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Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Davide Giacalone – Libero

Back to Mammì. Che sarebbe anche una buona cosa, se non fosse fuori tempo massimo e fuori dalla realtà. In verità il film che Matteo Renzi vorrebbe far trasmettere alla Rai, a reti unificate, è: Back to Fanfani.

Quella che a Renzi sembra una novità è la proposta che il ministro Mammì (il mio amico Oscar, con cui ho lavorato, in una stagione di cui conservo un orgoglioso ricordo) fece nel 1987: sottrarre la Rai all’«ossessione dell’audience» (così la definì) e far sì che una delle tre reti fosse senza pubblicità. Fininvest, che era il nome di allora di Mediaset, avrebbe dovuto rinunciare a una delle sue tre reti. Tale proposta venne bocciata subito. Non dai sostenitori di Fininvest, ma da quelli della Rai. Non dagli amici di Silvio Berlusconi, ma da quelli di Biagio Agnes. In prima fila c’era lui, Uolter Veltroni, che disse: una televisione senza pubblicità non è una televisione. Sì, è lo stesso Uolter che poi sostenne non dovesse «interrompersi un’emozione», cioè non dovesse esserci la pubblicità nei film. Ma che volete, della coerenza ha sempre coltivato la variante africana.

Fu bocciata, dicevo. Poi fu approvata un’elaborazione successiva, che lasciava ai duopolisti tre reti (aprendo il mercato ad altri, però), tutte con pubblicità. E fu approvata con il consenso anche della sinistra democristiana e del Partito comunista (senza offesa, si chiamava così). Quando Mammì fece la sua prima mossa, comunque, la cosa aveva un senso. Intanto perché la Rai aveva tre reti, mentre oggi ne ha quindici. Poi perché non esistevano ancora né Tele+ né Stream, successivamente confluite in Sky. Soprattutto perché eravamo in epoca analogica, mentre oggi c’è il digitale. La domanda è: allora perché, oggi, il grande innovatore recupera un reperto archeologico? Risposta: perché punta ancora più indietro, alla Rai di Amintore Fanfani ed Ettore Bernabei. Alla Rai di governo. Si preparino le gemelle Kessler.

Renzi conta di arrivare al monocolore Rai cambiando il meccanismo di nomina dei consiglieri d’amministrazione. L’idea è che i consiglieri restino sette, come oggi, ma quattro siano eletti dal Parlamento, in seduta congiunta, due dal governo e uno dai dipendenti della Rai. Peccato che: a. le occasioni per le sedute congiunte sono regolate dalla Costituzione, sicché si dovrebbe modificarla (anche in questo), o scimmiottarla puerilmente; b. il Parlamento di cui parla Renzi è quello che stanno riformando, quindi al Senato ci sarebbero i rappresentanti delle Regioni, ma pochi, mentre la Camera sarebbe abitata da tanti di un solo partito, che è anche lo stesso al governo. Detta in modo più chiaro: chi vince le elezioni elegge sei consiglieri su sette. In più il governo nomina il direttore generale (mentre oggi lo elegge il consiglio d’amministrazione). Il potere assoluto. Manco Fanfani ci aveva pensato. Con un tocco di cogestione jugoslava, incarnata dal consigliere delle maestranze, in larga parte reclutate mediante accurata selezione partitica, quindi a vasta presenza di nostalgici a pugno chiuso e bocca aperta. Il maresciallo Tito ne sarebbe compiaciuto.

Renzi è una volpe. Conosce i suoi polli e per questo se li pappa. Infatti veste la sua proposta in questo modo: basta con la Rai dei partiti. Evviva, applausi, tripudio. Peccato che la lottizzazione (copyright Alberto Ronchey) nasce nel 1975, con la riforma che segnò la nascita della sinistra catodica, nonché la fine dell’era censoria e democristianocentrica. In quella in cui i figliuoli di Amintore guidano la sinistra si arriva a tali forme di simpatico sincretismo.

E che si deve fare, allora, conservare la lottizzazione come strumento di pluralismo? Il cielo me ne guardi. Il fatto è che siamo nel mondo digitale, quello che alla Leopolda si ricordava agli altri, salvo scordarsene in proprio. In questo mondo l’offerta è infinita. Il palinsesto te lo costruisci da solo. I più giovani neanche sanno cos’è il consumo televisivo dei propri avi. Dirigere la Rai, quindi, vuol dire controllare quel pezzo di opinione pubblica che s’è assopito davanti alle televisioni generaliste e commerciali, quali la Rai è. Significa puntare alla manipolazione del consenso di quel pezzo arretrato. Lo schermo, e torno a citare il piccolo grande Oscar, concepito come «balcone di piazza Venezia». La soluzione c’è, per non finire a quel modo: venderli. La Rai e il balcone.

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Davide Giacalone – Libero

Ecco l’ennesima riforma della scuola. E per l’ennesima volta parla d’insegnanti e non d’insegnamento. Per l’ennesima sarà negletto il solo diritto che andrebbe tutelato: quello degli studenti alla conoscenza. Sparito il decreto, annunciato a settembre e confermato a febbraio, il Consiglio dei ministri ha varato il disegno di legge. La carriera procederà per scatti d’anzianità, come è sempre stato, mentre il peso della meritocrazia resta indeterminato e posticipato. I presidi potranno scegliere chi far insegnare, ma non dalle liste del loro istituto, bensì da quelle degli assunti ope legis. Che razza di scelta è? Le valutazioni saranno autoreferenziali e prive di oggettività, quindi non saranno valutazioni. Gli insegnanti avranno a disposizione 500 euro per la loro riqualificazione culturale.

Non ci crederete, ma potranno comprare libri, come anche andare al teatro o ai concerti. C’è lo sgravio fiscale per chi manda i figli alla scuola privata, che è un principio giusto. Ma molto limitato. ll resto è sindacalese. A settembre il governo annunciò che sarebbero stati assunti 150mila insegnanti. A febbraio erano 120 mila. Ora sono diventati 100mila, ma da quando la riforma sarà a regime (quando?). Dietro queste assunzioni non c’è alcuna idea della didattica, ma solo problemi di quattrini. Ma la cosa impressionante è che a sentir queste cose sembrerebbe che in Italia manchino gli insegnanti, invece ce ne sono più che altrove. Gli studenti (dati 2013) sono 7.862.470, gli insegnanti in organico 625.878, i posti di sostegno 97.636 e i dirigenti scolastici 1.584. Da noi il numero di alunni per insegnante è costantemente inferiore alla media dell’Unione europea. Abbiamo più insegnanti degli altri per ciascun alunno. Se ne mancano sempre è perché  l’organizzazione è penosa. Cambiano quella? No, assumono gente. Bandiscono concorsi? No, li prendono dalle graduatorie a esaurimento (nostro e dei nostri soldi).

Quelle graduatorie sono un’infamia. Una colpa dello Stato, che ha illuso chi ne fa parte. Un peso per la scuola, perché dentro c’è un fritto misto con gente che ha fatto concorsi e altra che ha fatto corsi abilitativi aventi valore concorsuale. Un gargarismo burocratico. Assumere senza concorso, nella scuola come nella giustizia come in altri uffici pubblici, non solo viola il diritto dei cittadini che devono avere un servizio, ma anche di quelli che vorrebbero concorrere e non trovano concorsi. Il precariato non è una condizione sociale, ma il frutto dell’illegalità. Una volta assunti continueranno a fare carriera con scatti di anzianità, che favoriscono la letargia culturale, umiliano i bravi insegnanti e mandano al macero le promesse di meritocrazia. Più che cambiare verso, qui si fa il verso al passato peggiore. Ricordate che nella scuola primaria (con i bambini) il 77,2% del personale ha più di 40 anni, con il 39,3% che ne ha più di 50. Nella secondaria gli over 50 sono la metà. Medie nettamente superiori sia a quelle Ocse che a quelle Ue. Nelle graduatorie ci sono coetanei.

Dice Matteo Renzi: servono più insegnanti per tenere aperte le scuole di pomeriggio. Deve averle prese per circoli ricreativi. Gli insegnantí servono per insegnare, e se assumi quelli che hai di già è ovvio che non cambi di un capello la didattica. Ad esempio: chiedere la scuola digitale è inutile se ti ritrovi con insegnanti analogici e libri di testo a quintalate, scaricati sulle spalle dei ragazzi solo per fare una marchetta agli editori. In Italia le famiglie, con minori, dotate di computer arrivano all’84%; quelle che hanno anche accesso a internet al 79%; il 52% dei bimbi ha già usato il computer a 3 anni; e il 32, entro i 6 anni, lo usa tutti i giorni. Nel mondo in cui tutti usano il digitale, dov’è l’oasi d’arretratezza analogica? Nella scuola. Il che falsa anche i conti, perché è vero che la spesa pubblica per l’istruzione, in Italia, ammonta al 4,7% del prodotto interno lordo, mentre la media Ocse è il 5,9. Ma si dimentica di aggiungere che sommando la spesa sopportata dalle famiglie andiamo sopra. Conquistando record di spreco. La valutazione degli insegnanti verrà fatta all’interno dell’istituto. Quindi il cambiamento consiste nel non cambiare. Se stessimo parlando seriamente, invece, il servizio di valutazione andrebbe affidato a privati, così. in caso di cattivo funzionamento, cambi il fornitore, non la legge. Così puoi rescindere un contratto, mentre qui non licenzi nessuno. La valutazione, del resto: a. non serve a nulla se non è standardizzata e paragonabile, pertanto nazionale; b. non si concentra sui risultati, quindi sugli studenti e quel che hanno imparato; c. non è finalizzata ai premi di carriera e alla destinazione dei soldi.

Tutto questo comporta la capacità di distinguere fra una cattedra e 1’altra, fra una scuola e l’altra. Per farlo, seriamente, si deve abbattere il totem fesso e mendace del valore legale del titolo di studio. Prima di quel giorno vedrete sempre lo stesso film: parole di rinnovamento e richieste di rifinanziamento per approdare a realtà di conservazione e dilapidazione. Che sarà pure una tradizione nazionale, ma è anche un crimine contro gli studenti e un modo per affondare la qualità della produzione futura.

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

Davide Giacalone – Libero

Dopo un crescendo rossiniano di effetti positivi e preventivi, il Quantitative easing della Banca centrale europea ha debuttato vedendo scendere le Borse e salire gli spread. La spiegazione si trova passando dalla musica alla poesia, perché abbiamo assistito a un leopardiano “sabato dei mercati”: l’attesa della festa rallegrava i cuori, mentre al suo giungere la mente torna al “lavoro usato”, in questo caso al debito e alla crescita. È la Grecia a innescare il fenomeno, ma sarebbe successo comunque, perché quella (benedetta) operazione affronta il problema della crescita continentale, senza risolvere quello degli squilibri nazionali.

I mitici “mercati”, quell’insieme di operatori sempre pronti a evitare i rischi e cogliere le opportunità, curando il proprio conto economico e fregandosene del resto (come è naturale che sia), sanno bene che la Grecia rappresenta la mancata soluzione della eccessiva disomogeneità interna all’eurozona. Se cedi sovranità monetaria, ma fingi di conservare sovranità politica, prima o dopo le contraddizioni scoppiano. Il governo greco sbaglia, perché crede che sia importante rispettare le promesse (impossibili) fatte agli elettori, laddove, invece, conta il risultato finale, la sicurezza del Paese. Sbagliando incorre nella totale illogicità, pensando di sottoporre a referendum le misure necessarie a fronteggiare la crisi (escludendo un referendum sull’euro). Il giorno in cui si votasse quel referendum non si saprebbe più perché s’è eletto un Parlamento.

La piaga greca si chiuderà. Hanno urgente bisogno di soldi, quindi devono correre a stabilire se accettare le condizioni di chi li presta o suicidarsi nell’uscita dall’eurozona. In entrambi i casi (meglio il primo, per quanto amaro) la mattina dopo i mercati rivolgeranno l’attenzione ad altri  dati.

Ecco quello che ci riguarda: quanto cresce ciascun Paese, investito dall’ondata di liquidità? Se sale più della marea allora è in grado di stabilizzare gli effetti positivi ed erodere il debito. Se sale meno, o solo pari, non appena la marea scenderà sarà nuovamente arenato. La Bce non aiuta chi è in difficoltà, ma tutti gli stati membri. Non può fare diversamente. Aiuta noi e gli spagnoli quanto i tedeschi. Anzi, di più i tedeschi, perché detengono una quota maggiore di capitale Bce.

Ciascuna banca centrale nazionale è autorizzata ad acquistare titoli. In Italia arrivano 140 miliardi, ma solo l’8% è garantito dalla Bce. Il problema non è il rischio default, che non corriamo, ma quello dell’anemia, della reattività solo apparente. Se con quei soldi la Germania crescerà più degli altri, alla fine della cura la distanza sarà aumentata. Ecco perché è da incoscienti festeggiare il ritorno del segno positivo, davanti al prodotto interno lordo, facendo finta di non sapere che siamo a meno della metà dell’ eurozona. E quando i greci avranno finito d’essere la principale attrazione della festa, ci si occuperà di cosa la cura ha portato a ciascuno. Da qui a quel giorno tocca a noi fare quel che non stiamo facendo.

Molla il tesoretto

Molla il tesoretto

Davide Giacalone – Libero

Debito e tesoretto, disastro perfetto. La Banca centrale europea vara il Quantitative easing con stile e tempistica eccellenti. Sarà un successo, perché è già un successo. Ma mentre l’operazione s’appresta a partire, avendo già dispiegato parte dei suoi benefici effetti, il presidente del Consiglio parla di “tesoretto”, ovvero di una provvidenziale quantità d’imprevista ricchezza, sulla quale potere contare. Basta ciò per passare dal trionfo al tonfo.

Mario Draghi ha detto e ridetto che le politiche espansive della Bce, da sole, non bastano. Che servono riforme profonde, sia sui fronti nazionali che sul comune fronte europeo. Che la ripresa sarà illusoria, se quelle riforme non incideranno nel profondo degli equilibri istituzionali, monetari e produttivi. Più è grande il successo della Bce più si deve essere veloci e precisi nell’operare i cambiamenti che l’accompagnino, moltiplichino e stabilizzino. Se, invece, si pensa al tesoretto, se si crede che bastino quei 60 miliardi al mese per risparmiarci dolori e fatiche, allora vuol dire che non s’è capito nulla, ma proprio nulla di come stanno le cose.

A novembre le stime di crescita dell’eurozona, elaborate dalla Commissione europea, vedevano un +1% del pil nel 2015. A gennaio è diventato 1,3. All’inizio di marzo è stimato 1,5. Per l’Italia era +0,6 a novembre. È rimasto 0,6 a gennaio, Ora Matteo Renzi dice che il governo ha fatto i conti prevedendo 0,5. Talché il di più è tesoretto. Ma è una ragionamento sconclusionato: il dato rilevante è la distanza dalla crescita dell’eurozona. Il nostro svantaggio è tale da mettere nelle vele solo una parte del vento Bce, quindi ogni sforzo deve essere fatto per dispiegarle al meglio e per liberarsi il più possibile della zavorra del debito. Invece qui s’avverte la ciurma che, galleggiando la barca, ci si potrà dividere il frutto della bravura e delle politiche altrui.

Capisco tutto, nella polemica politica. Ma tanto è demenziale supporre che siano colpe del governo Renzi le lentezze inquietanti con cui l’Italia prende coscienza e reagisce alla condizione in cui si trova, quanto lo è abbandonarsi a questo giochino della crescita, dicendo: prima colavamo a picco, ora c’è il segno più, prima lo spread era alto, ora e basso. Lo dobbiamo alle scelte europee e a quegli italiani, imprenditori e lavoratori, che massacriamo di tasse e martirizziamo con la burocrazia. Le cose andranno meglio, grazie a loro, ma la circostanza fortunata deve essere sfruttata per riassorbire disoccupazione e rilanciare la produttività. Il che comporta non politiche di redistribuzione, magari con il tesoretto dirottato a pagare il costo di 120mila insegnanti da assumere, condannando la scuola a restare identica, quindi inadatta, ma comporta politiche di alleggerimento fiscale.

Non c’è nessun tesoretto, perché il migliorare dei conti pubblici, derivato da meno interessi sul debito e maggior gettito indotto dalla ripresa, è estraneo alle scelte politiche interne. Se lo scrivano sulla testa, le persone responsabili. Che siano al governo o all’opposizione, a destra o a sinistra, sopra o sotto. Perché se prevale l’eterno partito unico della spesa pubblica, a questo giro ci condanniamo a subire una botta micidiale, quando gli antidolorifici e gli stimolanti Bce saranno finiti. Se Draghi continua a dire che non bastano non è perché vuol fare il modesto, ma perché si rende conto di quanto modesta sia la caratura di certi interlocutori.

Sinistra in confusione totale anche sulla banda larga

Sinistra in confusione totale anche sulla banda larga

Davide Giacalone – Libero

A perdere la memoria si rischia di far sempre gli stessi errori. Cosa che, nel campo delle telecomunicazioni, sta avvenendo. Ronald Reagan non perse lo spirito, quando gli fu diagnosticato l’Alzheimer, e disse che si trattava di una malattia promettente: ogni giorno incontri un sacco di persone nuove. Ma qui siamo all’epidemia, visto che al governo sembra non conoscano il passato e giocano a mosca cieca con il presente. Prima fanno girare l’ipotesi di un decreto legge che stabilisce la data di decesso del solo asset di valore che si trova nel patrimonio di Telecom italia, la rete fissa e le sue terminazioni in rame. Poi smentiscono con risolutezza. Quindi il decreto diventa un «piano», nel quale si leggono quali sono le mete da raggiungere. Che poi sono quelle già stabilite in sede europea, rispetto alle quali siamo indietro.

Come si recupera? a. Il governo non farà scelte tecnologiche, che competono al mercato; b. Investiremo 6 miliardi nelle reti. E che ci comprate? Perché se investite una scelta dovrete pur farla, e, nel caso in cui l’amnesia si sia fatta strada, ricordo a tutti che il governo, per il tramite della Cassa depositi e prestiti, è proprietario di una società (Metroweb) che investe nella rete in fibra ottica. Alla faccia delle scelte che spettano al mercato! Restiamo alle amnesie. Yoram Gutgeld scrive, su Il Foglio, una cosa giusta: se l’ltalia è indietro ciò lo si deve anche al fatto che non abbiamo la televisione via cavo, ovvero reti tv che potrebbero far concorrenza a quelle tlc. Vero. Ma deve essersi dimenticato il perché: non le abbiamo perché fu protetto il mercato della Rai, violando il diritto ad operare di imprenditori privati. Che esistevano, eccome. Nel 1973 Ugo La Malfa ci fece cadere un governo Andreotti, proprio perché il ministro Giovanni Gioia difendeva un monopolio già allora anacronistico.

Che fare? L’Italia è molto indietro, nella penetrazione della larga banda, ma quella che esiste è occupata solo in parte. Vogliamo la casa più grande, ma già viviamo nel tinello di quella piccola. Come si spiega? Capita perché, in questi giorni, faccio avanti e indietro con il portone d’ufficio per ritirare le CU (certificazioni uniche), e mi va anche bene, perché se sono fuori, essendo raccomandate con ricevuta di ritorno, mi tocca andarle a prendere all’ufficio postale. Per essere in regola con un adempimento fiscale, relativo a soldi già incassati e ritenute già pagate, accumulo carta. Tale carta andrà al commercialista, ma già si sa che è in parte irregolare, perché il governo ha reso noto il modello da utilizzare solo il 23 febbraio, talché molti non si sono adeguati. Il commercialista trasmetterà tutto al fisco, il quale ci darà una dichiarazione non pre­compilata, ma pre­complicata, che butteremo nel cestino, giacché non contiene la detrazione delle spese. Ecco come si spiega: un’amministrazione pubblica che non lavora in digitale.

Non a caso Gutgeld, che fa il consigliere a Palazzo Chigi, neanche sa che tutte le scuole sono già connesse in rete, mentre crede che scarseggino. E non lo sa perché le scuole ci fanno solo l’amministrazione del personale. Ecco, è lì che il governo deve lavorare, spingendo l’offerta digitale, creando interesse alla capillarizzazione delle reti e adottando i pagamenti elettronici presso le sedi proprie. Senza giocare al piccolo comunicatore. E senza coltivare sospette amnesie.

L’Inps pensa alla tassa per dare uno stipendio a chi non lavora

L’Inps pensa alla tassa per dare uno stipendio a chi non lavora

Davide Giacalone – Libero

L’Italia ha bisogno di chiamare molte più persone al lavoro, non di inventare un reddito per chi non lavora. Finché coltiveremo l’illusione che il reddito sia un diritto e la produzione una eventualità continueremo a perdere competitività, impoverendoci. Nella sua prima intervista da presidente dell’Inps il prof. Tito Boeri dice, da par suo, almeno quattro cose interessanti. La prima, però, merita subito che la precisi e chiarisca: «Bisognerebbe spendere meglio le risorse pubbliche, prevedendo ad esempio un reddito minimo per contrastare le situazioni di povertà, finanziato dalla fiscalità generale». Se per reddito minimo s’intende una retribuzione base per chiunque lavori, è un conto. Da fare. Se s’intende quello che in politichese chiamano «reddito di cittadinanza» è tutt’altro, e va malissimo.

Con la partenza (positiva, se parte) del contratto di lavoro a tutele crescenti, per cui si cancella la non licenziabilità e si acquistano diritti con il passare del tempo, è naturale che cambino gli ammortizzatori sociali e sparisca la cassa integrazione. Ciò comporta disponibilità di fondi adeguati. E già sappiamo che sulla carta ci sono fino all’anno prossimo, mentre dal 2017 scarseggiano e la copertura, in caso di disoccupazione diminuisce. Male, perché son nozze con i fichi secchi. Può starci che si fissi un reddito minimo, che sia tale di nome e di fatto. Come è successo in Germania. Se, invece, andiamo al reddito di cittadinanza, cioè ai soldi elargiti per il solo fatto di esistere, allora ricorderemo i forestali della Calabria come preclaro esempio di sana amministrazione e lodevole dedizione al lavoro. Se si accedesse a una follia di quel tipo, restando ignoto dove mai si possano prendere i soldi, rivaluteremmo le pensioni regalate. Voglio credere che Boeri non abbia sostenuto nulla di simile, ma sarà bene lo spieghi anche agli altri. Mi domando, altrimenti, perché mai un giovane, o anche un maturo, debba andare a faticare per incassare 100 o 200 euro in più di quelli che riceverebbe stando con le mani in mano. O, meglio, usandole per fare lavori in nero. Senza contare la fucina delle truffe, per cui un solo posto di lavoro genera un pensionato, un disoccupato e un occupato, dove uno è pagato dall’impresa e gli altri mantenuti dal contribuente.

Giusta l’idea di rendere flessibile l’età pensionabile, nel senso che ciascuno ha diritto di ritirarsi quando vuole, salvo il fatto che riscuoterà solo in ragione di quel che ha versato. E bene la trasparenza dei dati, che è la sola cosa che manca per avere ciascuno piena contezza di quanto prenderà di pensione. Non è questione di buste gialle o di pin, di carta o d’informatica, perché ci sono centinaia di società private che rendono disponibili, ai loro clienti, quelle previsioni. È la cosa più facile del mondo. Ma a una condizione: che siano chiari e trasparenti i dati. Questo è il problema dell’Inps. Sono sicuro che Boeri farà un buon lavoro, diradando le nebbie. Fatte queste due cose, resi noti i dati e flessibile l’età di uscita, però, ciascuno scoprirà d’essere povero. Le pensioni del futuro saranno più povere. Quelle giuste cose, quindi, hanno un senso non se servono a diffondere la depressione, ma se incentivano al risparmio integrativo. La qual cosa è possibile solo se cala la pressione fiscale. Il che è l’opposto del regalare redditi a chi non lavora. Per tornare da dove siamo partiti.

Boeri, infine, assicura di volere intervenire anche sulle pensioni in essere, laddove la distanza fra il capitale versato e il reddito che se ne ricava è eccessivo. Non illegale, perché tutto discende da leggi dissennate (modello reddito di cittadinanza), ma eccessivo. Così attacca il totem dei diritti acquisiti. Ha ragione e fa bene. Pronti a sostenerlo. Ma qui mi si consenta di avere meno sicurezze, giacché gli sarà difficile trovare qualcuno disposto a fare quel che è necessario. Non dimentichiamoci che la destra alzò le pensioni minime e la sinistra ha regalato gli 80 euro. Il partito della spesa pubblica è piuttosto ben attrezzato.

Assurdo combattere l’Europa, non ci sarà ripresa senza Bce

Assurdo combattere l’Europa, non ci sarà ripresa senza Bce

Davide Giacalone – Libero

Fra quanti sostengono il governo, specie all’interno del Partito democratico, ve ne sono non pochi che si rifiutano di riconoscere meriti all’azione dell’esecutivo, cominciando a non sopportarne più i (ai loro occhi) demeriti. Singolare, quindi, che fra chi si oppone al governo, specie leghisti e ortotteri, ci sia chi s’affanna nell’attribuirgli meriti che non ha. Perché la ripresa c’è, la dobbiamo alle politiche espansive della Banca centrale europea e ne approfitteremo, per nostre colpe, solo a metà. Accusare il governo d’essere «servo dell’Europa», o proporre come risolutiva l’uscita dall’euro, significa non accorgersi dell’evidenza: la ripresa viene da lì, mentre le arretratezze stanno qui.

Come è possibile un simile abbaglio? Una fregnaccia s’aggira per l’Europa: l’idea che le democrazie non contino più, che gli elettori siano superflui, che le regole dell’economia e dei bilanci abbiano usurpato le sovranità nazionali, a loro volta viste come fonte d’identità e ricchezza, in una cancellazione totale della memoria. La leggenda è bella e accattivante, perché consente ai ricchi di far la parte dei depredati e ai viziati di far quella degli oppressi. Tale confusione porta certi slogan ad essere, a seconda dei casi e delle nazionalità, sulla bocca dell’estrema destra o dell’estrema sinistra. Infatti la destra francese o italiana ha guardato con trasporto alla sinistra greca, incassando la delusione per i «cedimenti». Ma può un popolo votare contro i propri debiti? Quella non è democrazia, è surrealismo.

In passato i nazionalismi hanno fatto valere la forza del sangue e la voglia di espandersi territorialmente, provocando guerre e spargimenti di sangue. Quel che ieri erano confini territoriali oggi lo sono finanziari: non si cancellano senza dolore. Noi europei, tutti assieme, siamo il 7 per cento della popolazione mondiale (noi italiani siamo lo 0,8 per cento, i tedeschi l’1,1 per cento, microscopici), produciamo il 25 per cento della ricchezza globale, ne deteniamo il 30 per cento e consumiamo il 50 per cento della spesa sociale. A far la parte dei poveri non siamo credibili e per giunta viviamo al di sopra delle nostre possibilità. Semmai c’è un problema di giustizia sociale.

Avendo usato la prima metà del secolo scorso per massacrarci, abbiamo pensato bene d’istituzionalizzare la convivenza pacifica. Quando la guerra fredda s’è scongelata, aprendosi le frontiere e partendo la globalizzazione, ci siamo accorti che, pur forti e ricchi, non lo eravamo abbastanza per bilanciare la forza dei mercati e della finanza. Sapete qual è il bello? Che l’Unione europea era il rimedio, così come l’euro era l’antidoto alla supremazia interna tedesca. Se le cose sono andate diversamente non è colpa né del destino né dei tedeschi, ma di classi dirigenti che hanno perpetuato la loro inutile sopravvivenza mettendola in conto alla spesa pubblica improduttiva. Così siamo arrivati a un sistema che effettivamente non funziona, ma non per eccesso di tecnocrazia, bensì per deficit di democrazia. Giacché gli europei non eleggono quel che conta (un governo europeo), ma votano per quel che non sapendo cos’altro dire va cianciando delle colpe europee. Che sono nazionali.

Vale per tutto il continente. Francia e Italia sono i due giganti schiacciati dalle proprie bubbole. Che oggi concimano il terreno alle forze anti sistema, i quali scoprono la comoda via d’identificarlo con l’Europa. E chi se ne frega se le sole politiche espansive esistenti sono quelle della Banca centrale europea, si ripudi la bandiera blu per ripudiare gli obblighi derivanti dai debiti. Che la mattina dopo sarebbero insostenibili, difatti i greci, che sono demagoghi ma non fessi, se ne guardano bene. Occhio alla fregnaccia, perché ha la grande forza delle banalità che sembrano sgominare le complessità. Forza che, sommata ai difetti strutturali della costruzione europea, può produrre effetti molto dolorosi.

Così Palazzo Chigi prepara la rottamazione di Telecom

Così Palazzo Chigi prepara la rottamazione di Telecom

Davide Giacalone – Libero

Il passo in avanti è notevole: alla merchant bank di Palazzo Chigi ora si parla l’inglese. Il decisionismo ha anche prodotto un’innovazione: non ci si limita ad appoggiare le scalate a opera di sconosciuti che operano dall’estero (come all’epoca dei “capitani coraggiosi”); non ci si produce in piani da suggerire e imporre ai diretti interessati (come all’epoca del “piano Rovati”); ora si pensa di procedere direttamente per decreto legge, seppure in presenza di una smentita del sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, Antonello Giacomelli. Inglese più gazzetta uflfciale. ll bello è che il tema è sempre lo stesso: Telecom ltalia. Prima da spolpare, trasferendo all’estero e ai privati la ricchezza degli italiani. Poi da indirizzare e sottrarre alla gestione dei proprietari, portando Marco Tronchetti Provera alle dimissioni. Ora da condurre al fallimento (in gran parte meritato), mediante rottamazione del solo asset che fa da garanzia all’enorme debito, la rete.

Spero non sfugga la curiosa coincidenza: assieme al trapelare di tale operazione apprendiamo che è pronto il fondo “salva imprese” (dei cui difetti e pericoli abbiamo già scritto), finanziato con soldi pubblici, che più nega di volere essere una nuova Gepi e più ce ne sfuggono le differenze, e che dovrebbe occuparsi, tra le prime cose, della crisi Sirti. Ovvero della società, un tempo Iri, che lavora(va) alle reti di telecomunicazione. Tutti i salmi finiscono in gloria e tutti i (falsi) trionfi di mercato finiscono con ristatalizzazioni. Significativo, inoltre, che dopo avere provato a sposare Telecom ltalia e Metroweb, la cui proprietà è riconducibile allo Stato, e dopo avere ricevuto un rifiuto, si supponga di operare con un decreto per rottamare la rete del mancato marito, rivalutando quella della sposa non impalmata.

Veniamo alla sostanza: avrebbe ragione il governo ad intervenire per promuovere il rimodernamento delle reti di telecomunicazione? Sì. Quell’arretratezza è una palla al piede dell’Italia. Tale intervento può e deve essere articolato su due fronti. Il primo consiste nel rimodernare la pubblica amministrazione e moltiplicarne l’offerta digitale. Più cose il cittadino può fare on line, più c’è domanda di reti digitali, più è conveniente investire nel renderle capienti e capillari. Il secondo fronte consiste nel rendere più convenienti gli investimenti, mediante defiscalizzazioni, e meno estenuanti le pratiche burocratiche. C’è una terza cosa che lo stato deve fare: produrre norme chiare (in gran parte d’importazione europea) e far rispettare le regole.

Facesse queste cose, sarebbe da benedire. Non servono decreti legge, però. Se si pensa a quello strumento è perché si ha in mente un altro mestiere: stabilire come devono essere falte le reti, quali i programmi d’investimento, quale la redditività accettabile. Che è ilmestiere delle imprese e del mercato. Scegliere fra fibra ottica e reti in radiofrequenza (o, meglio, sulla proporzione del mix) è il mestiere del mercato. Tanto che un privato s’è fatto avanti chiedendo di acquistare una società statale d’impianti televisivi, ricca di punti d’illuminazione. Si può ben dire di no, ma aggiungendo in quale altro modo mettere quella ricchezza al servizio della digitalizzazione delle reti. Se si risponde: no, perché abbiamo in mente un’altra rete, si va alla statalizzazione. Il trionfo dei mercati senza mercato. Non mi stupisce che a questo antico mito italico si ritorni mediante anglofoni che usano il potere politico. Avverto solo che questo film lo abbiamo già visto. La prima versione era neorealismo ricostruttivo. La seconda temo sia un remake con sottotitoli. Per non capenti.

Rai Way, comunicazioni arretrate

Rai Way, comunicazioni arretrate

Davide Giacalone – Libero

Rispondere all’offerta di acquisto dicendo che il governo aveva stabilito di tenersi il 51% non ha alcun senso, né legittimità. Ciò non vuol certo dire che la sola risposta legittima e sensata sia positiva, ma anche in caso di rifiuto si deve affrontare il tema che presiede all’offerta pubblica di acquisto e scambio, con cui Ei Towers chiede di acquisire il controllo di Rai Way. Cosa fare degli impianti e come valorizzarli. Il governo ci pensi bene, prima di rispondere. Il resto, a base di nazareni morti o risorti e pro o anti­berlusconismi, è reazione tipica degli orecchianti: non sapendo di che si parla, la buttano in caciara.

La prima cosa da capire è che il pluralismo televisivo e la libertà d’informazione non c’entrano niente. Non si confonda il postino con il contenuto del pacco. Le regole di funzionamento dei fornitori di rete, di quei soggetti che non fanno televisione, ma trasportano il segnale televisivo, sono fissate per legge. Il fatto che Rai e Mediaset abbiano entrambe due società delle reti (cosa che si riproduce anche per alcuni più piccoli) ha a che vedere con la storia, con il modo in cui il mercato s’è formato, non con le regole del suo funzionamento.

La seconda cosa è il 51%, che taluni credono sia stato deciso resti in mano pubblica. Non è così. Nel novembre 2014 la Rai portò in Borsa il 35% di Rai Way. Lo fece per compensare la riduzione del trasferimento del canone (nel senso che il governo ne trattenne una parte per altre spese). Prima di quel passo la Rai doveva essere autorizzata dall’azionista, che è il ministero dell’economia, vale a dire il governo. Il governo autorizzò una vendita non superiore al 49%. Tutto qui, mica è una legge. Ora c’è un operatore privato che offre di comprare almeno il 66,67% delle azioni. Non ha senso rispondere: avevamo detto di no, perché nessuno aveva offerto nulla e quell’indicazione si riferiva alla quotazione per far cassa e avere soldi per spesa corrente. Chi cita quel decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), quindi, ha le idee confuse.

Andando in Borsa, però, Rai Way non si limita a foraggiare il vorace ruminante di quattrini, ovvero la Rai, ma entra ufficialmente nel mercato. Il che comporta qualche conseguenza. Una di queste è che taluno offra di comprare. E ci siamo. Ma se non ha a che vedere con le televisioni e si lavora in un mercato regolamentato, perché chiede di acquistare quel che già ha? Ei Towers e Rai Way, infatti, fanno lo stesso mestiere. Risposta: a. nel caso minimo, perché gestendo più impianti, per più clienti, si creano sinergie che possono far diminuire i costi e crescere i profitti; b. nel caso massimo, il più interessante, perché le sinergie si allargano al settore delle telecomunicazioni.

Questo è il tema che il governo non può eludere: l’Italia delle comunicazioni è arretrata; eravamo all’avanguardia e abbiamo smesso, per lustri, di investire nelle reti di telecomunicazione; invece si è investito in quelle televisive; se pensiamo di recuperare gli squilibri digitali interni (digital divide) mediante gli investimenti degli operatori telefonici (con Telecom distrutta da politicanti e corsari), magari in fibra ottica, ci rivediamo fra dieci anni; se, invece, utilizzassimo le radiofrequenze digitali potremmo tagliare costi e tempi, offrendo in fretta soluzioni accettabili a imprese, scuole, sanità, cittadini. In ciò consiste la più ghiotta sinergia.

Anche in questo caso non ha senso che il governo risponda: ho deciso di tenermi il 51%. Vor­rebbe dire che non hanno capito la domanda. Possono rispondere: 1. no, lo facciamo da soli (poi, però, spiegano dove trovano i soldi e perché buttano via un premio del 52,7% rispetto al prezzo di quotazione, di soli tre mesi fa); 2. no, lo facciamo fare a un altro (poi raccontano scelto come e da chi finanziato); 3. no, perché c’è chi offre di più (nel qual caso il 51% si conferma la risposta sbagliata). La terza ipotesi è la sola ragionevole, ma ce n’è una migliore: 4. sì, ma se ti prendi tutto devi anche sottoscrivere impegni relativi a quantità e tempi degli investimenti, perché non ci serve trasferire una rendita, ma è bene che sia un privato a far rinascere l’Italia digitale.

Nel frattempo, giusto per non lasciare infezioni in giro, meglio chiudere l’assegnazione delle frequenze per televisioni e radio, in grave ritardo. Questo è il tema. Il governo ci pensi, mentre gli altri, in cortile, giocano con il pallone sbagliato.

Mala scuola

Mala scuola

Davide Giacalone – Libero

L’ultimo proclama recita: d’ora in poi si assumerà solo per concorso, nella scuola italiana. Per la verità quel “ora” data dal 1948, perché tale modalità è scolpita nell’articolo 97 della Costituzione, «salvo i casi previsti dalla legge». E quei casi hanno prodotto assunzioni di massa. È finita? Neanche per idea, perché si dice che da ora in poi ci vorrà il concorso, ma prima di “ora” c’è l’adesso e la prossima infornata di insegnanti sarà ancora ope legis, con apposito decreto legge il prossimo Consiglio dei ministri. Quanti insegnanti assumeranno, senza concorso? Neanche questo si sa, perché il numero varia da 120 a 148mila, ma Renzi ha detto che si attingerà a tutte le graduatorie esistenti, in cui si trovano al momento circa 500 mila insegnanti. Quando si sarà deglutito questo enorme rospo, ammesso che i ricorsi non provochino il rigurgito, non ci saranno altri posti, altre cattedre da assegnare. Per anni. A meno che non si voglia far crescere la spesa pubblica fino alle stelle, con conseguente, siderale, pressione fiscale. “Ora”, quindi, nel vocabolario della politica, significa: poi, un giorno, forse.

Con questo provvedimento si metterà fine alla precarietà e alle supplenze, dicono dal governo. No, procedendo in questo modo si rende sempre più precaria la formazione scolastica, cui suppliranno (con viaggi di studio e integrazioni private) solo le famiglie che possono permetterselo. La politica scolastica concepita come politica per chi nella scuola lavora, anziché per chi nella scuola studia, produce discriminazione a favore dei tutelati e a sfavore dei meritevoli. È una politica che segna il trionfo della coalizione fra somari, impiegati senza voglia né vocazione all’insegnamento e famiglie che alla scuola chiedono promozioni e pezzi di carta. La grande alleanza antimeritocratica. Con scorno di insegnanti e studenti interessati al sapere.

Come si potrebbe rimettere la scuola sui sani binari dell’apprendimento e della selezione? Tre cose, giusto per cominciare, e lasciando da parte la vera rivoluzione: l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

1 . Standardizzare le valutazioni e monitorare in continuazione non solo i singoli istituti e studenti, ma anche i risultati che ottengono dopo essere usciti da scuola. Continuiamo a considerare paragonabili numeri, come il voto di diploma o quello di laurea, che paragonabili non sono. Da una parte si va larghi, dall’altra si gioca a far i severi, nell’insieme si ottengono numeri privi di senso comune. Il che vale anche per la valutazione dei docenti che, affidata ai dirigenti scolastici, risentirà di dinamiche solo marginalmente culturali o professionali. La standardizzazione delle valutazioni è pratica corrente in ogni processo produttivo che superi il livello degli scarpari. La si adotti anche a scuola, nel tempo sarà una preziosissima banca dati.

2. Soldi e carriere vadano dove le cose funzionano meglio. Un docente che ottiene risultati ragguardevoli (misurando i suoi alunni nel tempo) merita riconoscimenti economici e di carriera. Lo stesso per una scuola intera. Dove i risultati sono troppo sotto la media è segno che si deve mandare a casa insegnanti e dirigenti. Siccome il prossimo passo consisterà nell’assumerli in blocco, senza minimamente valutarli, si sta andando in direzione opposta.

3. Adottare massicciamente il digitale, anche per ridurre lo spreco di denaro, a carico delle famiglie, che comporta l’acquisto di testi scolastici talora sconfinanti nel ridicolo. Gli studenti sono ovunque digitalizzati, è la scuola ad essere rimasta analogica. Basta alibi pauperistici, grazie ai quali le Regioni stanno buttando valangate di quattrini nell’acquisto di ferraglia inutile, con gran goduria (riconoscente) dei venditori privati.

Non è tutto, non basta, ci vuole di piu. Lo so. Ma sarebbero provvedimenti che dimostrerebbero non solo la reale volontà di cambiare, ma anche di sapere come si può farlo. Richiederanno tempo, per produrre frutti, ma si sarà ben seminato. Qui, invece, si dice “ora” per significare “un di”, nel frattempo lasciando che la scuola sia redistributrice di spesa pubblica. Una fucina di mantenuti che è sempre meno possibile mantenere.