massimo gramellini

Questione di Censis

Questione di Censis

Massimo Gramellini – La Stampa

L’Italia è un Paese che umilia i giovani, denuncia l’ultimo rapporto Censis del diversamente giovane Giuseppe De Rita. Solo una sparuta minoranza immagina che l’intelligenza serva a farsi strada nella vita. Anche la cultura e l’istruzione godono di scarsa considerazione. I ragazzi italiani credono che per fare carriera servano le conoscenze giuste e i legami familiari, registra il presidente del Censis con sorpresa e, gli va riconosciuto, un certo dispiacere. Dopo di che procede alla nomina del nuovo direttore generale del Censis, l’ingegner Giorgio De Rita.

Sulle prime molti pensano a un caso di omonimia. Invece no, Giorgio è proprio figlio di Giuseppe. Fortunatamente non si tratta di raccomandazione, familismo o conflitto di interesse, fenomeni già catechízzati da De Rita (Giuseppe) in una dozzina di rapporti Censis. Dc Rita (Giuseppe) ha scelto De Rita (Giorgio) in quanto è il più bravo di tutti. E se tuo figlio è il migliore, non dargli il posto solo perché la nomina dipende da te sarebbe una discriminazione all’incontrario. Qualsiasi interpretazione diversa, sostiene De Rita (Giuseppe, ma probabilmente anche Giorgio), significa «cercare a oltranza il capello».

Il ragionamento ha una sua audacia, ma forse sottovaluta il fatto che qualsiasi altro padre interpellato dal Censis affermerebbe che suo figlio è il più bravo di tutti. Per questo nelle nazioni diverse dalla Corea del Nord vige l’usanza di impedire a un padre di assegnare incarichi di rilevanza pubblica a un figlio, sia pur bravissimo. Si tratta di clausole curiose dal nome a noi ignoto di regole. Ne scoprirà l’esistenza il prossimo rapporto del Censis.

Il disoccupato riluttante

Il disoccupato riluttante

Massimo Gramellini – La Stampa

Nascere a Berna presenta i suoi vantaggi. Intanto c’è una disoccupazione al 2,6 per cento, per cui hai 97,4 possibilità di trovare un lavoro o di permettere a lui di trovarti. Ma anche nel caso in cui tu faccia le capriole per sfuggirgli, usufruirai delle meraviglie del Renzi Act, che nei cantoni elvetici non è una chiacchiera da bar etrusco ma una legge che garantisce ai senza impiego un sussidio di lauta sopravvivenza. E se lo Stato, in cambio del sussidio, osa accalappiare un lavoro e addirittura proportelo? Potrai sempre fargli causa per mancanza di buongusto.

È quanto è capitato a un laureato disoccupato e sussidiato, nonché padre di neonato, che da anni studia a spese dello Stato per sostenere l’esame da avvocato. Pur di inserire una dissonanza in quell’esistenza piena di rime, gli hanno offerto un posto da spazzino. Mestiere che in Svizzera rasenta il contemplativo, dato che gli abitanti di quelle lande ossessive raccolgono, oltre alle cicche, anche la cenere e passano la cera pure sui marciapiedi. Per impugnare una ramazza simbolica, al prode laureato hanno garantito uno stipendio di 3600 euro al mese. E lui giustamente si è offeso: non tanto per la cifra, quanto per il disprezzo che da una simile proposta trasudava nei confronti dei suoi studi: un laureato in legge può al massimo spazzare il tribunale o una raccolta di codici polverosi. Lo Stato svizzero lo ha posto di fronte a un ricatto odioso: niente ramazza, niente sussidio. Così il nostro gli ha fatto causa, la prima della sua vita, ma l’ha persa. Forse neanche l’avvocato è il suo mestiere.

Trattamento di fine futuro

Trattamento di fine futuro

Massimo Gramellini – La Stampa

Sono completamente d’accordo a metà con l’Annunciatore di Firenze, quando gigioneggia di inserire la cara vecchia liquidazione in busta paga. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe persino apprezzabile il tentativo di trasformare il lavoratore in un adulto. Per decenni lo si è trattato come un irresponsabile che andava protetto da se stesso. Non gli si potevano dare tutte le spettanze nel timore che le divorasse, arrivando nudo alla meta, solitamente micragnosa, della pensione. Sminuzzando il Tfr in rate mensili, si affida al beneficiario lo scettro del proprio destino: toccherà a lui, non più al datore di lavoro o allo Stato Mamma, decidere la destinazione dei suoi soldi.

Purtroppo la realtà non è fatta della stessa sostanza degli annunci. Intanto il Tfr è un denaro che esiste solo come promessa: nel momento in cui lo si trasformasse in moneta sonante, per pagarlo i datori di lavoro sarebbero costretti a indebitarsi. Quanto allo Stato, passerebbe da Mamma a Matrigna: l’astuto Annunciatore si è dimenticato di dire che in busta paga la liquidazione soggiacerebbe a un’aliquota fiscale più alta. L’imprenditore ci perde, lo Stato ci guadagna. E il lavoratore? Incamera qualche euro da gettare nell’idrovora boccheggiante dei consumi, ma smarrisce l’idea di futuro con cui erano cresciute le generazioni precedenti. La liquidazione era un tesoretto intorno a cui coltivare speranze e progetti per il tempo a venire. Il suo sbriciolamento rischia di diventare l’ennesimo sintomo di un mondo che si sente a fine corsa e preferisce un uovo sodo oggi a una gallina di fine rapporto domani.