manovra

Una frustata chiamata Irap

Una frustata chiamata Irap

Il Foglio

Matteo Renzi ha annunciato un progetto strutturale di grande importanza, ossia l’abolizione dell’Irap sui costi del lavoro, che consentirebbe di togliere di mezzo una tassazione dei costi di produzione che va pagata anche dalle imprese che sono in perdita. L’onere di questa abrogazione sarebbe complessivamente di 6,5 miliardi, secondo i calcoli del Sole 24 Ore. Ma ciò comporterebbe di immaginare che venga abrogato lo sgravio dello scorso anno, che dovrebbe valere circa 2,5 miliardi. E probabilmente ciò ancora non basterebbe, dato che attualmente il gettito sul lavoro dell’Irap è attorno ai 12-13 miliardi.

C’è. dunque. nell’immediato, un problema di copertura. Ma la linea che viene adottata è quella giusta e potrebbe essere completata in un biennio, anziché in un anno, con effetti equivalenti, purché il provvedimento sia reso certo e non sia coperto con imposte sul contribuente italiano, ma con una riduzione delle spese o con privatizzazioni e condoni che sterilizzano l’effetto negativo sul pil, generando un rientro di entrate permanenti (come nel caso degli accordi sul rientro di capitali tenuti in Svizzera). Una volta abrogata la tassazione dei costi del lavo- ro con l’Irap ci sarà il problema di dare alle regioni un contributo equivalente, da destinare alla spesa sanitaria, senza però aumentare l’ammontare dei contributi sociali. Cio puo avvenire togliendo da quelli nazionali, le aliquote che non hanno una base nel diritto a pensioni o indennità di malattia oppure invalidità. L’Irap rimanente è un tributo sul reddito, detraibile per gli accordi internazionali sulla doppia imposizione.

Questa riforma, così, può avere un importante effetto sugli investimenti in Italia da parte delle imprese multinazionali il cui carico fiscale risulterà così ridotto sia sul lavoro sia sul profitto. E, allo stesso modo, favorirà il mantenimento in Italia delle produzioni di servizi di lavoro qualificato, come ad esempio quelli dei centri manageriali e di ricerca, delle attività finanziarie e delle aziende che producono beni di qualità che maggiormente contribuiscono alle esportazioni, come molte dell’elettronica e della meccanica. Certo, rimangono ancora interrogativi a cui rispondere a partire da quello sull’onere da coprire e sul modo di finanziario. Ma la spinta strutturale alla crescita con occupazione può essere molto rilevante grazie alla mossa di Renzi.

In cerca di coperture

In cerca di coperture

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Una manovra “espansiva” per sostenere la domanda interna attraverso la doppia operazione Irpef-Irap è tale solo se si basa su coperture certe. È il compito con il quale si stanno misurando in queste ore i tecnici dell’Economia. Con alcune incognite che andranno chiarite nelle prossime ore. Poiché la legge di stabilità oggi all’esame del Consiglio dei ministri per 11,5 miliardi è finanziata in deficit, vi è da supporre che il governo abbia su questo punto ottenuto una via libera (ancorchè informale e non ancora ufficiale) da Bruxelles. La conferma che staremo comunque sotto il 3% anche nel 2015 è da questo punto di vista una garanzia, fermo restando che è tuttora sub iudice il giudizio che la Commissione esprimerà a novembre, relativamente alla deviazione decisa dall’Italia, rispetto al target del deficit strutturale. Il negoziato – a tratti “muscolare” ma che corre per le vie ordinarie nella sostanza – è in corso, ed è probabile che il compromesso venga alla fine raggiunto (ma non subito) sullo 0,25% di impegno aggiuntivo chiesto già in via informale nei giorni scorsi. Stando alle ultime indiscrezioni, il governo avrebbe già individuato una sorta di «dote di riserva» in manovra per farvi fronte. Sul tutto aleggia la vera questione: appunto le coperture, fondamentali per la sostenibilità dell’intera manovra. Il focus è allora tutto sull’imponente riduzione della spesa corrente annunciata due giorni fa dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi: 16 miliardi.

Alla spending review è affidato il compito di stabilizzare il bonus Irpef da 80 euro per i redditi fino a 26mila euro, e finanziare la più importante novità emersa finora dal work in progress della manovra: l’eliminazione della componente del costo del lavoro dal calcolo della base imponibile Irap, per un totale di 6,5 miliardi. E poi l’annuncio, anch’esso importante, della totale decontribuzione per tre anni per i nuovi assunti. Misure fondamentali, a lungo rivendicate dalle imprese, passaggio importante per cominciare a ridurre una pressione fiscale complessiva che, se si guarda al cosiddetto total tax rate calcolato dalla Banca mondiale in percentuale sui profitti, supera l’impressionante percentuale del 65 per cento. Una scommessa da giocare con coraggio e decisione. L’assoluta certezza delle coperture è precondizione essenziale per rendere credibile ed efficace l’intera manovra. Meno spesa corrente per finanziare il taglio delle tasse: assioma fondamentale, più volte indicato dalla Banca d’Italia, ma anche dalle principali istituzioni internazionali, dal Fmi all’Ocse. Ad adiuvandum, a consuntivo, la dote complessiva delle risorse a disposizione potrà giovarsi dei proventi recuperati dalla lotta all’evasione. Sarà una vera «spending review», che azioni il bisturi del taglio selettivo, in un’ottica di razionalizzazione e redistribuzione delle risorse? La logica dei tagli lineari, la più adottata finora, comporta al contrario diversi rischi: poiché si colpiscono anche le spese “buone”, l’effetto può essere anch’esso recessivo.

L’attesa sulla composizione dei tagli è dunque pienamente giustificata. Una volta approvata la manovra, la partita a ben vedere sarà ancora al fischio d’inizio, poiché una così imponente sul fronte della spesa, per passare indenne dalla probabile raffica di emendamenti che la investiranno nel corso dell’esame parlamentare, necessita di una maggioranza assolutamente coesa. È lecito prevedere fin d’ora che soprattutto al Senato non sarà propriamente una passeggiata. Il lasso di tempo che il governo si accinge a ritagliare tra il varo della legge di stabilità e la trattativa vera e propria con Bruxelles dovrebbe servire appunto (anche per effetto della spending review) a superare le residue obiezioni sulla decisione del governo di rinviare il pareggio di bilancio al 2017, con annessa la scelta di confermare (al momento) allo 0,1% del Pil la correzione del deficit strutturale per il prossimo anno. Si invocano, e a ragione, le circostanze eccezionali previste dall’attuale disciplina di bilancio europea. Se il punto di caduta sarà sui 2-2,4 miliardi chiesti alla fine da Bruxelles, la soluzione di compromesso è a portata di mano. E così a novembre la nuova Commissione europea potrà difendere, almeno formalmente, il suo ruolo di guardiano dei conti, rinviando di fatto alla prossima primavera il giudizio più completo e articolato sia sulla legge di stabilità che sulla persistenza degli «squilibri macroeconomici eccessivi», denunciati lo scorso marzo. E il governo potrà comunque salvaguardare nella sostanza l’integrità della sua manovra “espansiva”.

Il vero peso delle misure in arrivo

Il vero peso delle misure in arrivo

Luca Ricolfi – La Stampa

Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista». Ma in che cosa consiste la manovra? Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo. Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti. Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili. Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi. Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro). Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.

Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima). Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni? Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? È realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato?

Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale. Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili. Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future. Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato.

Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra? Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni.

La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.

La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).

È proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato. Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.

Manovra in deficit, aspettando Bruxelles

Manovra in deficit, aspettando Bruxelles

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

In attesa che la nuova Commissione Ue dica la sua sulla legge di stabilità, il governo gioca d’anticipo con la mossa congiunta Tfr e bonus Irpef (i 180 euro promessi da Matteo Renzi) e prova a impostare una manovra “espansiva”, per finanziare riduzioni di imposta e nuove spese. Il via libera di Bruxelles tuttavia non è del tutto scontato.

Il nuovo quadro macroeconomico contenuto nella Nota di aggiornamento del Def (Pil a -0,3% quest’anno e a +0,6% nel 2015) con il deficit che staziona tra il 3 e il 2,9%, non offre a bocce ferme grandi margini di azione. Si prova a utilizzare quei margini di deficit che potrebbero aprirsi l’anno prossimo tra il valore del “tendenziale” e quello del “programmatico”, tenendo conto che al momento la manovra da 20-22 miliardi risulta coperta solo per 13 miliardi. Spending review, sforbiciata alle agevolazioni fiscali, maggiore Iva attesa dallo sblocco dei debiti commerciali della Pa, lotta all’evasione, ma anche risparmio in conto interessi. Il tutto senza sforare il tetto massimo del 3% del Pil.

In poche parole, da Roma parte questo messaggio diretto a Bruxelles: l’economia italiana è alle prese con la miscela esplosiva di recessione e deflazione, come confermano le anticipazioni diffuse ieri dall’Istat relativamente al terzo trimestre del 2014. La legge di stabilità non opera correzioni ai saldi di finanza pubblica, ma è interamente “espansiva”. Serve cioè a rendere strutturale il bonus Irpef da 80 euro per i redditi entro i 26mila euro annui, a ridurre di 2 miliardi l’Irap e a finanziare nuove spese: 1 miliardo per allentare il patto di stabilità interno, 1,5 miliardi per gli ammortizzatori sociali, 1 miliardo per la scuola. Si prova in poche parole a scommettere sull’auspicato aumento del Pil, per ora inchiodato nel 2015 attorno a un modesto +0,6%, grazie appunto alle misure che stanno per essere inserite nella legge di stabilità, e all’effetto atteso dalle riforme strutturali in cantiere, in primis il lavoro.

Schema che ha indubbiamente una sua logica, percorso che in parte il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ha già anticipato nelle grandi linee al nuovo presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, e che ora dovrà essere “validato” da Bruxelles. Non mancano gli elementi di rischio, poiché sulla carta (qualora prevalesse un orientamento più restrittivo all’interno della Commissione) a novembre la Commissione potrebbe anche invitare il governo a “riscrivere” in tutto o in parte la legge di stabilità. D’accordo le circostanze attenuanti in presenza di una prolungata fase recessiva – potrebbe obiettare l’esecutivo comunitario – ma l’Italia risulterebbe inadempiente rispetto ai parametri europei, che possono e devono essere interpretati in modo flessibile ma che tuttavia (fino a quando non verranno modificati) potranno sempre essere posti nuovamente con decisione sul tavolo del confronto bilaterale con il nostro paese. Pur rispettando il tetto del 3%, il deficit nominale resterebbe sempre nei dintorni del tetto massimo. Inoltre non sarebbe rispettata la regola del debito, saremmo comunque in presenza di squilibri macroeconomici eccessivi, non assicurando che la riduzione del deficit strutturale converga verso l’obiettivo di medio termine nei tempi concordati. Lettura eccessivamente ortodossa della disciplina di bilancio, certamente, ma non la si può escludere a priori.

Viceversa – ed è auspicabile che la decisione di Bruxelles vada in questa direzione – verrebbe concessa una sorta di apertura di credito, se pur condizionata e a tempo, nei confronti del nostro paese. Via libera in sostanza alla manovra “espansiva”, soprattutto se accompagnata dalla riforma del mercato del lavoro, e sospensione del giudizio fino alla prossima primavera quando si potranno cominciare a verificare sul campo gli effetti della strategia di politica economica messa in campo dal governo. Un sì condizionato, dunque, e questa pare al momento l’ipotesi più probabile. Sbocco atteso della trattativa con Bruxelles, che tuttavia non ammette ulteriori deviazioni. C’è da chiedersi ad esempio quale sarebbe il giudizio di Bruxelles qualora la riforma del lavoro perdesse pezzi fondamentali nel corso dell’esame parlamentare, o se il fuoco di fila degli emendamenti alterasse l’impianto di partenza della stessa legge di stabilità. Percorso a ostacoli, dunque, meta incerta, obiettivo arduo la cui realizzazione presuppone una forte determinazione politica e un deciso sostegno parlamentare.

La recessione ‘salva’ l’Italia, si allontana l’ipotesi della manovra

La recessione ‘salva’ l’Italia, si allontana l’ipotesi della manovra

Marco Zatterin – La Stampa

C’è la recessione, ma c’era anche di peggio. L’azienda Italia poteva produrre qualche magro decimo di punto di crescita e allora, salvo brusche correzioni di spesa e entrate, avrebbe corso il serissimo rischio di sentirsi chiedere altri «sforzi aggiuntivi» per realizzare gli impegni di bilancio presi coi partner europei. Invece no, il copione ora è un altro. Più fonti notano che due trimestri col Pil in rosso possono essere «fattori mitiganti» nella valutazione della contabilità nazionale e dunque che, qualora si arrivi agli esami autunnali senza le carte in regola, Bruxelles potrebbe fermarsi ai rimbrotti. Così, almeno per la competenza 2014, una manovra correttiva costretta dal rispetto degli eurovincoli potrebbe essere in buona sostanza scongiurata.

Sono sensazioni e non verdetti. Il dibattito sulle correzioni possibili a cui potrebbe essere costretto il governo Renzi ha animato l’estate, coi palazzi romani attenti a smentire l’esigenza di tagli improvvisi o tassazioni impopolari. La stessa Commissione non ha in questa fase un vero potere cogente, si limita a misurare la pressione e poi a dire la sua sulle condizioni di salute del paziente. Ci sono però dei percorsi su cui ci si è accordati nei palazzi a dodici stelle. Tradirli minaccia la credibilità e, allo stesso tempo, può comportare un costo secco se la sfiducia dei mercati si traduce in un più oneroso servizio del debito.

L’Italia corre sull’orlo del crepaccio. Da tempo. Bruxelles ha avuto parole di apprezzamento per il programma di riforme di Matteo Renzi e ne chiede una rapida attuazione. Roma punta molto sugli investimenti e la crescita, e sembra aver allentato sulla flessibilità, consapevole che l’ossigeno ottenibile da questa fonte è minore di quello che si potrà avere dal piano da 300 miliardi che la Commissione Ue ha promesso entro metà febbraio. Il problema è arrivarci senza inciampi. E il nodo centrale è il saldo di bilancio strutturale. La tabella originale prevedeva il raggiungimento del pareggio nel 2014. Roma ha chiesto il 2016, l’Ue le ha concesso il 2015. L’ultimo dato nazionale sul deficit strutturale (senza spesa per interessi e una tantum) è di 0,6% del Pil quest’anno che si scontra con lo 0,8 della stima ufficiale della Commissione (circa 3 miliardi di differenza secondo le previsioni di maggio). Il divario per l’anno prossimo è dello 0,5 (0,2 dicono i nostri; 0,7 afferma Bruxelles), cioè 7,5 miliardi, che salgono a 10 se vuole davvero il pareggio.

Ancora. Il Patto di Stabilità richiede un aggiustamento del debito in eccesso ad un passo di un ventesimo l’anno dal 2016, ma anche che per i paesi in fase di transizione perché usciti dalla procedura di deficit eccessivo (come l’Italia) vi sia un percorso cifra di rientro anche prima. Per il 2014, Bruxelles ha richiesto una correzione di 0,7 punti di Pil contro lo 0,1 promesso dall’Italia (cioè 9 miliardi); per il 2015 siamo a 1,4 contro lo 0,1 suggerito da Roma, son quasi 20 miliardi di divario. «Occhio che sono numeri diventati puramente indicativi», avverte una fonte Ue. Vero. Negli ultimi mesi è saltata ogni previsione, la crescita s’è rivelata più fiacca per tutti, per l’Italia soprattutto, ma anche per la Germania. I calcoli per il Bel Paese sono basati su una ripresina dell’0,6% nel 2014 e un’inflazione allo 0,9, dati di giugno, già irrealistici. Fra un mese ci saranno i nuovi e allora – si spera – maggiore sarà la chiarezza.

Il commissario per l’Economia Katainen (destinato a rimanere capo di fila anche con Juncker, pare) attende le leggi di bilancio il 15 ottobre. A dicembre il nuovo esecutivo avrà un quadro preciso di quanto avviene nelle capitali e di come va la congiuntura. Solo allora capiremo cosa l’Ue pensa dell’Italia, quali sono le distanze e i margini di dialogo. Pochi si aspettano che Roma abbia i conti compatibili con gli impegni. Se così fosse, la recessione potrebbe salvarci da azioni correttive per il deficit strutturale in vista dell’azzeramento, partita che si rigiocherebbe in primavera per il 2015. Se pure il terzo trimestre fosse pure negativo, sarebbe una pessima storia con un aspetto roseo. Ci regalerebbe «un fattore mitigante» utile a salvarci da manovre extra. Una ragione di sollievo parziale, forse. Ma che, dicono a Bruxelles, «non implica in alcun modo che si possa frenare sull’attuazione di riforme che non vanno ritardate se si vuole tornare a crescere e a creare occupazione».

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Valentina Conte – La Repubblica

Troppo presto per brindare, visti anche i primi malumori della Merkel. Ma l’ipotesi di una moratoria biennale sul Six pack, la possibilità cioè per l’Italia di non dover incidere brutalmente col bisturi sui conti 2014-2015, risparmierebbe al Paese di certo una legge di Stabilità lacrime e sangue. Nessuna procedura di infrazione, dunque, se il deficit strutturale non è “close to balance”, vicino allo zero, il prossimo anno. Nessuna bacchettata se il percorso di riduzione del debito pubblico parte nel 2016, dodici mesi dopo. Più margini per fare politiche espansive e provare a rianimare il paziente, dopo la cura da cavallo. E cioè a far ripartire la crescita. Insomma, anziché una maxi manovra da 25 miliardi, ad ottobre l’Italia potrebbe evitare altri tagli draconiani o maggiori tasse per 8-10 miliardi. Una cifra pari quasi al costo del bonus degli 80 euro per il 20 1 5. Non male. 

«Un accordo di questo tipo sarebbe un aiuto importante, è evidente», riflette Enrico Zanetti, sottosegretario all’Economia. «Eviteremmo i rischi di inflazione. Resteremmo sotto il 3% nel rapporto deficit-Pil. Le manovra sarebbe meno complicata, da 15-16 miliardi anziché 23-25, coperta dalla spending review. E saremmo in grado di mantenere tutte le promesse, come il bonus, oltre a scongiurare tagli alle detrazioni fiscali. Non dover fare la correzione da almeno mezzo punto di Pil aiuterebbe, certo». Fermo restando, ricorda Zanetti, che oltre alla moratoria «è anche tempo di rivedere, nelle sedi tecniche europee, il Pil potenziale dell’Italia». Così com’è – pari a zero – «ci penalizza e rende gravosi gli aggiustamenti dei disavanzi strutturali».

Per ora vediamo se l’intesa sin qui solamente abbozzata e informale tra Juncker e la commissione Ue uscente reggerà alla prova (tedesca) dei fatti. «Sarebbe però sbagliato vedere la moratoria come una concessione da scambiare ad esempio con minori tutele per i lavoratori», avverte Stefano Fassina, ex viceministro pd dell’Economia. Quell’obiettivo di riduzione dello 0,5% annuo del deficit strutturale, cioè al netto del ciclo economico avverso, «è assolutamente irrealistico, in uno scenario di recessione come l’odierno». Tra l’altro fissato con un’inflazione al 2%, mentre ora l’Eurozona si avvia alla deflazione. «Il Six pack non si applica punto. E non per concessione, ma perché il quadro è diverso». Sorpresa per la svolta europea che si prefigura, Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, ne soppesa però i vantaggi per l’Italia. «Una corda che si allenta, indubbiamente. Gli sforzi per l’aggiustamento del bilancio strutturale si sposterebbero al 2016. Non saremmo insomma costretti a modificare il tendenziale già ora, con la legge di Stabilità di ottobre. Un passo avanti imponente che tuttavia scavalca anche i possibili margini di flessibilità annunciati da Mario Draghi a Jackson Hole e inquadrati “nei limiti del fiscal compact”, le regole di riduzione del debito pubblico”. Qui siamo ben oltre». 

Sarà per questo che la Merkel è in ansia. «Se ci concederanno davvero questo margine, l’impatto sarà minimale sulla recessione», avverte però Luigi Guiso, economista e docente al Luigi Einaudi Institute for Economics and Finance. «Attenzione poi a non farne un uso cattivo. Il bonus da 80 euro doveva essere finanziato con tagli alla spesa. Allentare questo processo e magari usare la nuova flessibilità per coprire quello sconto fiscale potrebbe essere controproducente. Lo sconto ci toglie qualche castagna dal fuoco nell’immediato, certo non ci aiuta a uscire dalla crisi».

O il coraggio, oppure la manovra

O il coraggio, oppure la manovra

Alessandra Servidori – Italia Oggi

C’è chi pensa che i numeri negativi per le economie di due partner fondamentali dell’Italia come Francia e Germania rafforzino la richiesta italiana di una maggiore flessibilità nelle regole europee. Ma sicuramente c’è un caso Italia, e se «non siamo il vagone di coda» e «l’Eurozona è in stagnazione» ho i miei dubbi che «l’Italia è in condizione di trascinare l’Eurozona fuori dalla crisi». La tempesta perfetta si è già annunciata con un meteo fuori dal normale mentre la tempesta economica è ancora incalzante.

L’Italia chiede flessibilità e politiche europee orientate alla ripresa economica ma ciò comunque comporta riforme costose nell’immediato, come giustizia, pubblica amministrazione e un’ulteriore diminuzione delle tasse sul lavoro.

Vero è che per l’Italia alla guida del semestre Ue, si apre un varco e un dialogo/alleanza anche con altri paesi nel chiedere correzioni di linea. I primi appuntamenti chiave per capire se questo sarà possibile sono il Consiglio europeo del 30 agosto, dedicato peròsoprattutto alle nomine, e soprattutto l’Ecofin informale previsto a Milano il 13 settembre.

La richiesta del governo italiano potrebbe essere quella di «incentivi» per quei paesi che le riforme le fanno davvero. Incentivi che prevedono più tempo nell’abbattimento del deficit e del debito e maggiori margini di manovra sui conti senza incorrere nelle sanzioni. Certo, la recessione c’è e non ci consola la situazione franco/tedesca. Ma è anche vero che il nostro export coinvolge solo 12-15 mila imprese, la crescita si fa solo con gli investimenti che, a loro volta, sono figli di una politica economica e industriale da «piano straordinario Marshall all’italiana». Non possiamo quindi dare la colpa solo a Bruxelles e Berlino poiché se anche la Germania si è fermata il crollo dell’export è stato con i paesi extra-Ue.

La ripresa è lenta e la recessione è svelta anche se i nostri giovani governanti hanno detto che «non c’è bisogno di fare alcuna manovracorrettiva». Ma stiamo ai fatti: il pil scende al denominatore (tre decimi di punto nel primo semestre), il deficit programmato nel Def al 2,6% sarà comunque entro il 3%? La Ue, stiamo pur certi, non farà sconti e, visto che non ci ha concesso di far slittare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016, ci chiederà di cominciare a limare fin d’ora.Gli 80 euro sono privi di reale copertura poiché non regge la previsione dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review, la vicenda dei pensionati «quota 96» è lì che canta poiché la maggioranza ha dovuto rimangiarsi quanto promesso.

Per effetto della deflazione, gli interessi sul debito ci costeranno altri 17 miliardi, solo parzialmente compensati dai bassi tassi pagati sui titoli di Stato, e il l’intervento correttivo dei conti pubblici, per almeno una ventina di miliardi, è una evidente necessità. La manovra andrà fatta. Ecco perchè va chiesto a chiediamo a Renzi di cambiare passo: sia coraggioso faccia tre passi avanti: il patrimonio pubblico (come da quattro anni insistono ItaliaOggi e Milano Finanza, con il piano SalvaItalia redatto, fra gli altri, da Monorchio e Savona) deve servire sia all’abbattimento dellostock di debito che a rilanciare gli investimenti pubblici e favorire quelli privati, abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Metta in pista un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto. Vada avanti con riforme strutturali vere che siano in grado di tagliare di 7-8 punti sul pil quella spesa pubblica che, ultimi calcoli, nel 2014 arriverà a superare gli 825 miliardi, 16 in più di quanto programmato e il 7,8% in più del 2013.