massimo blasoni

La politica che frena le privatizzazioni

La politica che frena le privatizzazioni

di Massimo Blasoni

Completare il piano di privatizzazioni? In Italia resta una chimera. Di perdita effettiva del controllo pubblico di Poste, Enav o Ferrovie dello Stato ci si limita a parlare senza far seguire fatti concreti. Addirittura non manca qualche nostalgico della stagione d’oro delle partecipazioni statali. Le prime privatizzazioni italiane firmate Amato e Draghi datano 1992. All’epoca lo Stato controllava quasi interamente il sistema bancario e interamente quello ferroviario e aereo, le autostrade, il gas, l’elettricità e l’acqua, la telefonia, larga parte dell’industria siderurgica e altro ancora. Quel piano di privatizzazioni fu dettato dall’urgenza dei conti pubblici. Nacque così la stagione delle grandi dismissioni bancarie e assicurative, dal Credito Italiano alla Banca Commerciale Italiana. Poi fu la volta di Ciampi e di Telecom Italia. Nel 1999 il governo D’Alema privatizzò le autostrade e porzioni di Enel, conservandone però il controllo. Resta ancora molto da fare, soprattutto occorre convincersi che tra i compiti dello Stato non deve esservi la gestione delle imprese.

Di recente, per un paio d’anni, si è parlato di quotare e dismettere fino al 40% del capitale di Ferrovie dello Stato, ancora interamente in mano al Ministero dell’Economia. Adesso l’obiettivo sembra limitarsi a portarne in Borsa soltanto la divisione a lunga percorrenza (Frecce e Intercity), rendendo flottanti solo quote di minoranza. La controllata Rete Ferroviaria Italiana, che gestisce i binari, dovrebbe invece restare saldamente in mano pubblica. Si tratta di un’operazione dai tempi ancora indefiniti e che comunque dovrebbe portare nelle casse dello Stato solo un miliardo dei 3-4 inizialmente previsti. Non va dimenticato che FSI vive di interventi pubblici, riceve circa 12 miliardi all’anno tra sussidi alla rete ferroviaria, ai servizi, agli investimenti e al fondo pensioni. Per quanto riguarda invece Poste, lo Stato al momento ne controlla il 64,7% tramite Ministero delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti. Nell’ottobre 2015 una prima tranche di privatizzazione ne ha collocato sul mercato il 35,3%, ottenendo un ricavo di 3,1 miliardi. La collocazione della tranche successiva (29,7%) continua ad essere rinviata, dovrebbe valere tra i 2 e i 3 miliardi. E che dire della dismissione o chiusura delle ottomila società partecipate di Comuni e Regioni? Tutto langue nei Ministeri.

Resta da rispondere al quesito: perché completare le privatizzazioni? Citerò due ragioni. La gestione politica di una società pubblica spesso non ha come obiettivo l’efficienza e su di essa pesano costi impropri volti a creare consenso e a mantenere clientele, con svantaggi e disavanzi a carico dei consumatori/contribuenti. La seconda ragione è che le privatizzazioni consentono allo Stato di introitare il denaro derivante dalle cessioni senza che per questo motivo venga a cessare il servizio a vantaggio dei cittadini. Si tratta di risorse di cui avremmo grande bisogno ad esempio per ampliare e innovare la rete di infrastrutture viarie e digitali del nostro Paese. Risorse utilissime, che ovviamente occorre spendere bene. Esattamente quello che non si è fatto con i proventi delle privatizzazioni del passato, finiti perlopiù ad alimentare il fiume inesauribile della spesa corrente.

Per le start up meglio meno tasse che la pioggia di fondi pubblici

Per le start up meglio meno tasse che la pioggia di fondi pubblici

di Massimo Blasoni

Lo scorso anno gli under 35 hanno aperto quasi 120mila nuove imprese e al tempo stesso il saldo tra aperture e chiusure è risultato ampiamente positivo: +63.646. Questi dati, forniti da UnionCamere, appaiono significativi e fanno da contrappeso all’elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile. Sostenere questo processo è importante, occorre però individuare la maniera più efficace per farlo.

Finora Stato e singole regioni hanno dato vita a una miriade di iniziative. Si va dalle erogazioni di Invitalia ai progetti di Garanzia Giovani, da Intraprendo in Lombardia a Lazio Innova, da Start&Growth in Liguria a Startup in progress in Molise e giù giù a seguire un elenco infinito. Si tratta spesso di misure tortuose (rese impervie da innumerevoli domande, bolli e regolamenti) che rimangono in parte inutilizzate o che paradossalmente impiegano la maggior parte delle risorse nelle strutture burocratiche preposte alle istruttorie dei singoli progetti. Soprattutto passano anni prima che i richiedenti ricevano finanziamenti o garanzie al credito. In un’economia veloce come quella globale tutto questo ha poco senso: nel frattempo l’azienda è autonomamente decollata oppure è già morta.

Dispensare contributi pubblici non sembra poi la soluzione migliore: alimenta l’idea dell’impresa assistita e risente della gestione politica delle provvidenze. Una proposta? Ridare vita al Decreto Tremonti n. 357 del 1994, che stabiliva la completa detassazione delle nuove imprese costituite da under 32. Toglieva Ires e Irap, eliminava le imposte comunali per l’esercizio di imprese e sugli immobili; toglieva anche la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche e soprattutto (e per ogni tributo) i connessi adempimenti. Un elemento, quest’ultimo, da non sottovalutare in un Paese in cui un imprenditore lavora in media due mesi all’anno per assolvere alle procedure burocratiche.

Quel beneficio valeva per un triennio e sino alla rilevante soglia di un miliardo annuo di lire, cioè un milione di euro attuale o giù di lì.Se riproposta, questa misura potrebbe mettere in moto un rilevante numero di imprese e connessi posti di lavoro. Si dirà che esiste già il regime forfettario per le Partite Iva previsto dalla Legge di Stabilità. Vero, ma porre a 30/50mila euro il limite di fatturato per godere dell’esenzione fiscale vanifica nel concreto la norma. Un’altra obiezione è che questa disposizione aprirebbe la strada a qualche furbetto e ridurrebbe il gettito tributario. È fin troppo facile rispondere che i benefici legati al probabile avvio di tante start up sane prevalgono di gran lunga su queste contestazioni.

Funzionerebbe? A guardare le statistiche allora funzionò. Con certezza posso dire una cosa: incentivato da quella misura, nel 1996 diedi avvio a una società insieme a un ex compagno di classe. Oggi è una Spa che occupa quasi 2500 persone e opera in tutta Italia.

L’Italia delle privatizzazioni mai completate

L’Italia delle privatizzazioni mai completate

di Massimo Blasoni

Completare il piano di privatizzazioni? In Italia resta una chimera. Di perdita effettiva del controllo pubblico di Poste, Enav o Ferrovie dello Stato ci si limita a parlare senza far seguire fatti concreti. Addirittura non manca qualche nostalgico della stagione d’oro delle partecipazioni statali. Le prime privatizzazioni italiane firmate Amato e Draghi datano 1992. All’epoca lo Stato controllava quasi interamente il sistema bancario e interamente quello ferroviario e aereo, le autostrade, il gas, l’elettricità e l’acqua, la telefonia, larga parte dell’industria siderurgica e altro ancora. Quel piano di privatizzazioni fu dettato dall’urgenza dei conti pubblici. Nacque così la stagione delle grandi dismissioni bancarie e assicurative, dal Credito Italiano alla Banca Commerciale Italiana. Poi fu la volta di Ciampi e di Telecom Italia. Nel 1999 il governo D’Alema privatizzò le autostrade e porzioni di Enel, conservandone però il controllo. Resta ancora molto da fare, soprattutto occorre convincersi che tra i compiti dello Stato non deve esservi la gestione delle imprese.

Di recente, per un paio d’anni, si è parlato di quotare e dismettere fino al 40% del capitale di Ferrovie dello Stato, ancora interamente in mano al Ministero dell’Economia. Adesso l’obiettivo sembra limitarsi a portarne in Borsa soltanto la divisione a lunga percorrenza (Frecce e Intercity), rendendo flottanti solo quote di minoranza. La controllata Rete Ferroviaria Italiana, che gestisce i binari, dovrebbe invece restare saldamente in mano pubblica. Si tratta di un’operazione dai tempi ancora indefiniti e che comunque dovrebbe portare nelle casse dello Stato solo un miliardo dei 3-4 inizialmente previsti. Non va dimenticato che FSI vive di interventi pubblici, riceve circa 12 miliardi all’anno tra sussidi alla rete ferroviaria, ai servizi, agli investimenti e al fondo pensioni. Per quanto riguarda invece Poste, lo Stato al momento ne controlla il 64,7% tramite Ministero delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti. Nell’ottobre 2015 una prima tranche di privatizzazione ne ha collocato sul mercato il 35,3%, ottenendo un ricavo di 3,1 miliardi. La collocazione della tranche successiva (29,7%) continua ad essere rinviata, dovrebbe valere tra i 2 e i 3 miliardi. E che dire della dismissione o chiusura delle ottomila società partecipate di Comuni e Regioni? Tutto langue nei Ministeri.

Resta da rispondere al quesito: perché completare le privatizzazioni? Citerò due ragioni. La gestione politica di una società pubblica spesso non ha come obiettivo l’efficienza e su di essa pesano costi impropri volti a creare consenso e a mantenere clientele, con svantaggi e disavanzi a carico dei consumatori/contribuenti. La seconda ragione è che le privatizzazioni consentono allo Stato di introitare il denaro derivante dalle cessioni senza che per questo motivo venga a cessare il servizio a vantaggio dei cittadini. Si tratta di risorse di cui avremmo grande bisogno ad esempio per ampliare e innovare la rete di infrastrutture viarie e digitali del nostro Paese. Risorse utilissime, che ovviamente occorre spendere bene. Esattamente quello che non si è fatto con i proventi delle privatizzazioni del passato, finiti perlopiù ad alimentare il fiume inesauribile della spesa corrente.

Ogni anno la benzina ci costa rincari per 1 miliardo di euro

Ogni anno la benzina ci costa rincari per 1 miliardo di euro

di Francesco Borgonovo – La Verità

Come spesso accade, siamo i migliori carnefici di noi stessi. Ieri, con abile mossa propagandistica, Padoan e il direttore dell’Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, hanno tenuto una conferenza stampa per dire che grazie alla «lotta all’evasione› nel 2016 sono stati recuperati 19 miliardi. Probabilmente, viene da dire, sarebbero stati anche di più se con le grandi multinazionali della tecnologia si fosse tenuto un atteggiamento diverso, invece di regalare sconti agli amici potenti. Ma tant’è. Quello dell’anno passato, per l’erario, è stato «un gettito record», poiché sono stati incassati «oltre 450 miliardi secondo le prime stime, rispetto ai 436 miliardi del 2015 e ai 419 del 2014». Viene un po’ difficile credere che le tasse non siano aumentate, visto che sono entrati più soldi in cassa (la lotta all’evasione, da sola, non basta a spiegare il dato reso noto ieri). Insomma,quando si parla di tasse non c’è molto da fidarsi delle dichiarazioni che arrivano dall’alto e il motivo è semplice: non passa anno senza che il costo del carburante aumenti a causa di nuove gabelle.

Non è solo colpa dell’Europa, ovviamente. I politici italiani agiscono cosi da sempre: quando non sanno dove prendere denaro, corrono ad aumentare le accise. Le tabelle realizzate dal centro studi ImpresaLavoro mostrano i vari aumenti (ben 17) messi in atto nel corso dei decenni, a partire da quello, ormai famigerato, utile a finanziare la guerra d’Etiopia del 1935-1936. Le motivazioni sono le più diverse: dalla crisi di Suez del 1956 al disastro del Vajont del 1963, fino all’acquisto di autobus ecologici (2005) e sostegno ai terremotati dell’Emilia (2012). Ma al di là delle curiosità storiche, nello studio dell’associazione presieduta dall’imprenditore Massimo Blasoni ci sono parecchi altri dati. Numeri che fanno arrabbiare, poiché danno la misura di quanto incida sulle nostre esistenze questo Stato ormai ridotto a invadente moloch burocratico.

«Il gettito per accise nel nostro Paese è aumentato di 5 miliardi tra il 2011 e il 2016», scrivono i ricercatori di ImpresaLavoro. «Una vera e propria stangata nascosta tra i consumi di famiglie e cittadini. Le accise su prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi garantivano alle casse dello Stato 20,4 miliardi nel 2011. Gli aumenti successivi hanno fatto crescere questa cifra del 24,7% in soli 5 anni portando il gettito del 2016 a poco più di 25 miliardi di euro, una cifra sostanzialmente stabile negli ultimi anni (25,6 miliardi nel 2015; 26,2 miliardi nel 2014; 24,5 miliardi nel 2013)». E come se non bastassero i 5 miliardi in più prelevati ai contribuenti nell’ultimo quinquennio, ora si pensa ad altri aumenti. Tutto questo fa ancora più infuriare quando si va a paragonare la situazione italiana a quella degli altri Paesi. Già oggi (dunque senza ulteriori possibili rincari) il prezzo de nostra benzina è il terzo più caro del Vecchio Continente.

«Con 1,5437 euro al litro», dice ImpresaLavoro, «il costo del nostro carburante è del 11,52% più alto di quello della media europea: il pieno in Italia costa il 9,27% in più rispetto alla Francia e il 10,50% in più rispetto alla Germania». A precederci in cima alla classifica dei prezzi ci sono soltanto l’Olanda (1,572 euro al litro) e la Grecia (1,546 euro). Sul costo finale, l’incidenza delle tasse e delle accise è micidiale: nel nostro Paese lo Stato influisce per il 65,22% del prezzo finale contro il 62,34% della media europea e il 54,45% della Spagna, il 62,82% della Germania e il 63,34% della Francia. Non stupisce che altri Paesi più ricchi paghino meno il carburante, visto che noi continuiamo a versare denari per emergenze già ampiamente concluse (nella realtà, perché nella mente confusa dei burocrati sono ancora in atto).

«Il ricorso all’aumento delle accise sui carburanti», commenta Massimo Blasoni, «è un sempreverde italiano. Non c’è governo o ministro dell’Economia che non sia ricorso a questo espediente per fare cassa. Un prelievo straordinario e giustificato spesso da emergenze contingenti che finisce per trasformarsi in una tassa perenne, silenziosa e per questo meno dibattuta ma che incide sui bilanci delle famiglie italiane indipendentemente dal loro reddito e, quindi, con poca equità». Difficile dargli torto. Tanto più che il discorso degli aumenti non vale soltanto per la benzina, ma pure per il diesel. Da noi costa il 12,06% in più rispetto alla media europea; il 10,59% rispetto alla Francia, addirittura il 17,07% rispetto alla Germania. Solo in Svezia e nel Regno Unito (per motivi diversi) il diesel costa di più: di nuovo, siamo sul podio dei peggiori del continente, almeno per quanto riguarda il costo del carburante.

È interessante notare, poi quale sia l’incidenza delle tasse sul prezzo finale del diesel, perché in questo frangente diamo veramente il meglio. Le tasse pesano sul costo finale per il 62,28%, e peggio di noi riesce a fare solo la Gran Bretagna. Siamo al terzo posto fra i Paesi con il diesel più costoso, ma al secondo per maggior numero di tasse. Veramente un bel record, un risultato di cui essere estremamente fieri. I nostri vicini austriaci, per dire, pagano il diesel il 24,48% in meno rispetto a noi. Per non parlare della benzina, che in Austria costa il 30,6% in meno rispetto all’Italia (gli sloveni si devono accontentare: pagano il pieno «solo» il 18,97% in meno di noi se si tratta di benzina; il 17,4.2% nel caso del diesel). Che Padoan decida o meno di aumentare il prelievo, il quadro della situazione è piuttosto cupo. Paghiamo ancora la guerra in Libano del 1983 e la missione in Bosnia del 1996. Altri spiccioli da destinare a Bruxelles sarebbero solo l’ultima delle fregature.

Per gli imprenditori il tempo è denaro ma la giustizia lo ignora

Per gli imprenditori il tempo è denaro ma la giustizia lo ignora

di Massimo Blasoni – Libero

Non c’è impresa privata senza il coraggio di rischiare. Il mercato genera selezione, obbliga a competere. Non è così nella pubblica amministrazione, giustizia compresa, i cui operatori vengono stipendiati a fine mese indipendentemente dai risultati ottenuti. Per chi vuole investire e fare impresa, il fattore tempo è invece un elemento decisivo per determinare la riuscita o il fallimento della propria attività. I mesi, molto spesso gli anni, trascorsi nell’attesa di definire cause e contenziosi giudiziari costituiscono costi rilevantissimi che vanno quantificati in posti di lavoro persi e minore ricchezza.

Il cattivo funzionamento della nostra giustizia civile e amministrativa è un danno per tutti: spaventa gli investitori (stranieri e non), deprime gli sforzi degli imprenditori onesti e condanna il Paese al declino economico. Lo dimostrano i più recenti dati elaborati dal Cepej-Stat del Consiglio d’Europa. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, nel 2014 in Italia rimanevano in attesa di giudizio oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado e, anche se appare in leggero calo rispetto agli anni precedenti, significa che a fine anno rimanevano pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania. Una situazione che tiene alla larga i capitali internazionali.

Non deve quindi sorprendere che la media degli ultimi tre anni evidenzi investimenti netti annui provenienti dall’estero per un magro 0,72 per cento del nostro Pil. Secondo un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti determina l’incremento degli investimenti esteri:per il nostro Paese, portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (in sostanza tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale). L’inefficienza giudiziaria italiana determina insomma un doppio, gravissimo danno: non solo nega coi suoi ritardi una vera certezza del diritto ma agisce anche come poderoso freno allo sviluppo della nostra economia.

La nostra crescita è prigioniera della burocrazia

La nostra crescita è prigioniera della burocrazia

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Non è un caso che nel luogo al mondo dove vi è più innovazione, la California, quando un’azienda vuole introdurre un nuovo prodotto o un nuovo servizio non si usano le vecchie regole: se ne scrivono di nuove. E queste regole vengono scritte insieme, dall’azienda e dall’autorità pubblica. In Italia non è così: il nostro è un sistema costruito sulla gestione dell’esistente.

La regola prevale sull’innovazione e spesso ne blocca lo sviluppo. Legge elettorale e riforme costituzionali rappresentano temi rilevanti per il Paese ma – non lo si ripete mai abbastanza – i problemi fondamentali restano quelli del lavoro e dell’economia. Questioni tutt’altro che risolte, come purtroppo certificano gli ultimi dati sulla disoccupazione giovanile che è tornata a crescere sino a un preoccupante 39,4%. Posto che non vi è la possibilità di far ripartire l’occupazione incrementando la spesa pubblica (molti lo vorrebbero ma con questo debito è impensabile), non resta che convincersi che l’unica strada per far ripartire crescita e lavoro è sostenere lo sviluppo delle nostre imprese. E qui il tema si complica perché parte dei partiti e degli imprenditori hanno sempre interpretato questo sostegno come l’elargizione di contributi. Una policy che ha dimostrato di non funzionare. Servono piuttosto opportunità per lo sviluppo che però troppo spesso vengono negate agli imprenditori da una burocrazia asfissiante e dall’inadeguatezza delle infrastrutture. Secondo i dati del report Doing Business una concessione edilizia in Italia richiede 227 giorni e servono a un medio imprenditore 240 ore solo per pagare le tasse: quasi due mesi sottratti alla produzione. Ben diversa la situazione in Francia o Inghilterra, dove per gli stessi adempimenti si deve invece dedicare la metà del tempo.

Quanto alle infrastrutture, si pensi non solo a quelle fisiche (strade, aeroporti, ferrovie…) ma soprattutto a quelle digitali. Siamo tra gli ultimi in Europa per velocità e diffusione della banda ultra larga e in fondo alla classifica per rapidità del download. Non si tratta solo di statistiche. Purtroppo, in un’economia dominata dalla velocità, procedere più lentamente ha un prezzo rilevante. Così proliferano tre fenomeni: aziende che chiudono, altre che se ne vanno e altre ancora che vengono acquistate da gruppi stranieri. La lista delle imprese italiane cedute all’estero è lunghissima. In un’economia globale il fenomeno non è di per sé negativo. Colpisce però lo sbilanciamento e la minor penetrazione dei nostri imprenditori all’estero. Siamo troppo piccoli: la Borsa di Milano non solo è anni luce distante da quella di Wall Street, ma con i suoi 522 miliardi di capitalizzazione è un terzo di quella di Francoforte e Parigi. Tra l’altro, banche e Fondi di investimento che potrebbero accompagnare lo sviluppo hanno da noi dimensioni molto più contenute. Ovviamente vi sono molte responsabilità degli imprenditori. Tuttavia in Italia – e questa è una colpa dello Stato – vige un modello tortuoso, formalista, burocratico, fatto di bolli e autorizzazioni con una produzione legislativa eccessiva o superata dall’evoluzione dei rapporti sociali che limita fortemente la crescita e qualche volta la sussistenza stessa delle aziende. E non dimentichiamo la debolezza del nostro governo.

Certo, siamo in Europa ma la competizione tra Stati resta evidente e la capacità francese o tedesca di difendere le proprie esportazioni mette ancora più in luce la nostra fragilità. Il cahiers de doléances sarebbe ancora molto lungo. Basti ricordare l’incredibile lentezza della giustizia civile e la complessità delle cause di lavoro: due veri deterrenti agli investimenti. Oppure il nodo irrisolto delle liberalizzazioni e privatizzazioni. Il punto è chiedersi perché vi sia una scarsa propensione del mondo politico ad affrontare questi temi. Le risposte sono molte ma certo tra esse vi sta anche la scarsa presenza di imprenditori e partite Iva nelle istituzioni. Eppure non investire in innovazione e continuare a nutrire le mille inefficienze della PA rappresenta un danno enorme per tutti i cittadini. Occorre porre i temi liberali di nuovo al primo punto dell’agenda politica. I nostri irrisolti problemi sono ancora lì a suggerircelo.

Tra le molte note dolenti chiudo con una positiva. Il numero di giovani imprenditori è in forte crescita; per desiderio di intraprendenza e realizzazione prima ancora che per motivi economici. Sono 120mila le nuove imprese aperte da under 35 nel 2015: più della metà sono sopravvissute. Pagano tasse e creano occupazione. Per farne crescere il numero non ci vorrebbe poi molto. C’è necessità di opportunità più che di aiuti, quelle che gli ultimi governi non hanno saputo offrire.

Mps, Province, debito. Che cosa succede in Italia?

Mps, Province, debito. Che cosa succede in Italia?

di Massimo Blasoni

Il pendolo del sentiment nazionale è in costante movimento. Se fino a qualche tempo fa riforme e spending review sembravano – almeno a parole – obiettivi imperativi, oggi rischiamo che a prevalere sia il verso contrario. Pensiamo alla crisi economica. Abbiamo provato a uscirne facendo sacrifici ma non ci siamo riusciti e allora esorcizziamo il peso del debito e del deficit tornando a parlare di Stato. Dal mantenimento delle Province alla pubblicizzazione di Monte dei Paschi passando per il desiderio di un ritorno al proporzionale: sembra che da più parti dilaghi il rimpianto del bel tempo andato, quando i problemi si risolvevano con un accordo a tavolino, non importa a quale costo.

Continua a leggere l’intervento sul sito Formiche.net

Ci sono i soldi per Mps ma non per pagare chi lavora per lo Stato

Ci sono i soldi per Mps ma non per pagare chi lavora per lo Stato

di Massimo Blasoni – Libero

Margaret Thatcher amava ripetere che «non esistono i soldi pubblici, esistono quelli dei contribuenti». Difficile sostenere che i nostri governanti abbiano in materia le stesse idee. I 20 miliardi di fondi pubblici che il governo Gentiloni ha appena destinato al salvataggio di Monte Paschi di Siena e di altre banche dissestate (molto spesso da vertici nominati in ragione della loro affiliazione partitica) dimostrano piuttosto il contrario, andando indiscriminatamente a pesare sulle tasche di tutti i contribuenti e ampliando la voragine del nostro debito pubblico. Intendiamoci, questa misura si è resa necessaria come extrema ratio per salvare il nostro sistema creditizio ed evitare il rischio di un effetto domino esiziale per l’intera economia italiana. Pesa però il grave ritardo di una scelta che sarebbe stata molto meno onerosa se decisa anche solo un anno fa, quando Matteo Renzi andava in tv a sostenere che Mps «è una banca risanata e investirci è un affare».

Ma soprattutto questa vicenda dimostra come per Palazzo Chigi non tutte le imprese private siano uguali. Nonostante le reiterate promesse, lo Stato ha infatti continuato ad accumulare uno stock di circa 61 miliardi di euro di debiti commerciali nei confronti delle aziende dalle quali ha a suo tempo acquistato beni e servizi. Se un cittadino non paga le tasse entro il termine dovuto e’ duramente sanzionato, lo stato invece paga i suoi debiti quando vuole e resta impunito. Il suo ritardo nei pagamenti non ha confronti con alcun altro Paese europeo. Queste imprese meriterebbero almeno la stessa attenzione riservata a Monte Paschi e alle altre banche in crisi, se non altro perché molto spesso vengono gestite con maggiore capacità e accortezza. I ritardi nei pagamenti determinano un onere finanziario enorme per le nostre aziende: scontare in banca le fatture non saldate è costato loro nel 2016 oltre 5 miliardi. È anche questa una delle ragioni alla base dell’impressionante ritmo dei fallimenti nel nostro Paese: ogni giorno lavorativo chiudono infatti per insolvenza ben 57 imprese. Alla fine di quest’anno ne saranno fallite ben 14.348 e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse a partire dal 2009. Un dato che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse e che evidenzia come il nostro governo, nei confronti delle aziende private, usi due pesi e due misure.

Non è un paese per giovani

Non è un paese per giovani

di Massimo Blasoni – Panorama

L’Italia rischia di essere un Paese con poche speranze, soprattutto per i giovani. Per quelli che hanno votato no al referendum al Sud perché ritenevano inadeguato il governo: oltre il 70% nelle Isole e giù di lì in Campania e Calabria. Anche per quelli che pensano che sia indispensabile emigrare all’estero per fare carriera, oppure più semplicemente per trovare lavoro. In effetti non sono pochi i giovani italiani che sono emigrati, oltre 60mila quest’anno. Ci dicono i dati ISTAT che le mete preferite sono il Regno Unito e la Germania. Se ne vanno in Paesi che, in effetti, hanno più crescita e meno burocrazia e dove è più facile fare ricerca. La metà di essi sono laureati e più del 5% tra coloro che hanno conseguito un titolo magistrale se ne va entro un anno dalla conclusione degli studi.

Colpisce una ricerca dell’Osservatorio di Demos-Coop. Il 63% dei nostri figli è convinto del fatto che difficilmente riuscirà a raggiungere – non certo a superare – la posizione sociale dei genitori. Il timore che non esistano opportunità e possibilità adeguate fa crescere l’esercito dei Neet. Sono coloro che né studiano né lavorano e il loro elevato numero ci colloca, in questa speciale classifica, all’ultima posizione in Europa. Un triste primato. I giovani sanno che le scelte fatte in passato con politiche previdenziali e lavori ipergarantiti si traducono oggi, per loro, in situazioni di incertezza. Temono di non avere oggi un lavoro e tantomeno, domani, un dignitoso trattamento pensionistico. D’altronde il nostro tasso di occupazione è al 57,2%, venti punti percentuali inferiore a quello tedesco. Così si allarga il solco tra generazioni.

Scontiamo anche un difetto di formazione. Siamo tra gli ultimi in ambito OCSE per risorse investite nell’Università in rapporto al Pil e meno della metà dei ragazzi italiani ha competenze digitali, contro una media europea del 59%. La maggior parte di loro vive a casa: due su tre, il doppio rispetto ai coetanei francesi e tedeschi. Ovviamente un po’ di mammismo c’è, tuttavia non è prevalente. Tra giovani choosy – cioè schizzinosi – come disse la Fornero nel 2012 e i ragazzi che avrebbero la voglia e le potenzialità per fare di gran lunga prevalgono i secondi. Un esempio? Il numero dei giovani imprenditori è in forte crescita; per spirito d’indipendenza e desiderio di realizzazione e non solo per motivi economici. Nel 2015 gli under 35 hanno aperto 120mila nuove imprese, mentre le chiusure sono state 53mila: un forte saldo positivo. Le young start up in Italia sono il 10% circa delle oltre 6 milioni totali, in media più che nel resto d’Europa. Dunque ci sono anche molti giovani che hanno voglia di mettersi in gioco, sia questo per necessità o per inseguire i propri sogni. Per ingrossarne il numero basterebbe che l’assenza di riforme e l’eccesso di burocrazia del nostro Paese non rappresentassero per loro il primo freno. C’è necessità di opportunità più che di aiuti, quello che gli ultimi governi non hanno saputo dare.

Sulla casa pesano 11 miliardi di tasse in più

Sulla casa pesano 11 miliardi di tasse in più

di Chiara Merico – La Verità

Uno degli argomenti più gettonati dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi è stato il taglio delle tasse a opera del suo governo, un refrain sentito più e più volte, specie nell’ultima fase della campagna elettorale per il referendum. Ma a smentirlo, alla vigilia del giorno in cui 25 milioni di italiani sono chiamati a versare il saldo di Imu, Tari e Tasi, arriva una ricerca del centro studi ImpresaLavoro, secondo cui dal 2011 a oggi il gettito complessivo derivante dalla tassazione sugli immobili è cresciuto del 30,2%, per un incremento su base annua di 11,4 miliardi rispetto a cinque anni fa. Questo anche se nel 2016 il gettito complessivo dovrebbe ammontare a 49,1 miliardi di euro, in calo del 6,1% rispetto al livello record di 52,3 miliardi di euro segnato lo scorso anno.

ANNUNCI TRIONFALI

Insomma, la pressione fiscale sui proprietari di immobili rimane altissima, nonostante l’abolizione della tassa sulla prima casa. E nonostante le rivendicazioni dell’ex premier, che lo scorso febbraio, in una delle sue newsletter Enews scriveva: «Tutti convinti che abbiamo fatto bene ad abbassare le tasse. Ma ciascuno ha la sua personale classifica di quelle che andavano tagliate e di quelle che invece andavano mantenute. Impossibile accontentare tutti. Però (c’è la, ndr.) consapevolezza che rispetto al passato si è cambiato marcia: ora le tasse vanno giù, prima andavano su». Matteo Renzi aggiungeva una lista delle principali obiezioni che si era visto rivolgere: «Perché hai eliminato le tasse sulla prima casa? E perché questa insistenza sugli 80 euro? E perché gli 80 euro alle forze di polizia? E immaginate il resto: Irap, costo del lavoro, tasse agricole, tax credit sulla cultura. Impossibile accontentare tutti, dai».

Certo non è possibile venire incontro a tutte le esigenze, ma a quanto risulta dallo studio di ImpresaLavoro, rispetto al 2011 la pressione fiscale su chi possiede immobili non solo non è calata, ma è aumentata di un terzo. «A subire il maggiore incremento in questi cinque anni è stata la quota patrimoniale del prelievo – più che raddoppiata (+173%), secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti – a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti», si legge nello studio, dove si precisa inoltre che «i 3,6 miliardi di euro di gettito in meno rispetto al 2015 sono integralmente attribuibili al taglio della Tasi per le abitazioni principali, che ha fatto scendere il gettito da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Restano invece stabili a 20,4 miliardi su base annua le entrate derivanti dall’Imu». Ma, sottolinea lo studio, «la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva “solo” 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni fa anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti che passano da 5,6 a 8,4 miliardi di euro». In totale, oggi gli italiani pagheranno 10,1 miliardi di euro di Imu e Tasi, per una media di 535 euro a testa, con punte di oltre mille euro nelle grandi città come Roma, Milano e Bologna. Chi dovesse ritrovarsi impossibilitato a pagare il saldo entro il 16 dicembre potrà in seguito accedere al cosiddetto ravvedimento operoso, che prevede sanzioni crescenti all’aumentare dei giorni di ritardo.

TREDICESIMA MAGRA

Le scadenze di fine anno pesano parecchio, anche sui bilanci familiari dei fortunati che avranno la tredicesima: dei quasi 35 miliardi di euro che gli italiani incasseranno grazie all’assegno supplementare, infatti, solo il 14,8% (pari a 5 miliardi) potrà essere speso per regali, viaggi e feste di fine anno. Il resto, secondo il rapporto di Adusbef e Federconsumatori, servirà per onorare debiti pregressi, pagare rate del mutuo, bolli auto e bollette, e ovviamente il saldo delle tasse per chi ha una seconda casa. In base ai calcoli delle due associazioni dei consumatori, infatti, per questi contribuenti un terzo della tredicesima, in media circa 530 euro, se ne andrà così, cifra che sale a due terzi (1.000 euro) per chi ha un immobile in una grande città. L’Imu sulla seconda casa assorbirà 2,3 miliardi (4-9,5% rispetto al 2015), mentre la seconda rata della Tasi costerà 2,4 miliardi, +9,1% rispetto al 2015. «Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa», osserva Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro, «la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua a essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una manovra che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: ha impoverito il patrimonio delle famiglie, messo in ginocchio il settore dell’edilizia e generato grande incertezza, deprimendo consumi e domanda interna».