massimo blasoni

Invece di invocare quelli stranieri Boeri restituisca i contributi nostri

Invece di invocare quelli stranieri Boeri restituisca i contributi nostri

di Massimo Blasoni – La Verità

L’affermazione che a salvare i conti dell’Inps (il cui disavanzo economico è salito nel 2016 a 11,2 miliardi) con i loro versamenti contributivi siano gli stranieri e non gli italiani è fuorviante, tanto quanto lo sarebbe sostenere la tesi contraria. Se non ci fossero gli stranieri avremmo al loro posto più italiani al lavoro e un più basso tasso di disoccupazione? Nessuno può dirlo né è possibile affermare con certezza che spesso si tratta di lavori che gli italiani “choosy” non farebbero.

Il tema centrale piuttosto​ è quello dei contributi silenti, che colpisce in egual misura lavoratori italiani e non. Si tratta infatti di versamenti che non sono sufficienti a maturare alcun trattamento previdenziale se versati per un periodo inferiore ai 20 anni di lavoro e che l’Istituto si guarda bene dal restituire ai loro legittimi proprietari. Il presidente dell’Inps sostiene la necessità di “un’operazione verità nel Paese dell’ipocrisia”? Si decida allora a un gesto che tutti i suoi predecessori si sono sempre rifiutati di fare, anche a fronte di reiterate interrogazioni parlamentari: rendere noto l’ammontare esatto dei contributi silenti che il suo Istituto ha incassato negli ultimi anni da lavoratori italiani e stranieri. Emergerebbe così un paradosso intollerabile: quello per cui ad alcuni capita di versare “a vuoto” i contributi senza maturare alcun diritto alla pensione mentre moltissimi altri incassano ogni mese un assegno previdenziale largamente superiore ai contributi versati nel corso della propria attività lavorativa (un frutto avvelenato lasciatoci in eredità da chi ha applicato in maniera generosa e irresponsabile il sistema retributivo).

E per restare al tema dell'”operazione verità” cara a Boeri, perché non ricordare ad esempio la gestione non certo assennata del patrimonio immobiliare dell’Inps? Si tratta di qualcosa come 25mila immobili valutati più di tre miliardi che non però producono alcun provento ma anzi un rilevante deficit annuale.

Più in generale, va osservato come la sostenibilità del nostro sistema previdenziale (garantita ogni anno attingendo alla fiscalità generale) richieda sia una crescita del Pil di almeno un punto e mezzo percentuale annuo, sia un indice di occupazione – cioè di partecipazione al mercato del lavoro – nettamente più alto di quello attuale. Risultati per il momento non conseguiti né sul piano della crescita né relativamente all’incremento dell’occupazione: lavora solo il 57% degli italiani, contro una media europea dieci punti più alta. A questo si aggiunga lo spazio esiguo ricavato nel nostro Paese dalla previdenza complementare: fra coloro che versano contributi il tasso di adesione non supera il 25% del totale degli occupati. Un dato che non sorprende, visto che i netti in busta paga (gravati dall’altissimo cuneo fiscale e previdenziale) consentono solo a poche famiglie di ritagliare risorse per assegni aggiuntivi.

Gravano pertanto sui giovani le maggiori incertezze per il futuro. Lavori discontinui, vuoti contributivi e una previdenza in genere penalizzante rispetto al passato rischiano di condurre ad assegni pensionistici miseri e a un lavoro che si dovrà protrarre ben oltre i 70 anni, anche a causa dei coefficienti di trasformazione che adeguano l’età di pensionamento alla costante crescita della vita media. Ecco perché il dibattito andrebbe indirizzato semmai in un’altra direzione: non è affatto necessario che sia lo Stato a gestire i nostri contributi obbligatori. Sarebbe preferibile che ci fosse data la possibilità di decidere liberamente dove investirli, optando tra soggetti pubblici e privati in concorrenza tra loro. Un passaggio complesso ma a ben vedere non impossibile, se non vogliamo che i giovani un domani siano costretti a sentirsi stranieri in Patria.

 

C’era una volta il risparmio

C’era una volta il risparmio

di Gianni Zorzi* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Fiore all’occhiello del nostro sistema finanziario, simbolo della laboriosità e della capacità di risparmio ma anche calpestata nei mille casi di risparmio tradito e spesso trattata dallo Stato come bancomat a cui attingere per far quadrare i propri conti. È la ricchezza delle nostre famiglie, tanto grande da surclassare nei numeri l’enorme debito pubblico, tanto preziosa da spaventare non appena si affacciano i dubbi sulla tenuta del sistema bancario o rispunta qualche proposta di prelievo patrimoniali.

Un’analisi di ImpresaLavoro basata su dati Banca d’Italia, Sistema Europeo delle Banche Centrali, Ocse ed Eurostat fa il punto sulle tendenze nella ricchezza finanziaria delle famiglie, a dieci anni dall’inizio della crisi più grande della modernità, a 15 dalla fine delle banconote in lire e a 25 dal prelievo straordinario sui conti correnti realizzato in una notte. Dopo anni difficili, in termini nominali il volume di attività finanziarie è sul punto di raggiungere la soglia di 4mila miliardi che era stata registrata per l’ultima volta proprio a fine 2006. Il trend di lungo periodo della ricchezza finanziaria ha seguito in sostanza ciò che è stato per l’economia reale: come il Pil, le attività finanziarie sono tornate a crescere, ma non abbastanza per recuperare il terreno perso dall’inizio della crisi, e ancor meno se nel conto si considera l’inflazione.

In tutta Europa, solo la Grecia è più in ritardo di noi rispetto ai livelli del 2006: alcuni Paesi dell’Europa dell’Est nel frattempo hanno raddoppiato i loro volumi, mentre altri più maturi hanno visto incrementi netti considerevoli. Rispetto a dieci anni fa infatti, in Germania le famiglie sono più ricche di oltre 1.300 miliardi (+31,6 per cento), in Francia di oltre 1.200 (+31,9 per cento) e in Regno Unito di 1.900 miliardi di euro (+30 per cento). L’incremento in termini relativi è molto rilevante anche in Olanda (+55,9 per cento, pari a 800 miliardi) e in Svezia (+72,6 per cento ovvero 500 miliardi). La massa di banconote, depositi, titoli e gestioni in capo alle famiglie nel nostro Paese sta ritornando a circa due volte e mezza il Pil (242 per cento per l’esattezza), vicina ormai ai valori pre-crisi. In questo periodo abbiamo perso la leadership del risparmio privato rispetto ad alcuni dei Paesi più virtuosi: in Danimarca, Olanda, Belgio e Regno Unito le attività finanziarie delle famiglie pesano già oltre tre volte il Pil.

Per ogni euro di debito pubblico avevamo, prima della crisi, circa 2,5 euro in attività finanziarie private, scesi oggi a un livello ben inferiore (1,8), che peraltro non accenna a riprendersi da oltre sei anni. In questi termini, tuttavia, la variabile che si è mossa più rapidamente è quella del debito pubblico. Altri Paesi periferici dell’Eurozona, ad esempio, hanno subìto cali più bruschi poiché si sono nel contempo indebitati in misura maggiore e ora presentano dei coefficienti peggiori dei nostri: è il caso dell’Irlanda e del Portogallo, che assieme alla Grecia e a Paesi dell’Est come Croazia, Slovenia e Slovacchia ora arrancano in questa particolare graduatoria.

Di sicuro, il nostro dato rappresenta una brutta notizia per chi teme una patrimoniale a copertura del debito pubblico: nel malaugurato caso si dovesse ricorrere a questo strumento, l’aliquota dovrebbe essere fissata ancor più in alto di quanto non lo sarebbe stato uno o due decenni fa, per garantire una sua efficacia.

Ma non sono solo le tasse a tormentare il sonno dei risparmiatori italiani. La risoluzione delle quattro banche commissariate nel 2015 con l’azzeramento dei titoli subordinati, nonché l’entrata in vigore del bail-in l’anno dopo con la presa di coscienza sul rischio anche di quelli senior, ha spinto le famiglie a ridurre la propria quota in obbligazioni, specie di natura bancaria.

Nonostante tutto, risulterebbero ancora 440 i miliardi investiti in titoli obbligazionari, compresi quelli del debito pubblico. A fine 2016, secondo i dati Banca d’Italia, più di 136 miliardi sono ancora investiti in bond bancari, di cui oltre 27 a elevato rischio (subordinati). E nonostante i ripetuti default del mondo cooperativo, ci sono ancora più di 11 miliardi di risparmi impiegati nei prestiti sociali alle coop, utilizzati come dei semplici libretti ma senza le tutele che proteggono depositi bancari e postali. Quello delle obbligazioni è un vero e proprio primato italiano: il loro peso è dell’11 per cento sul totale delle attività in portafoglio, quasi il quadruplo rispetto alla media Ocse.

Un altro dato molto significativo riguarda il risparmio gestito: i nostri fondi pensione risultano in netto ritardo rispetto alla media internazionale (pesano appena per il 6 per cento dei portafogli: un terzo rispetto alla media Ocse), mentre al contrario fondi comuni e polizze vita hanno raccolto più del 25 per cento dei risparmi rispetto al 16 per cento della media Ocse. Gli incentivi fiscali sui Pir e la maggiore redditività del business del gestito rispetto ai depositi probabilmente accentueranno il fenomeno.

Su base regionale, è interessante un aumento della concentrazione della ricchezza nel Nord-Ovest (ora al 35 per cento), con una crescita molto rilevante degli asset finanziari tra le famiglie lombarde e una minore concentrazione tra quelle piemontesi e liguri. Si è ridotta negli ultimi anni la concentrazione di attività finanziarie nel Nord-Est, con l’importante eccezione delle famiglie venete che risultano comunque stabili. In aumento invece la ricchezza delle famiglie del Centro, a discapito di quelle del Sud. In generale le famiglie del Mezzogiorno risultano però meno indebitate che in passato, al contrario di quelle del Nord-Ovest e del Centro.

Più rilevanti ancora le variazioni nella distribuzione della ricchezza per classi d’età: rispetto a vent’anni fa si è dimezzata la quota di asset in mano agli under 44, mentre è più che raddoppiata per la classe d’età al di sopra dei 64 anni. Le fasce più anziane della nostra popolazione ora detengono quasi la metà di tutti gli asset finanziari, mentre tre quarti dell’indebitamento privato è a carico di nuclei in cui il capofamiglia ha meno di 54 anni. I dati sull’indebitamento delle nostre famiglie sono comunque in generale rassicuranti: seppur quasi triplicato in vent’anni rispetto al reddito disponibile, ha sostanzialmente tenuto negli anni di crisi fermandosi alla quota del 90 per cento. La crescita rispetto al 2006 è di soli 13 punti.

*docente di finanza dell’impresa e dei mercati

**ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

PIÙ DEBITI, MENO CONSUMI: UN PAESE BLOCCATO

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

L’impoverimento delle famiglie italiane non si evince soltanto dal loro maggiore indebitamento rispetto al passato. A spaventare è innanzitutto l’ormai sistemica crisi economica che da un decennio blocca la crescita del Paese. La mancanza di fiducia nel futuro porta così alla contrazione dei consumi, che la politica dei bonus elargiti a pioggia non ha in alcun modo saputo rilanciare. Chi può decide di mettere da parte i propri soldi, in attesa di tempi migliori, senza però riuscire a eludere la voracità del fisco: negli ultimi anni la tassazione sul risparmio è infatti più che raddoppiata. Più in generale, a impoverire le famiglie è anche la scarsa qualità (specie nel Meridione) di molti servizi pubblici che pure dovrebbero essere assicurati quale corrispettivo delle imposte versate.

Povera Italia, Paese senza mercato per Costituzione

Povera Italia, Paese senza mercato per Costituzione

di Massimo Blasoni – Il Giornale 

“Servizio pubblico” e “concorrenza”: due parole su cui molto si è detto nel nostro Paese. La prima viene declinata come un mantra ogniqualvolta la politica mette mano a settori cruciali: ad esempio trasporti, rifiuti, approvvigionamento idrico e informazione. Peccato che la loro gestione pubblica, utilissima ad assicurare riserve di voti clientelari, spesso risulti ben poco efficiente. Il fatto che alcuni servizi siano di interesse collettivo e vadano tutelati non significa che la loro concreta gestione debba essere per forza pubblica. L’unico risultato che conta è la soddisfazione del cliente del cittadino e non è frutto di un ordine necessario che lo stato debba gestire in prima persona acqua, istruzione o sanità; soprattutto se lo fa con risultati modesti quanto a qualità e costi. Meno Municipalizzate, consigli di amministrazione e partecipate talora inventate ad uso e consumo dei loro amministratori? È possibile: si, privatizzando i servizi e sottoponendo gli attori a rigorosi controlli. Se non lo si fa è solo perché non conviene a pochi e noti, ma così insistendo a pagarne il conto siamo noi tutti.

La seconda parola che non si riesce a inverare nella realtà italiana, “concorrenza”, a molti suona ancora come una bestemmia. Lo dimostra l’estenuante iter parlamentare del ddl che dovrebbe spezzare i lacci più robusti che imbrigliano molte attività economiche. Anche questa volta la montagna di emendamenti partorirà un innocuo topolino, incapace di rosicchiare incrostazioni corporative e rendite di posizione. Passano i decenni ma il riflesso del legislatore resta lo stesso, purtroppo. Lo dimostra l’ennesimo stop deciso dal Parlamento alla multinazionale Flixbus. Un’azienda innovativa che in pochi mesi ha creato in Italia centinaia di posti di lavoro e che si contende il mercato del trasporto su gomma offrendo un servizio di qualità e competitivo. Ha successo, i consumatori la premiano, vive di concorrenza. Andava quindi punita.

I governi non fabbricano soldi (al massimo si indebitano): a creare ricchezza sono le imprese private, che andrebbero lasciate libere di crescere e investire. Invece di assecondare chi rischia in proprio con norme chiare e ben mirate, la politica considera un suo diritto entrare a gamba tesa nell’attività di un’azienda e molto spesso decide sostituirsi ad essa. D’altronde lo stesso articolo 41 della Costituzione (“L’iniziativa economica privata è libera”) recita al terzo comma che: “La legge determina i programmi e i controlli (…) perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Un principio ideologico che, negando la molla del profitto, giustifica un esiziale eccesso di regole e burocrazia.

Stangata per chi ha casa: 49 miliardi

Stangata per chi ha casa: 49 miliardi

di Valerio Maccari – Il Tempo

Altro che funerale delle tasse sulla casa: il fisco immobiliare è più vivo – ed esoso – che mai. Proprio oggi, infatti, scadono i termini per il pagamento della prima rata della Tasi e dell’Imu. A versare l’acconto all’erario, secondo i calcoli del Centro Studi ImpresaLavoro, sono chiamati ben 25 milioni di italiani, la metà circa della popolazione adulta del Paese. E non sborseranno poco: la stangata sugli immobili, quest’anno, vale oltre 49 miliardi di euro, e per l’acconto entreranno nelle casse dei Comuni tra i 10 e gli 11 miliardi di euro. Una cifra enorme, anche se complessivamente il gettito da immobili segnato nel 2016 è un poco di meno del poco auspicabile record di 52,3 miliardi toccato nel 2015. Ma rimane comunque decisamente superiore a quanto si pagava nel 2011.

Rispetto ad allora, infatti, la pressione fiscale sulle case degli italiani ha messo a segno un incremento monstre di 11.4 miliardi di euro su base annua, pari al 30,2% in più. Nel periodo 2011-2016, spiegano da ImpresaLavoro – il maggiore incremento registrato ha riguardato la quota patrimoniale del prelievo, più che raddoppiata (+173%), a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, rimaste sostanzialmente inalterate nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

Il calo di 3,5 miliardi di euro registrato tra il 2015 e il 2016 è interamente attribuibile al taglio della Tasi per le abitazioni principali licenziato dal governo nella Legge di stabilità e che ha fatto passare il gettito della misura da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Un bel taglio, ma certo lontano dalla morte dell’imposizione immobiliare trionfalmente annunciata dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Per il resto, infatti, ben poco è cambiato: le entrate derivanti dall’Imu restano infatti stabili a 20,4 miliardi su base annua. Insomma, nessuna riduzione, anzi: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è purtroppo più che raddoppiata rispetto al 20l1,quando il gettito che ne derivava valeva «solo» 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni or sono anche le risorse drenate dalle tasche dei cittadini italiani attraverso le tasse sui rifiuti, che sono passate da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

«Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una misura che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: un impoverimento del patrimonio delle famiglie, la messa in ginocchio del settore dell’edilizia e una depressione dei consumi e della domanda interna. Motivi piu che sufficienti per rispedire al mittente le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale, che in questi giorni insiste per un aggravio in Italia della tassazione patrimoniale degli immobili».

Altissime anche le aliquote: Confedilizia ha calcolato nell’8,8 per mille la media della somma di quelle Imu e Tasi deliberate dai Comuni capoluogo di Provincia per gli immobili locati a «canone agevolato» e nel 10,5 per mille l’aliquota media ordinaria. Dati che, secondo il Presidente di Confedilizia Spaziani Testa, «confermano l’urgenza di un intervento legislativo per salvare, almeno, l’affitto, Dopo la manovra Monti del 2011, la tassazione su questi immobili si è addirittura quadruplicata, annullando l’effetto della cedolare secca introdotta pochi mesi prima. E l’appetibilità degli affitti a canone calmierato si è di molto affievolita».

Il Governo deve 64 miliardi ai privati e Renzi manco va a farsi a benedire

Il Governo deve 64 miliardi ai privati e Renzi manco va a farsi a benedire

di Gianluca De Maio – La Verità

I debiti della pubblica amministrazione verso le aziende dei privati valgono ancora oggi 64 miliardi di euro. Più o meno tre Finanziarie. Un modo per spostare sulle spalle di chi produce quasi il 3% del debito pubblico. Una cifra insopportabile che per gli italiani è diventata una prassi. Ci siamo infatti dimenticati che solo il 13 marzo del 2014, dal salotto di Bruno Vespa, l’ex premier Matteo Renzi, lanciò la sua personale sfida ai debiti arretrati della Pa. Promise di smaltire tutti i pagamenti entro il 21 settembre, giorno di san Matteo. In caso contrario si sarebbe incamminato da Firenze fino al santuario di monte Senario. Venti chilometri a piedi per espiare le colpe dello Stato. Il Rottamatore non è più premier, lotta per riprendere l’incarico e non ha in mente di mettersi in cammino. Ancor meno di intervenire su un problema endemico.

«A distanza di tre anni» spiega il Centro studi ImpresaLavoro «siamo costretti a registrare che lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici è rimasto sostanzialmente invariato. La relazione annuale presentata nei giorni scorsi dalla Banca d’Italia certifica infatti che nel 2016 lo stock dei debiti accumulati dalla PA ammonta ancora a 64 miliardi di euro, appena 4 miliardi in meno rispetto all’anno precedente».  Gli enti pubblici nel 2016 hanno impiegato in media 95 giorni (erano 131 giorni nel 2015) per pagare i loro fornitori. Si tratta di un dato inferiore di 8 giorni rispetto alla Grecia e analogo a quello del Portogallo ma che resta superiore di 17 giorni rispetto alla Spagna, di 34 giorni rispetto a Belgio, di 38 giorni rispetto alla Francia, di 43 giorni rispetto all’Irlanda, di 72 giorni rispetto alla Germania e di 73 giorni rispetto al Regno Unito. Anche se il trend è in miglioramento – rileva lo studio – la riduzione dei tempi appare legata a una riorganizzazione organica che nulla ha a che vedere con l’intervento politico.

Per l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro, «ne consegue pertanto un dato gravissimo per tutte le imprese italiane coinvolte: questo ritardo sistematico è infatti costato loro la cifra di 5,3 miliardi sotto forma di accesso al credito per consentire di pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento il dato fornito da Bankitalia e il costo medio del capitale (pari all’8,339% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti».

Va inoltre sottolineato che a impattare positivamente sui numeri in questi ultimi tre anni sono state le mosse degli enti locali. E non certo dello Stato centrale. Nonostante gli enti locali continuino a subire tagli da Roma, negli ultimi due anni sono riusciti a far calare il proprio stock di debito complessivo addirittura del 10%. Da 101 a 91 miliardi. Il governo, invece, ha portato il «buco» da 2.043 a 2.130 miliardi, stando alle ultime rilevazioni del ministero, che risalgono allo scorso inverno. Un 4% in più. Per gli enti locali, si è quasi sempre registrato un avanzo di cassa: il fabbisogno di Comuni, Province e Regioni è stato negativo per 6,4 miliardi nel 2013, per 9,4 miliardi nel 2014 e per 7,09 miliardi nel 2015. Nel 2016 nei conti degli enti territoriali si è registrata un’esigenza di cassa per 829 milioni. Lo Stato si dimostra sempre più vorace, anche se demanda agli enti locali l’incasso di nuove tasse. Con tale andazzo si capisce che il debito relativo al 2014 sia stato saldato soltanto alla fine del 2016. E cosi via, mantenendo intatto un circolo vizioso.

«I ritardi nel pagamento dei debiti commerciali, pubblici e privati», conclude Massimo Blasoni, «hanno conseguenze per le imprese che vanno al di là degli oneri sostenuti per l’accesso al credito. Elaborando i dati contenuti nell’European payment report di Intrum Justitia si scopre infatti il 46% delle aziende italiane ritiene che un migliore e più puntuale sistema di pagamenti da parte dei debitori porterebbe all’assunzione di nuovi dipendenti. Per il 61% degli imprenditori i ritardi nei pagamenti rappresentano inoltre una delle cause di licenziamento dei lavoratori già in forza alle imprese e per il 73% degli intervistati il ritardo dei debitori frena la crescita del nostro tessuto imprenditoriale». La propaganda renziana attorno al Jobs act e al rilancio dell’occupazione si è ovviamente ben guardata dall’affrontare la violenza che lo Stato usa sulle aziende private costrette a fare da bancomat. E oggi che il segretario del Pd si avvia verso un’altra campagna elettorale. Ma i 64 miliardi di debiti e il macigno che rappresentano continuano a essere un tabù.

Debiti PA: stock fermo a 64 miliardi, in Europa siamo i penultimi per tempi di pagamento (95 giorni di attesa)

Debiti PA: stock fermo a 64 miliardi, in Europa siamo i penultimi per tempi di pagamento (95 giorni di attesa)

I tempi di pagamento

L’ultima edizione dell’European Payment Report di Intrum Justitia rivela che in Europa il tempo medio di pagamento da parte del settore pubblico è salito da 36 a 41 giorni in un solo anno. Questa situazione si ripercuote negativamente sopratutto sulle piccole e medie imprese, costrette come sono ad accettare termini di pagamento troppo lunghi e spesso imposti dalle imprese più grandi. La piccola buona notizia è che il trend della nostra Pubblica Amministrazione appare in controtendenza, anche per merito della fatturazione elettronica: nel 2016 ha impiegato in media 95 giorni (erano 131 giorni nel 2015) per pagare i suoi fornitori.

Si tratta di un dato inferiore di 8 giorni rispetto alla Grecia e analogo a quello del Portogallo ma che resta superiore di 17 giorni rispetto alla Spagna, di 34 giorni rispetto al Belgio, di 38 giorni rispetto alla Francia, di 43 giorni rispetto all’Irlanda, di 72 giorni rispetto alla Germania e di 73 giorni rispetto al Regno Unito.

Lo stock di debiti della PA

Il 13 marzo 2014 il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre di quell’anno, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato tutti i debiti che la Pubblica amministrazione aveva contratto fino al 2013. A distanza di tre anni, siamo costretti a registrare che lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici è invece rimasto sostanzialmente invariato. La relazione annuale presentata nei giorni scorsi dalla Banca d’Italia certifica infatti che nel 2016 lo stock dei debiti accumulati dalla PA ammonta ancora a 64 miliardi di euro, appena 4 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Le solenni promesse dell’allora premier Renzi sono state completamente disattese. Questo dato conferma quanto abbiamo denunciato a più riprese: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare solo in parte con operazioni spot i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

I costi per le imprese

Per l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro, «ne consegue pertanto un dato gravissimo per tutte le imprese italiane coinvolte: questo ritardo sistematico è infatti costato loro la cifra di 5,3 miliardi sotto forma di accesso al credito per consentire di pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento il dato fornito da Bankitalia e il costo medio del capitale (pari all’8,339% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti».

L’opinione delle imprese 

I ritardi nel pagamento dei debiti commerciali, pubblici e privati, hanno conseguenze per le imprese che vanno al di là degli oneri sostenuti per l’accesso al credito. Il 46% delle aziende italiane, infatti, ritiene che un migliore e più puntuale sistema di pagamenti da parte dei debitori porterebbe all’assunzione di nuovi dipendenti. Per il 61% degli imprenditori, poi, i ritardi nei pagamenti rappresentano una delle cause di licenziamento dei lavoratori già in forza alle imprese e per il 73% degli intervistati il ritardo dei debitori frena la crescita del nostro tessuto imprenditoriale. Dati, questi, molto più elevati della media dei nostri partner europei.

 

Bollette da urlo: aumentate del 22% in 6 anni

Bollette da urlo: aumentate del 22% in 6 anni

di Francesco Borgonovo – La Verità

Quando in Italia si sente parlare di «liberalizzazioni», scorre improvviso un brivido lungo la schiena. Non perché si sia pregiudizialmente ostili ai privati cattivi. No: il panico nasce proprio dalla conoscenza dei dati. Si è discusso parecchio, nei giorni scorsi, del famoso ddl Concorrenza, che – allo stato attuale – fissa a luglio 2019 la fine del mercato elettrico tutelato. Significa che non siamo ancora in un regime di mercato totalmente libero, ma rimangono dei meccanismi di protezione per circa 20 milioni di clienti. Nonostante ciò, negli ultimi 6 anni la bolletta energetica delle famiglie italiane è aumentata del 22,34%. Eccoli, i benefici della liberalizzazione avvenuta nel luglio del 2017: le spese a carico degli italiani sono cresciute. A dimostrarlo, numeri alla mano, è un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dei prezzi medi dell’energia elettrica per uso domestico fornita alle famiglie di tutta Europa. «Rispetto a 6 anni fa», spiegano i ricercatori, «tra i 28 Paesi oggetto del monitoraggio solo in 8 nazioni il prezzo dell’energia domestica è diminuito: Ungheria (-31,63%), Malta (-23,30%), Cipro (-18,85%), Olanda (-9,67%) Repubblica Ceca (-6,70%), Slovacchia (-6,24%), Lussemburgo (-2,22%) e Polonia (-1,43%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è cresciuta con aumenti anche consistenti».

In Italia, va detto, l’aumento non è tra i peggiori registrati nel Vecchio Continente. In Lettonia. per esempio, le bollette sono cresciute del 55.08%, in Portogallo del 45,05% e in Grecia del 43,77%. Ma, ovviamente, stiamo parlando di economie non proprio fortissime. Tuttavia si registrano aumenti anche nel Regno Unito (+33,40%), in Francia (+28,98%), in Spagna (+24,87%) e in Germania (+23,54%). Il nostro Paese, però, si distingue a livello continentale per il costo dell’energia. ImpresaLavoro nota che, in Italia, «il costo per l’energia elettrica domestica (tasse incluse) è passato da 0,1943 euro per kWh nel 2010 a 0,2377 kWh nei 2016», Nel 2016, il consumo medio annuo per famiglia ammontava a 3.199 kWh. Significa, per farla breve, che ogni famiglia italiana spende in media 760,24 euro su base annua per la solo bolletta elettrica. In Europa, registrano costi piti alti dell’energia soltanto Danimarca, Germania e Belgio.

MEGLIO ALL’ESTERO

«Se la stessa famiglia, infatti, si trovasse a vivere in Francia», notano i ricercatori di ImpresaLavoro, «risparmierebbe 217,05 euro su base annua: 155,31 euro se vivesse nel Regno Unito e 45,43 euro se vivesse in Spagna. In Germania, invece, il conto sarebbe più elevato: +190,82 euro». Manco a dirlo, a pesare tantissimo sul costo finale sono le tasse e le accise, che in Italia ammontano al 39.87% (la media dell’area Euro è del 39.36%, quella dell’Unione Europea a 28 Stati, invece, è del 36,07%). Un’incidenza maggiore delle imposte si registra solo n Danimarca (68,65%), Germania (53,41%) e Portogallo (47,28%). Mentre in tutti gli altri Paesi la morsa del fisco è meno stretta. In Francia, le tasse rappresentano il 35,42% del prezzo finale della luce. In Spagna sono il 21,7% e nel Regno Unito il 19,22%. «Nel nostro Paese il mercato dell’energia elettrica è stato liberalizzato dal 1 luglio 2007 ma le bollette non sono affatto calate», dice l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro. «È un paradosso tutto italiano, che purtroppo non verrà sanato con l’approvazione (più volte rinviata) del ddl Concorrenza».

FUTURO NERO

E anche questa è una bella gatta da pelare. «Nella parte dedicata alla liberalizzazione del mercato elettrico», continua Blasoni, «è infatti prevista la fine del regime della maggior tutela (per chi ha mantenuto il proprio storico fornitore di energia) e il passaggio obbligatorio al mercato libero entro il luglio 2019. Si tratta in realtà di una spada di Damocle: coloro che entro quella data non avranno provveduto autonomamente al passaggio a un fornitore sul libero mercato si ritroveranno (a loro insaputa) in un basket denominato “servizio di salvaguardia” che già oggi prevede costi maggiori di quelli praticati in regime di maggior tutela. La loro utenza verrà poi riassegnata ad altra azienda a seguito di un’asta con una base di prezzo comunque automaticamente piu alta del 20%. Un provvedimento che distorce il mercato e che non potrà che incidere ulteriormente sul bilancio delle famiglie italiane».

A lanciare un allarme in questo senso è stata, all’inizio di aprile, anche un’indagine di Nomisma Energia. Che ha rilevato altri problemi a carico dei cittadini. Tanto per cominciare, la difficoltà di lettura della bolletta. Ci vogliono, hanno scritto ì ricercatori di Nomisma, 9 minuti per leggerla, ma addirittura 6 ore per comprenderla, anche perché presenta qualcosa come 179 cifre diverse, che vanno esaminate e interpretate. Nomisma ha espresso perplessità pure sul meccanismo delle aste, e ha notato come la liberalizzazione abbia portato, alla fine dei conti, alla formulazione di sconti piuttosto bassi sulla bolletta. Insomma, il quadro che emerge è parecchio sconfortante. La liberalizzazione del mercato energetico – in cui attualmente operano circa 400 società – non ha portato benefici agli italiani, nonostante fosse stata presentata come un grande favore ai consumatori. Il costo finale dell’energia è aumentato, per via delle tasse ma non solo. Le bollette che le famiglie e i singoli utenti devono pagare sono decisamente più alte che in passato. E la situazione non sembra affatto destinata a migliorare.

In più c’è un ulteriore aspetto da considerare, che riguarda proprio la difficoltà di muoversi all’interno del nuovo mercato. Decifrare le bollette è complicato, e la proliferazione di nuovi gestori ha fatto aumentare esponenzialmente le truffe. Non si contano più, ormai, le denunce e gli appelli presentati da numerose associazioni di consumatori e da organizzazioni di categoria per mettere in guardia gli utenti. La piaga peggiore sono probabilmente le truffe telefoniche, di cui risultano vittime soprattutto le persone che vengono contattate da call center e indotte a sottoscrivere nuovi contratti di fornitura. Nel complesso, il risultato è che, nel mercato reso più libero, qualcuno ci guadagna parecchio. Ma non sono i cittadini italiani.

La finta tassa salutista che fa male al mercato

La finta tassa salutista che fa male al mercato

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Il fumo fa male ma ancor più male – all’economia e quindi a noi tutti – fanno i governi che ciclicamente (anche in occasione dell’ultima manovra) ricorrono all’ennesimo aumento delle accise del tabacco nel tentativo di raddrizzare i nostri conti pubblici. Si tratta di una misura ormai quasi pavloviana, che nasconde l’assenza di una vera strategia politica sul fronte del contenimento della spesa pubblica (a quando una vera spending review?) e che tradisce diverse ipocrisie.

La prima è quella di varare un inasprimento della tassazione indiretta per poter poi meglio raccontare che la manovra è stata all’insegna del mancato aumento delle tasse: peccato che il fatto che vengano prelevate in maniera “occulta” non riduce per nulla il loro impatto nelle tasche dei contribuenti. Non solo. Si è deciso di operare un aumento disomogeneo delle accise a seconda del tipo di sigarette e tabacchi posti in vendita (colpendo soprattutto la fascia di mercato più bassa, perché più diffusa): una scelta che produce la distorsione di un mercato già in crisi e la cui filiera (produzione agricola, aziende di prima trasformazione, manifattura, distribuzione e dettaglio), soprattutto per effetto del taglio dei contributi comunitari, ha in questi anni perso un numero rilevante di addetti.

Sulla politica in materia di tabacco registro poi una contraddizione, questa sì insanabile: lo Stato da un lato ha assoluto bisogno dei tabagisti per incassare ogni anno anno una quota rilevante di gettito (9,4 miliardi di euro solo nel 2016), dall’altro sostiene di aumentare le accise con l’obiettivo “salutista” di costringere a smettere di fumare il maggior numero di persone, in ossequio ai reiterati inviti in tal senso formulati dall’Oms. Un approccio “etico”, volto a colpire con le tasse un comportamento ritenuto sbagliato e che un liberale come me non può non criticare. Soprattutto perché alla prova dei fatti si è rivelato l’ennesimo pretesto per tartassare i cittadini. Se infatti la nostra salute sta così a cuore a questo Stato paternalista, perché poi si è subito attivato per frenare la diffusione del nuovo mercato delle sigarette elettroniche? Sono uno strumento tecnologico efficace per ridurre il danno nonché per aiutare a smettere di fumare e l’anno scorso l’autorevole Royal College of Physicians ha stabilito essere meno dannose almeno del 95% rispetto alle sigarette tradizionali.

Sta di fatto che al boom della moda dello “svapo”, esplosa tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, si è subito reagito – primi tra tutti i Paesi europei – con una tassazione scriteriata che andava a colpire sia le ricariche dei liquidi sia tutti quanti gli accessori (carica batterie, resistenze, addirittura i laccetti per portarle al collo…) e che infatti è stata poi bocciata dalla Corte costituzionale. Ciononostante su questo prodotto resta in vigore una tassa specifica a un tasso punitivo di 0,38 euro per millilitro (pari a 5 euro su un prodotto messo in vendita a 9-10 euro), che va a colpire anche le ricariche prive di nicotina e sulla quale pende tuttora un nuovo pronunciamento della Consulta… Tutto, insomma, pur di nuocere alla salute di un nuovo settore di mercato.

In Italia gli stranieri trovano lavoro più di noi

In Italia gli stranieri trovano lavoro più di noi

La Verità

I cittadini stranieri collocati, sul mercato del lavoro, di più e meglio rispetto agli autoctoni: uno scenario bizzarro, che tuttavia è realtà in una manciata di nazioni europee. L’Italia è una di esse. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro – su elaborazione dei dati Eurostat 2016 – il tasso di occupazione dei cittadini italiani tra i 15 e i 64 anni (residenti in patria) è del 57,0%, dato che ci appaia alla Croazia e che risulta nettamente inferiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (67,1%) sia dell’area Euro (66,1%). In tutto il Vecchio Continente soltanto la Grecia – con il 52% degli occupati – ha un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. In questa particolare classifica siamo quindi nettamente superati da tutti i nostri principali competitor: Svizzera (82,5%), Germania (76,5%), Olanda (75,6%), Regno Unito (73,8%), Portogallo (65,3%), Francia (65,2%), Irlanda (64,7%) e Spagna (59,9%).

Se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola invece verso l’alto, dal penultimo al sedicesimo posto: il nostro 57,8% risulta infatti largamente superiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (53,7%) sia dell’area Euro (52,5%). Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Oltre all’Italia, solo altri tre Paesi europei hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-3,8 punti percentuali), Slovenia (-0,9) e Grecia (-0,3).

Un dato che stride con la media sia dell’Unione a 28 membri (+13,4 punti percentuali) sia dell’area Euro (+13,6). In tutto il resto d’Europa la differenza, espressa sempre in punti percentuali, risulta infatti a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame: Portogallo (+1,0), Spagna (+6,2), Irlanda (+7,2), Regno Unito (+12,5), Svizzera (+17,8), Francia (+20,9), Germania (+24,8) e Olanda (+26,3).

«Ancora una volta siamo costretti a osservare l’Italia in fondo alla classifica europea che registra il tasso di occupazione dei cittadini di ciascun Paese», commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Si tratta di un dato ormai stabile, che non può non allarmare una grande potenza economico-industriale come la nostra. Mentre nel resto d’Europa la crisi sembra essere in via di superamento, da noi la crescita continua a ristagnare ai livelli di 10 anni fa. Anche per questo non può che sorprendere il fatto che in Italia i residenti extracomunitari trovino lavoro con maggiore facilità dei nostri connazionali. È pur vero che si tratta di un’anomalia dovuta al fatto che i primi sono disponibili a svolgere mansioni che gli italiani ormai riliutano di prendere in considerazione. Questo però non può essere una giustificazione sufficiente: il nostro mercato del lavoro resta ancora troppo rigido».

Per semplificare le detrazioni un manuale di 324 pagine

Per semplificare le detrazioni un manuale di 324 pagine

di Massimo Blasoni – Libero

A volte un singolo dato, in ragione della sua enormità, riesce a farci comprendere un fenomeno più di tante analisi. È il caso di una recente circolare dell’Agenzia delle Entrate (la n.7/E del 4 aprile 2017) che s’incarica di elencare e spiegare il meccanismo delle detrazioni d’imposta ai fini della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche relative al 2016. Ebbene, questa guida è lunga ben 324 pagine! Un coacervo di norme, una giungla di prescrizioni, una via Crucis che rimanda a precedenti circolari che davvero sgomenta e che spinge almeno a due riflessioni.

Primo: piuttosto che sulle detrazioni d’imposta, pannicelli caldi per le tasche del contribuente, perché non ci si decide piuttosto a un drastico taglio delle tasse, magari ricorrendo allo strumento della flat tax? L’attuale regime di tassazione deprime i consumi e soprattutto impedisce agli imprenditori di investire e quindi di assumere: chi gestisce un’azienda resta impigliato in migliaia di leggi che molto spesso sono di difficile interpretazione, tanto che nemmeno gli interpelli danno garanzie. Ne consegue che il nostro livello di crescita rimane ancora inferiore a quello pre-crisi del 2008 (un record tra le grandi economie europee che nessuno ci invidia): con l’attuale ritmo dei “più zero virgola qualcosa” all’anno riusciremo a tornarci solo nel 2026.

Secondo: i dirigenti dello Stato che hanno redatto quella circolare e che più in generale si occupano di semplificazione legislativa fanno parte dello stesso apparato burocratico che a sua volta ha scritto le leggi che si vogliono sfoltire e rendere più chiare. Il risultato è ovviamente quello di confondere ancora di più i cittadini con l’aggiunta di nuovi testi normativi spesso di oscura interpretazione. Alzi la mano, ad esempio, chi è ancora in grado di compilare da solo la dichiarazione dei redditi! Questa chilometrica guida alle detrazioni d’imposta si è poi resa necessaria nell’ambito della cosiddetta “riforma” della dichiarazione precompilata dei redditi, subito ribattezzata “precomplicata”. Così com’è stato congegnato, il nuovo sistema riafferma tra l’altro il rapporto leonino tra Stato e contribuente: l’amministrazione fiscale non risponde infatti degli eventuali errori nell’imputazione dei dati mentre il contribuente che la vuole integrare si espone al rischio di pagare una multa per ogni errore commesso (anche se in buona fede).

In attesa che sia editata una guida alla guida, presumibilmente di 648 pagine, ci auguriamo che siano chiusi tutti gli uffici destinati alla semplificazione. O, in alternativa, la distribuzione presso gli stessi di un vocabolario, di modo che non sfugga agli addetti il significato del verbo “semplificare”.