È un errore imperdonabile cancellare la Riforma Biagi

Giuliano Cazzola – Libero

Tra un mese esatto ricorrerà il tredicesimo anniversario dell’assassinio di Marco Biagi. E domani – stando alle anticipazioni – il Consiglio dei ministri, nel dare attuazione alle deleghe del Jobs act Poletti 2.0, prenderà a picconate la legge che porta il nome del professore bolognese. In sostanza, a Matteo Renzi e a Giuliano Poletti riuscirà ciò che venne impedito all’Unione di Romano Prodi nel 2007 e ad Elsa Fornero nel 2012. Eppure, mentre Prodi presiedeva un esecutivo (Cesare Damiano era ministro del Lavoro) sostenuto anche dalle formazioni neocomuniste, Renzi ha nella sua maggioranza i gruppi confluiti in Area popolare, i cui esponenti giustificano loro presenza nella coalizione vantando la partecipazione ad un progetto riformatore.

Da giorni viene annunciato un bel po’ di «macelleria giuridica» nel nome (abusato) della lotta al precariato. Sotto la scure giustiziera del governo legislatore-delegato finirebbero taluni rapporti atipici già rivisitati ampiamente dalla legge Fornero: l’associazione in partecipazione, il lavoro ripartito e quello intermittente subirebbero la gogna dell’abrogazione. Mentre verrebbe fortemente depotenziato l’effetto-innovazione derivante dalla riforma del contratto a termine. E che dire, poi, del «superamento» del contratto di collaborazione a progetto? Il ricorso alla potatura delle forme contrattuali (anche se talune solo di nicchia) prima ancora di essere grave, rappresenta una scelta stupida. Il titolare di un ristorante che ha la necessità di due camerieri in più, la domenica in cui gli capita di ospitare un matrimonio, non sa che farsene del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti; gli serve avvalersi del lavoro a chiamata. Ma l’errore di politica del diritto sta nella convinzione che basti rendere un po’ meno rigido, in uscita, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato per potersi sbarazzare delle forme flessibili.

In tutti questi anni, si è diffusa la teoria che i rapporti atipici, regolati con meticolosità e sapienza giuridica da Marco Biagi, consentissero di sottrarsi al giogo di un contratto a tempo indeterminato imprigionato nel «carcere di massima sicurezza» dell’articolo 18 dello statuto. Sarebbe bastato, secondo quella tesi, modificare la disciplina del recesso per riportare quel rapporto al centro del mercato del lavoro. Non era questa l’opinione del mio amico Marco Biagi, il quale non pensava affatto di introdurre, nella legge a lui intestata, tipologie flessibili in entrata, allo scopo di consentire ai datori di aggirare, in uscita, le forche caudine della reintegra da parte del giudice.

Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici, mirati a regolare le diversità delle condizioni lavorative, anziché imporre, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato, sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento.

Non è un caso che, in occasione della prima lettura del Senato, nell’emendamento dei partiti centristi a firma di Pietro Ichino, campeggiassero le parole senza alterazione dell’attuale articolazione delle tipologie dei contratti di lavoro. C’era la consapevolezza che il mercato del lavoro non potesse essere rinchiuso in un’unica fattispecie, anche se prevalente e meno vessatoria sul versante del recesso. Per lanciare il contratto di nuovo conio sono arrivati al punto di retribuire i datori di lavoro, i quali, per ogni assunto nel 2015, riceveranno, in ciascuno dei prossimi tre anni, un bonus di 8mila euro. Ciò significa che un’intera annualità di retribuzione (pari a 24mila euro) sarà a carico di Pantalone.