa sottomissione). Ma l’impressione è che poco importi, ai duellanti.
Se la campagna del Senato va a buon fine, il governo la utilizzerà per dire: abbiamo cominciato a cambiare l’Italia, adesso non rompeteci troppo l’anima sui conti. Se si dovesse impantanare in guerra di trincea, la utilizzerà per dire: c’impediscono di cambiare l’Italia, meglio tornare alle urne. Nel primo caso ci sarà il tempo per cambiare la legge elettorale, magari usando anche il dialogo con i pentastellati. Nel secondo si accetterà di votare (sempre che il Colle copra l’operazione con lo stesso partecipe trasposto con cui copre i ludi senatoriali) con un sistema meno certo nel risultato, puntando a gruppi parlamentari più direttamente e personalmente controllabili. In ambedue i casi l’obiettivo è quello di non far precedere il voto da un assestamento dei conti, che non gioverebbe alla credibilità e popolarità di Renzi. Questo il panorama tattico. Ma poi c’è la sostanza, coriacea assai.
Intanto perché il cambiamento del Senato non si tradurrà in una più veloce a corriva attività legislativa, se non passando prima per le urne. Ciò per l’inaggirabile motivo che anche in caso di cambiamento costituzionale non è che il Senato sparisca all’istante, ma occorre che sia sciolto quello presente. Poi perché ignorare l’aggiustamento dei conti ci porterà ad avere un debito ancora più alto, quindi a veder crescere la massa tumorale che ci soffoca. La tanto reclamata e declamata elasticità non giova minimamente né all’economia reale né al tenore di vita dei cittadini, aiuta i governi a non prendere atto dei propri insuccessi. Vale per tutti, non solo per l’Italia. Noi, però, siamo i più esposti, proprio perché intestatari del debito più potenzialmente esplosivo.
Varrà la pena di tornare, su questo punto. Che è decisivo, perché deve essere cancellata l’illusione che sia il rigore ad avere provocato la recessione, semmai sono il debito e la spesa pubblica improduttiva ad avere prodotto prima il rallentamento della crescita e poi il precipitare nella decrescita, per, infine, approdare alla stagnazione. Pensare di curare il male con lo stesso male non è una specie di omeopatia politica, è un errore pericolosissimo. Serve a far credere all’opinione pubblica che ci danneggiano i vincoli esterni, non le dilapidazioni interne. Si può anche riuscire in un simile gioco di prestigio, aiutati dagli schiamazzi del loggione qualunquista, ma il teatro crolla prima della fine dello spettacolo.
Sobbalziamo fra i flutti e ci divertiamo fra i gorghi, convinti che non possono lasciarci precipitare senza per questo rompere il convoglio europeo. Attendiamo che ci tirino una cima e ci fermino, facendo finta di non sapere che già in tal senso si è spesa la Banca centrale europea. Ma a nessuno viene in mente di raccontare la verità, nessuno se ne prende l’onere, perché nessuno ha credibilità sufficiente o voglia di rallentare la (presunta) corsa verso il successo. Si crede che la partita rilevante sia quella interna alla canoa. Magari si potrà gridare “vittoria” quando sotto non ci sarà più il fiume, ma il vuoto. Non c’è nulla d’ineluttabile, in questo. Non è una sorte segnata, perché avremmo ancora le forze per invertire la rotta. Solo che chi è in grado di remare tende a sbarcare, chi avverte viene deriso, e l’unico spettacolo che va in onda è quello della campagna senatoriale. In queste condizioni il meglio che possa accadere (per chi governa) è che con i problemi veri si facciano i conti dopo e non prima delle elezioni. Cambia, molto, per chi vuol comandare. Non cambia nulla, per tutti gli altri, se non per il tempo perso.

Bella sinistra

Bella sinistra

Davide Giacalone – Libero 25 luglio 2014

Il Paese è in crisi, impallato, non riesce a crescere e a scrollarsi di dosso la paura. Vero. Sono necessarie riforme strutturali, capaci di ridare potenza al motore. Giusto. La sinistra non deve restare legata ad anacronistici tabù, deve accorgersi che la globalizzazione ha cambiato le carte in tavola e deve tradurre i propri ideali in ricette assai diverse da quelle del passato. Parole sante. Ed ecco, dopo queste premesse, quel che ha in animo di fare il nuovo capo del governo, uomo di sinistra: a. sgravi fiscali alle imprese; b. diminuzione del costo del lavoro, per un totale di 40 miliardi; c. riduzione del debito pubblico per un ammontare di 50 miliardi in tre anni. Sono qui in piedi che applaudo. Quando avrò finito mi mangerò le mani, perché non è il capo del governo del mio Paese, ma della Francia.

Prendiamo quei tre punti, per misurare quanto il governo italiano sta andando in direzione opposta: 1. gli sgravi fiscali, sotto forma di bonus, sono andati a una parte dei lavoratori, non alle imprese che, invece, hanno visto crescere la pressione fiscale, a vario titolo (a fronte della leggera limatura del cuneo sono diminuite le deducibilità, aumentate le tasse sul risparmio, aumentate quelle sulle banche, gli immobili, gli investimenti energetici, etc.); 2. avendo dato il bonus il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato, non per le imprese, ma per il sistema Italia, il che, quindi, non ci ha fatto guadagnare produttività, mentre l’effetto sui consumi deve ancora vedersi; 3. non solo il debito pubblico sale, non solo non ci sono piani di abbattimento, ma la querula petulanza sull’elasticità e la flessibilità lasciano intendere che l’Italia preme sul tetto del deficit, che poi si traduce in debito crescente.

Qui ci siamo spesi per dimostrare, negli anni, quanto la condizione dell’Italia non fosse peggiore di quella di altri, anzi. Abbiamo più volte sottolineato quanto fragile sia la condizione della Francia e delle sue banche. Ma quando leggo le parole di Manuel Valls, capo del governo francese, misuro il loro vantaggio politico: hanno capito e si muovono nella giusta direzione. Noi animiamo la tragicommedia del Senato e facciamo finta di dimenticare che gli appuntamenti autunnali sono ineludibili, mentre i provvedimenti fin qui adottati sono sbagliati, o inutili. Il resto è mera declamazione.

Possibile che a palazzo Chigi non se ne rendano conto? Credo lo sappiano. Lo sanno al punto che hanno idee diverse e contrastanti, su quel che occorre fare. C’è la ricetta Padoan, destinata a trovare spazi di solidarietà in sede europea e internazionale. Quella Delrio, che lancia messaggi di consapevolezza e invita a non fare promesse che non potranno essere mantenute. C’è Calenda, che gradisce la cucina francese, rivendicando la sua coerenza (la riconosco), ma dimenticando che i governi hanno solo responsabilità collegiali e collettive, non individuali (quelle sono penali, tema diverso). Su tutti vola Renzi, che cerca la rissa per avere un colpevole da massacrare, nel frattempo sostenendo tesi più da campagna elettorale che da governo. Fin dall’inizio ha un solo partner, Berlusconi. Connubio che non s’incrina sul Senato, giacché non è la sensibilità costituzionale il loro forte, ma sarà messo alla prova sul terreno dell’economia. Che non può essere imbrogliato a sole parole.

Su quel terreno mi pare che l’atteggiamento italiano conta su un’unica sponda: se si dovesse arrivare alle maniere ruvide, se il trivio fosse fra far finta di non vedere che i conti italiani sono taroccati, costringere l’Italia a un’ulteriore botta fiscale, o, infine, prendere atto degli sfondamenti e avviare una procedura d’infrazione, se si arriva a quello allora il bersaglio diverrebbe la Banca centrale europea, e per essa Mario Draghi. Verrebbe messo su quel conto l’avere comperato tempo rivelatosi inutile. S’indebolirebbe chi, in Germania, ancora considera l’Ue un disegno da completarsi, non da scolorirsi. Con la Bce s’azzopperebbe l’unica cosa che ha funzionato. Può darsi che ciò non rompa l’asse Mineo-Minzolini, e manco quello Berlusconi-Renzi. Scasserebbe tutto il resto, però. Ove mai a taluno interessi. L’alternativa c’è. Valls ne è una dimostrazione. E su quello sì che il connubio sarebbe virtuoso. Meritevole d’essere accostato a quello che, in un lontano passato, tagliò gli estremismi e mise in sicurezza l’Italia.

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Governo Renzi, i numeri del disastro: Pil, crescita, consumi, export e produzione industriale. Ecco perché l’Italia sta peggio di 6 mesi fa

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L’effetto Renzi, se cominciato, è già finito. Questo dicono i numeri, snocciolati in un freddo ed allarmante elenco da tutti gli Istituti economici: Istat, Bankitalia, Bce. Al netto di proclami, promesse e aspettative alimentate dal governo, la verità è che l’Italia sta peggio di sei mesi fa e che la ripresa, più volte prospettata in primavera a turno dal premier, dal presidente dell’Eurotower Mario Draghi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il numero uno di Palazzo Koch Ignazio Visco, non arriverà né nel 2014 né nel 2015.

I numeri del disastro

Mettiamoli tutti in fila, quei numeri: a maggio i consumi sono calati dello 0,7%, proprio in concomitanza con l’annunciato bonus Irpef da 80 euro in busta paga, mentre i saldi estivi dovrebbero registrare un calo intorno al 3-4 per cento. Le spese alimentari sono scese dell’1,2% e a simboleggiare una qualità della vita sempre più all’insegna del risparmio c’è una produzione industriale scesa, sempre a maggio, dell’1,2 per cento. Anche l’export, unica voce trainante in tutti questi anni di crisi, segna il passo: -4,3%, una mezza tragedia anche se Renzi l’Africano continuava a ripetere di voler alzare di 1 punto (appena) il Pil legato alle esportazioni nei prossimi 1.000 giorni. Già, il Pil: nel 1° trimestre del 2014 ha registrato un calo dello 0,5% annuo, cui si somma una previsione di crescita per il 2014 stimata ad aprile allo 0,6% dal Fondo monetario internazionale, che oggi ha però rivisto la previsione allo 0,3. Dimezzato, e pensare che la Bce fissa la soglia a un ancora più pessimistico +0,2 per cento. Il governo parlava di 0,8%: un miraggio.

Confronto impietoso

Se i consumi stagnano, il Pil non cresce, il debito aumenta, si rende praticamente impossibile ogni politica di investimenti statali e aumento della spesa pubblica, perché ci sono da rispettare i rigorosissimi tetti dell’Unione europea sui rapportideficit/Pil e debito/Pil. E il paragone proprio con gli altri Paesi dell’Eurozona certifica lo stato di malato cronico dell’Italia: anche nel 2015, secondo l’Fmi, cresceremo dell’1,2%, variazione minima rispetto all’1,1% del 2014. Le cose all’estero non vanno benissimo, vero, ma meglio che da noi. Secondo il Fondo monetario internazionale nel 2015 il Pil francese crescerà dell’1,4% (-0,1 rispetto alla precedente stima), quello tedesco all’1,7% (+0,1), quello spagnolo all’1,6% (+0,6). Tutti quanti, più o meno, agganciano la ripresa. Noi no.

Smentito Franceschini, la tassa Siae fa aumentare i prodotti Apple

Smentito Franceschini, la tassa Siae fa aumentare i prodotti Apple

Luciano Capone – Libero

«Firmato il decreto “copia privata”. Il diritto d’autore garantisce la libertà degli artisti e i costi vanno sui produttori, non sui consumatori» dichiarava il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Lo stesso concetto espresso dal presidente della Siae Gino Paoli: «Questo compenso, però, non deve essere a carico di chi acquista lo smartphone ma del produttore, che riceve un beneficio dal poter contenere sul proprio supporto un prodotto autorale». Dopo un mese dalla firma del decreto che ha innalzato il costo dell’imposta che grava su tutti i dispositivi elettronici con supporto di memoria come telefonini, computer, televisioni, memorie di massa e quant’altro, è arrivata la smentita da parte del mercato: la Apple (e come lei tante altre aziende) ha ritoccato i propri listini alzando il prezzo di iPhone, iPad e MacBook per recuperare gli aumenti delle tariffe previsti dal decreto e destinati alla Siae.

La Siae ha attaccato l’azienda di Cupertino per la sua azione «provocatoria» e i sindacati l’hanno definita un’operazione «di pura mistificazione della realtà, mirata a mantenere inalterati i propri ingenti profitti». Il ministro Franceschini, di fronte alla rivincita della realtà sulle sue promesse, si è detto «allibito per non dire indignato» e si è scagliato contro l’azienda americana per un «aumento puramente ritorsivo nei confronti dei loro clienti italiani». Secondo il ministro la dimostrazione è il fatto che «in Francia un iPhone 5s costa 709 euro a fronte di una tariffa per copia privata di 8 euro, in Germania 699 con una copia privata di 36 euro, in Italia 732,78 euro con la copia privata a 4 euro». Così la Apple, conclude Franceschini, «scarica sui soli consumatori italiani il legittimo compenso dovuto agli autori pur di non ridurre lievemente il proprio margine di guadagno». Parole quasi sovrapponibili a quelle di Gino Paoli.

In realtà non è accaduto che la cattiva e speculatrice multinazionale americana, chissà per quale strano motivo, abbia messo in atto una «ritorsione» sui propri clienti, che tra l’altro sarebbe un comportamento abbastanza controproducente visto che i clienti sono la fonte dei guadagni della Apple, ma è avvenuto un semplice comportamento che in economia si chiama traslazione d’imposta, ovvero il trasferimento da parte di un contribuente del costo di una tassa sugli altri contribuenti. Il governo può aumentare le imposte ma non può decidere chi di fatto le paga perché (per fortuna) non può fissare il prezzo dei beni che in un mercato libero vengono decisi dall’incrocio fra domanda e offerta, cioè dai produttori e dai consumatori. Era prevedibile che l’aumento dell’imposta per la copia privata, in quanto aumento del costo del prodotto, avrebbe inciso anche sul prezzo finale e quindi sulle tasche dei consumatori. Come era evidente che quella di Franceschini fosse un’affermazione infondata per un altro motivo: sulla copia privata si paga l’Iva e un aumento delle copia privata comporta per forza di cose un aumento dell’Iva, che per definizione ricade sui consumatori. Ma il fatto che la copia privata venga pagata per intero dai consumatori è ammesso indirettamente anche dalla Siae, che prevede esenzioni e rimborsi per le imprese che acquistano i supporti di memoria per esclusivi scopi professionali, cioè senza fare copie private. Quindi se la Siae non eroga il rimborso ai produttori ma restituisce i soldi ai consumatori, chi l’ha pagata la copia privata? Le multinazionali o i consumatori?

L’attesa

L’attesa

Davide Giacalone – Libero

 Si vive con un senso di attesa. Ogni tanto si butta un occhio agli indici che segnalano gli umori del mercato, ma solo per capire se gli anestetici dispensati dalla Banca centrale europea funzionano ancora. Non è detto che debba succedere qualche cosa di drammatico, ma è drammatico che da noi non succeda niente. Che si parli del nulla. Che ancora siano sulla scena le dirette streaming, capaci non certo di portare trasparenza, ma di rendere trasparente il vuoto, il vaniloquio. Sulla scena non c’è più la risata scomposta e volgare di un Sarkozy alterato, incosciente e prossimo alla fine, ma non per questo s’è fatto diverso l’atteggiamento di molti che ci osservano, da fuori. Dicono: ci fidiamo delle riforme e dei conti italiani. Lo dice anche Wolfgang Schäuble, ministro tedesco dell’economia e falco vero, appositamente travestito da colomba. Ci fidiamo. E’ una trappola, perché sappiamo tutti che i conti non sono in linea con gli obiettivi e le riforme sono solo un suono, senza che nessuna andrà in porto prima della chiusura del bilancio 2014. Per non dire dei loro effetti.

È incredibile la velocità con cui Matteo Renzi ha vinto la sua partita politica, radendo al suolo il gruppo dirigente del Partito democratico, conquistando palazzo Chigi e portando a casa il solo successo elettorale di un governante europeo. È stato bravissimo. È non meno incredibile la velocità con cui sta sprecando le occasioni di far pesare e fruttare questi successi, la supponenza, anche mimica, con cui dimostra di pensare che la politica europea sia la proiezione continentale delle camarille pidiessine, l’infantile convinzione che se la palla ora è sua può anche portarsela via. Un gigantesco falò di opportunità, una pira il cui orrendo foco è destinato a riscaldare le gesta di chi ha osservato e amato la politica nell’era in cui la televisione induceva confusione fra fama e potere, fra l’essere famosi e l’essere qualcuno.

Incredibile anche la condotta della destra. Privi di un leader hanno scoperto di non avere mai avuto una politica. E lo dimostrano proprio sul terreno che dovrebbe essere il cortile della loro casa culturale: l’economia. Il nuovo commissario europeo all’economia è un quarantatreenne finlandese, popolare, già premier. Si chiama Jyrki Katainen e ha detto: «Talvolta mi pare difficile capire come mai la disciplina fiscale sia vista come una politica dura e contraria all’economia sociale di mercato: la mia esperienza indica l’esatto contrario». Bravo. È comprensibile che un leader della sinistra, quale è Renzi, punti alla redistribuzione della ricchezza. Anche se finirà con il ridistribuire la miseria. È incomprensibile, inammissibile, insensato che da destra non s’imposti una politica esplicitamente indirizzata al taglio profondo della spesa pubblica, all’abbattimento del debito, quindi a un abbassamento delle tasse. Sanno dire solo l’ultima cosa, in questo ritrovandosi al fianco della sinistra: sia nel dirlo che nel fare il contrario.

Hanno tutti paura. Biascicano un moralismo da strapazzo, con il quale alimentano il veleno anti-partitico e anti-istituzionale, salvo poi praticare riforme costituzionali che consegnano tutto il potere manco ai partiti, ma a chi li capeggia. Ma hanno paura di dire che la spesa da tagliare è oggi catalogabile anche in quella sociale, non solo in quella degli sprechi e delle ruberie. È il sociale a coprire sprechi e ruberie. Prendete la scuola: ci sono regioni che stanno inzeppando le famiglie di ferraglia informatica, destinata agli studi, ma senza fornire né sistemi operativi né contenuti. Soldi buttati. A cura della destra e della sinistra. Certo che la scuola va resa digitale, ma quella è la via che la rende più costosa, lasciandola analogica. Il digitale ha senso se taglia le spese e aumenta la potenza culturale, qui si fa il contrario. Stesso discorso per la sanità. Ha ragione Katainen: il rigore dei conti è la cosa più sociale che si possa immaginare, in un Paese che ha un debito spaventoso e solo un terzo dei cittadini che lavorano.

Ma si resta in attesa. Qualche cosa accadrà. Magari ci concedono la flessibilità. Così potremo fare qualche altro investimento sociale. Forse arrivando, dopo congrua spesa, a conquistare il glorioso successo dei certificati on line. In un mondo in cui, con il digitale, i certificati non dovrebbero neanche esistere.