Matteo Renzi

Debito Pubblico: con Renzi è cresciuto a velocità doppia rispetto a Letta

Debito Pubblico: con Renzi è cresciuto a velocità doppia rispetto a Letta

Da quando Matteo Renzi è presidente del Consiglio il debito pubblico italiano è cresciuto a velocità doppia rispetto al periodo in cui l’inquilino di Palazzo Chigi era Enrico Letta. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Bankitalia.
Durante i primi 15 mesi di attività dell’attuale governo, infatti, il debito pubblico ha registrato un incremento in valore assoluto di 98,76 miliardi di euro – passando dai 2.119 miliardi di euro del marzo 2014 ai 2.218 miliardi di euro del maggio 2015 – con un aumento medio mensile di 6,58 miliardi di euro.
Durante i 10 mesi di attività del governo Letta, il debito pubblico ha invece registrato un incremento in valore assoluto di 31,38 miliardi di euro – passando dai 2.075 miliardi di euro del maggio 2013 ai 2.106 miliardi di euro del febbraio 2014 – con un aumento medio mensile di 3,14 miliardi di euro. Un ritmo di crescita più che dimezzato rispetto a quello fin qui registrato durante il governo di Renzi.

 

LEtta Renzi

Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

di Carlo Lottieri

Da più di vent’anni in Italia è ripetutamente richiamata l’esigenza di operare programmi di privatizzazione, che sottraggano allo Stato il controllo di ampi settori economici e li affidino a soggetti privati. Molte dismissioni hanno pure avuto luogo, anche se tanto resta da fare, ma non sempre è chiaro il vero motivo che deve portare lo Stato a mollare la presa su tante aziende. Questa mancanza di chiarezza nelle idee è premessa a privatizzazioni che, in troppi casi, si rivelano deludenti. Ora potrebbe aprirsi una nuova stagione, simile a quella dei governi dei primi anni Novanta, ma le conseguenze di eventuali cessioni saranno molto diverse sulla base delle ragioni che inducono a privatizzare.
Fino ad ora, infatti, troppe volte la ragione che ha indotto questo o quell’amministratore a privatizzare è stata la semplice esigenza di reperire risorse. Il tal comune mette in vendita alcune farmacie solo allo scopo di avere soldi da destinare alla costruzione di impianti sportivi o biblioteche. A ben guardare, questa non è una privatizzazione, ma una semplice riallocazione delle risorse a disposizione: come quando si cede un immobile per averne un altro. Perfino se il senso primario della privatizzazione fosse quello di reperire capitali da destinare alla copertura del debito (cosa di cui c’è sicuramente bisogno), perfino in quel caso se ci si limitasse a ciò ancora una volta si mancherebbe il bersaglio.
È anche opinabile la tesi di chi sostiene che si deve privatizzare per rendere più efficiente il sistema nel suo complesso. È vero che le imprese private sono mediamente molto più dinamiche, innovative e capaci di soddisfare il pubblico di quanto non siano quelle in mano allo Stato. Ma anche l’argomento dell’efficienza è inadeguato o, meglio, incompleto. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre il debito pubblico e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà. In questo senso ogni privatizzazione è un’amputazione del potere detenuto dall’apparato politico e burocratico. Ed è esattamente per tale motivo che ogni dismissione va accompagnata da una liberalizzazione del settore interessato.
In questo senso sarebbe certamente riformatore quel governo che mettesse sul mercato fino all’ultima azione di Trenitalia e che destinasse gli introiti a ridurre la montagna del debito di Stato. Sarebbe poi facile, in un arco di tempo ragionevole, constatare come la nuova azienda ferroviaria si orienti presto a mutare il proprio stile ed assumere comportamenti più orientati a tagliare i costi inutili, migliorare l’offerta, soddisfare la clientela. Ma i veri risultati arriverebbero solo grazie a un’apertura di mercato che possa vedere più aziende operare in concorrenza tra loro. Il significato più liberale delle privatizzazioni sta dunque nel ridimensionamento del potere pubblico ed è anche per questa ragione che ogni dismissione non è veramente tale se il settore non è aperto alla concorrenza di mercato.
La scelta di trasferire beni e imprese dalle mani di politici e burocrati a quelle di proprietari e imprenditori produce benefici di vario tipo: e certo può aiutare a ridimensionare il debito e migliorare l’efficienza. Ma gli effetti maggiori si hanno quando il cambio di titolarità (dallo Stato ai privati) serve a creare spazi di libertà e a superare situazioni di monopolio legale e privilegio.
Gli effetti economici delle privatizzazioni sono evidenti, ma il punto cruciale è un altro. Nel suo significato più autentico le dismissioni puntano a ricostruire un ordine di diritto e quindi di libertà, anche nella persuasione che solo entro istituzioni legittime e al servizio della società un’economia può crescere in maniera durevole.
Il Governo Renzi ha fatto poco per le imprese – Il Giornale

Il Governo Renzi ha fatto poco per le imprese – Il Giornale

Massimo Blasoni – Il Giornale

Al di là del Jobs Act il governo Renzi ben poco ha fatto per sostenere il nostro sistema produttivo. Dove, si badi, per sostenere qui si intende essere messo in condizione di competere alla pari con i principali partner dell’Unione Europea. Eppure è evidente che la ripresa come l’occupazione sono legate al rilancio della capacità produttiva delle aziende. C’è da chiedersi perché il Governo comprenda così poco le ragioni dell’impresa. Da un lato è complesso attuare le riforme (liberalizzazioni, privatizzazioni, sburocratizzazione) di cui abbisognerebbe il Paese; dall’altro, ben pochi (certo non il Premier) vengono dal mondo dell’impresa. Due supposti  motivi, che però non rappresentano certo una scusante.

Ci sono Paesi che attraggono investimenti anche cercando di semplificare. Se crei una nuova impresa – questo è il ragionamento –  crei lavoro, tasse, dunque ti facilito. Da noi servono 233 giorni (fonte Doing Business) per un permesso di costruzione contro i 94 tedeschi o i 64 danesi e un imprenditore dedica alla burocrazia quasi il doppio del tempo che gli necessiterebbe nella maggior parte  degli altri paesi UE. Eppure un sistema di regole più semplice e minori tortuosità burocratiche, si tradurrebbero in sviluppo. L’indice di imprenditorialità – cioè la facilità di fare  impresa – ci colloca dietro tutti i nostri principali partner europei. Qualche volta sembra che una parte di paese lavori ed un’altra controlli producendo una montagna di carta e regole complicate.

Si è logorato anche il rapporto di fiducia tra Stato e Impresa. Le aziende anticipano, nel meccanismo dei saldi degli acconti, le imposte che dovranno l’anno successivo ma lo stato paga i propri fornitori quando vuole. La promessa del premier di saldare i debiti pregressi verso le imprese si è dimostrata vana. Nel 2014 il tempo medio di pagamento della pubblica amministrazione è stato di 144 giorni e si è completamente riformato il debito commerciale raggiungendo gli 67,1 miliardi di euro. Il livello delle nostre infrastrutture è assolutamente inadeguato, comprese quelle informatiche:  l’Italia è 47esima al mondo per velocità di connessione con una media di download di 5,2 Mega al secondo, contro i 9,9 del Regno Unito, i 12,7 della Svizzera e i 7,2 della Spagna.

E’ noto che il nostro carico fiscale ci colloca tra i Paesi più tassati del mondo, eppure la spesa pubblica che questo flusso di denaro nutre malgrado ogni sforzo continua a crescere: e purtroppo si incrementa la spesa corrente – stipendi, acquisto di beni e servizi-  mentre si riduce quella per investimenti. Tutto questo non soffermandoci sui maggiori costi che sopporta un’impresa italiana in tema di energia o di accesso al credito che ulteriormente frenano – lo dico da imprenditore –  la capacità di competere. Certo non invoglia gli investimenti un paese dove la soluzione delle dispute commerciali richiede mediamente 1185 giorni e dove inarrestabilmente legiferano Stato e Regioni, spesso in competizione tra loro. Una situazione complessa che richiederebbe interventi immediati che non ci sono stati. L’inazione non può più essere coperta da un paravento di slide. Forse anche per questo la luna di miele si è interrotta,  così come la fiducia verso il premier.

Gli studi che bocciano la strategia  di Renzi

Gli studi che bocciano la strategia di Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

È difficile comprendere perché il Governo Renzi – o, d’altronde, qualsiasi esecutivo deputato a governare l’Italia in questi anni – non ponga il nodo dell’aumento della produttività al centro delle proprie riflessioni e della propria azione. Oppure, quanto meno, come parametro essenziale per valutare le politiche istituzionali ed economiche settoriali. I documenti Istat sono chiarissimi, in particolare il Rapporto Annuale 2015 pubblicato meno di un mese fa: la produttività (comunque la si voglia definire) non cresce dal 1999 e dall’inizio della crisi nel 2007-2008 abbiamo perso un quarto del valore aggiunto nel manifatturiero, con la probabilità di non poterci ben presto più fregiare della palma di essere la seconda potenza industriale dell’Unione europea.

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Renzi mette le mani sul tesoro della Cdp

Renzi mette le mani sul tesoro della Cdp

Davide Giacalone – Libero

Cambiano i vertici della Cassa depositi e prestiti (Cdp). L’attenzione collettiva s’appunta sui nomi, che, però, dovrebbero essere funzione della cosa e del cosa sono incaricati di fare. Questa partita è rilevantissima. Di portata storica. Sarà bene non cucinarla e non consentire che sia cucinata come fosse un qualsiasi piatto della mensa governativa.

È capitato spesso che incarichi scaduti si siano trascinati in regime di proroga, perché non si procedeva alle nuove nomine. Cattivo costume. Qui, però, siamo di fronte a uno spettacolo opposto: i vertici attuali scadrebbero fra un anno, ma vengono silurati e sostituiti in anticipo. Perché? Troverei meritorio l’avvicendamento, se agli attuali responsabili s’imputassero precise mancanze. Riterrei utile sostituirli anche solo perché hanno parlato troppo, come fossero alla guida di un fondo d’investimento, anziché di un istituto molto particolare, che dovrebbe provvedere al finanziamento degli enti locali, non al perseguimento di una (quale?) politica industriale. Ma è questo il senso della decisione governativa? O vengono mandati via perché non sono stati abbastanza solleciti nel dare attuazione ai non ordini governativi? Ovvero a quelle iniziative che dal governo vengono suggerite, senza neanche potere essere esplicitamente imposte? Ai nuovi dirigenti è assegnata la missione di perseguire più riservatezza o più attivismo? Sembrerebbe la seconda cosa, visto che si tratta di due banchieri, di cui uno proveniente da una banca d’affari. Sembrerebbe, ma dovrebbe essere chiaro. Su un punto di tale rilevanza sarebbe opportuno un apposito dibattito parlamentare.

Per dirne una: la Cdp si colloca al di fuori del perimetro della spesa pubblica, può agire, quindi, senza intaccare il deficit e il debito pubblici, ma resta una Cassa pubblica, posseduta dal ministero dell’Economia e, in posizione largamente minoritaria, dalle fondazioni bancarie; l’abbondante liquidità di cui dispone (capace di generare dividendi per gli azionisti) discende dalla gestione dei flussi generati dalle Poste; per queste ultime è prevista l’imminente quotazione in Borsa. È evidente che i soldi o si valorizzano da una parte o dall’altra, il che sposta, non poco, la loro resa in capo ad azionisti privati (in Borsa) o pubblici. Un chiarimento è necessario, se non vogliamo continuare a quotare lo statalismo, dopo avere abbondantemente quotato il socialismo municipale. Domenica scorsa segnalavamo i casi paralleli di telecomunicazioni e acciaio, due settori prima pubblici, poi privatizzati, quindi nuovamente oggetto d’intervento pubblico. Se la Cdp è destinata a essere lo strumento principe di questa nuova economia pianificata è lecito chiedere che ne siano discussi i contorni, gli strumenti e le finalità.

Ricordo che financo Mussolini, quando imboccò la strada dell’intervento pubblico in economia, lo fece affidandone la gestione a gente come Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli, che non solo non erano partecipi di alcun fascio magico, ma erano antifascisti (e agli oppositori del regime diedero non pochi aiuti). Da quella scelta, lungimirante, nacque sia l’Iri che la Mediobanca, poi affidata a un antifascista di nome Enrico Cuccia (che aveva sposato la figlia di Beneduce, il cui nome è un programma: Idea Nuova Socialista). Lungi da me abbandonarmi all’apologia, ma sarei rattristato assai se quell’esempio fosse considerato troppo liberale e sciocco nel non favorire i propri amici. Sarebbe imbarazzante scoprire che oggi è più facile d’allora mettere le mani sulla e nella Cassa.

Il cambio ai vertici della Cdp non può e non deve essere un problema di nomi ma di politiche. Le scelte non possono e non devono essere per amicizia e colleganza, né di chi governa né di chi lo affianca guidandolo. Qui stiamo parlando della colonna vertebrale stessa di un’Italia produttiva che prova a rimettersi in piedi. Se c’è la gobba, meglio correggerla subito. Se c’è un gobbo, da cui gli attori leggono il copione, meglio individuarlo subito. Rimandare e far tinta di niente significa prepararsi a perdere tempo, quattrini e a far nascere una nuova genia di corsari pronti ad arricchirsi con la spesa pubblica. Sarebbe opaco e pericoloso un governo che si rifiutasse di affrontare il dibattito. Sarebbe inutile e miserevolmente succube un’opposizione che non lo chiedesse.

Il test “di sinistra” che boccia Renzi

Il test “di sinistra” che boccia Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

È auspicabile che la direzione del Partito Democratico, convocata per valutare i risultati elettorali alle regionali, non sia un “regolamento di conti” all’interno del Pd, ma esamini con ponderazione non solamente se la politica del Governo Renzi sia sul percorso che porta a raggiungere i risultati annunciati (soprattutto sul piano economico), ma se sia “di destra” o “di sinistra”. Tema sollevato da numerosi esponenti del Pd medesimo.

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Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Davide Giacalone – Libero

È grave che l’Italia sia stata esclusa dal vertice europeo sulla situazione greca. Sono ridicoli quelli che vogliono sempre andare a battere i pugni da qualche parte, ma la nostra esclusione ha a che vedere con interessi vitali del Paese, mica con questioni d’etichetta o fasulla prosopopea. Il fatto che si siano visti i capi dei governi francese e tedesco, assieme ai vertici della Banca centrale europea e del Fondo monetario inoltre, non trova legittimità in alcun trattato europeo. In attesa di aggiornarli si dovrebbe rispettarli.

Qualche numero è utile a capire la nostra posizione, nonché l’inaccettabilità dell’esclusione. Il debito greco ammonta a 330 miliardi di euro. Il 60% è detenuto da fondi europei Efsf ed Esm. L’8% dalla Bce. Il 5% sono altri prestiti. Il 12% dal Fmi. Sommando le prime tre voci si arriva al 73%. Noi italiani siamo i terzi contributori di quei fondi e di quelle istituzioni, giacché si paga in ragione del prodotto interno lordo (Germania 27, Francia 20, Italia 18%). Già questo basterebbe e avanzerebbe per essere invitati non a colazione, ma a parlare di una Grecia la cui sorte ci riguarda tutti. Ma questi dati sono in parte ingannevoli, perché l’Italia è si il terzo creditore, ma, forse, è il primo netto.

Al momento del primo default greco (2010) i sistemi bancari erano cosi esposti rispetto al montante del debito greco: Germania 42%, Francia 32, Olanda 11, Belgio 8 e Italia 5. Quei titoli del debito greco non venivano acquistati per generosità, ma perché ad alto rendimento. Si pensava senza rischio, sbagliando alla grande. A quel punto i più esposti gridarono aiuto, altrimenti sarebbe saltato il sistema bancario europeo. Il primo fondo di salvezza (Efsm) fu finanziato con il meccanismo solito, quindi noi pagammo per il 18 del totale, essendo esposti per il 5%. Si disse che era sperimentale, ma poi quella regola restò. Quindi: sì, siamo i terzi creditori, ma considerato che il primo e il secondo sono quelli che hanno preso più soldi per le loro banche, è probabile si sia i primi netti. E stiamo fuori dall’uscio?

Poi c’è l’altra faccia della medaglia, ovvero il nostro mostruoso debito pubblico. Che è una colpa, Però è anche la ragione per cui siamo più interessati di altri. Il risalire degli spread (nonostante la morfina Bce) lo paghiamo noi più di tutti. E va anche detto che dal 2008 al 2013 l’incremento del valore monetario del nostro debito è stato del 24%, mentre quello tedesco è cresciuto del 30 e quello francese del 44. Il che contribuisce (solo in parte) a capire come abbiamo fatto ad avere la recessione più lunga e dura.

Dunque: sulla base di quale superiorità politica e in virtù di quale articolo dei trattati due governi europei trattano come cosa loro un problema collettivo? Hanno ricevuto un mandato? Da chi? Considerato che al tavolo sedevano una istituzione internazionale (Fmi) e due europee (Bce e Commissione), si sono prese decisioni, o anche solo orientamenti? Perché la loro legittimità non sarebbe dubbia, bensì inesistente. Dopo due guerre mondiali l’asse franco-­tedesco fu un bene, ma dopo la nascita dell’Unione europea e dell’euro (in particolare), quell’esclusività sa di usurpazione. Non è un modo per rendere più dinamica e autorevole l’Unione, ma per garantirsi l’esatto contrario, alimentando il vittimismo na­ zionalista di quanti si sentono prede della forza teutonica. Dall’Italia si lanciano appelli, a cominciare da quello del Presidente della Repubblica, affinché gli inglesi anticipino il loro referendum sull’Ue, previsto per il 2017. Ma perché? Capisco lo facciano francesi, spagnoli e tedeschi, che hanno varie scadenze elettorali, ma a noi converrebbe il contrario: usare la pendenza di quell’arma (così concepita dagli inglesi) per innescare negoziati seri e rivedere quel che non va nell’ingranaggio europeo. Si può essere per la fine dell’Ue e l’uscita dall’euro. Trovo siano errori, ma ne capisco il senso (temendo che sfugga a chi li propone). Da europeista, però, vedo quel che s’è inceppato e so per certo che se non riparato porterà tutto alla rovina, sicché, quando si tengono riunioni come quella di Berlino, mi domando se c’è ancora un governo italiano e se pensa, con calma, di dovere dire qualche cosa. Anche per non dare l’impressione che si taccia per avere indietro l’elemosina dell’elasticità sui conti, ovvero un favore da somari che aiuta il governo in quel momento in carica senza essere di alcuna utilità all’Italia.

La mazzata dell’Istat alle politica  economica di Renzi

La mazzata dell’Istat alle politica economica di Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Per una mera coincidenza, la mattina del 20 maggio è stato presentato il Rapporto annuale 2015 sull’economia italiana dell’Istat e il pomeriggio il Centro di ricerche e studi Luigi Einaudi, l’Istituto affari internazionali e Ubi Banca hanno organizzato un convegno per presentare il Rapporto Einaudi sull’economia italiana e globale, che ha come titolo “Un disperato bisogno di crescita”. Due documenti molto differenti: il primo è una radiografia statistica dell’economia, e della società italiana, nel 2014 con qualche previsione per i prossimi 24 mesi effettuate con il modello econometrico dell’Istat, in sigla MeMo-It, mentre il secondo intende forgiare un consenso su politiche di crescita a medio e lungo termine per l’intera economia europea, non solamente per l’Italia. Tuttavia, il “bisogno di crescita” è elemento centrale di ambedue. E delle numerose discussioni in atto in queste settimane.

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Renzi vuole l’Internet di Stato

Renzi vuole l’Internet di Stato

Davide Giacalone – Libero

Sarà pure una corsa verso la larga banda, ma non è il caso di riarruolare la banda del buco. A qualcuno potrà sembrare una novità, ma solo perché ha la memoria corta: già una volta il governo usò l’Enel per ristatalizzare le telecomunicazioni. E fu una tragedia. Non per tutti, però, perché taluni fecero soldi a patate. Seguono nomi e fatti. Tornatici alla mente quando abbiamo letto (Repubblica) che il governo coltiverebbe questo insano progetto. Subito accompagnato dall’immancabile tweet di Renzi: «La Banda Ultra Larga è obiettivo strategico. Non tocca al Governo fare piani industriali. Ma porteremo il futuro presto ovunque». Per aggiornare e allargare la rete di telecomunicazioni il piano industriale ci vuole. Non è compito del governo stenderlo, ma immaginare di farlo fare ad una società controllata dal governo è una scelta politica.

Quella di Telecom Italia fu la peggiore privatizzazione immaginabile e mai realizzata. L’abbiamo dettagliatamente raccontata. Fatto è che, ripetutamente, il governo prova a ficcar le mani dentro quella che è una società privata. Ci provò il governo Prodi, provocando le dimissioni di Marco Tronchetti Provera. Ci hanno provato i governi Letta e Renzi, tentando di vendere a Telecom una società pubblica, Metroweb. Ora ci riproverebbe creando un concorrente diretto, in capo a una società guidata da vertici scelti dalla politica.

Il governo, naturalmente, non dovrebbe avere nessun motivo per difendere Telecom, che di guai ne ha tanti, essendo passata dall’essere una seria multinazionale, capace di creare ricchezza, a una società dialettale, oberata dai debiti. Ma il dovere del governo consiste nel creare le condizioni capaci di far vincere il miglior concorrente, non il fare concorrenza. Senza contare che le continue voci, l’avere appreso che da Palazzo Chigi si voleva dismettere la rete in rame, poi far entrare Cassa Depositi e Prestiti fra i soci, poi che questa avrebbe preso Metroweb e cosi via, sono turbative di mercato. Telecom è quotata in Borsa. E anche Enel lo è. Le chiacchiere, quindi, non sono solo tali.

Veniamo alla novità: usare Enel e i suoi cavi elettrici per diffondere la larga banda, in questo modo polverizzando Telecom e i suoi immobili vertici. L’ho già sentita. Anzi: l’abbiamo già vissuta. Fate attenzione alle cifre e alle date: nel 1997 il governo Prodi vende il controllo di Telecom per 11,82 miliardi di euro; subito dopo una società pubblica, che gestisce un monopolio, l’Enel, riporta lo Stato nelle tlc comperando Infostrada, e impegnandosi a spendere, a beneficio degli inglesi di Vodafone, 11 miliardi di euro. Lo Stato aveva ceduto il monopolista alla stessa cifra alla quale chiedeva di acquistare un concorrente. In realtà, alla fine, fu pagato il 32% in meno, quindi 7,5 miliardi, perché l’antitrust aveva chiesto di conoscere tutte le carte di questa compravendita e analoga istruttoria faceva l’antitrust europeo, così si era già perso del tempo, compreso quello necessario per discutere i ricordi al Tar. Nel mentre questo procedimento andava avanti erano scaduti i termini, fissati al 28 febbraio 2001, previsti dal preliminare di vendita. In quel tempo, oltretutto, i titoli delle società telefoniche erano crollati in tutte le Borse. Grazie a questo Enel chiese di rivedere il prezzo ed ottenne uno sconto. Ma se fosse stato per Enel la mano pubblica avrebbe consegnato agli inglesi i soldi che aveva incassato cedendo il controllo di Telecom Italia.

E ci sono altre due cose, da non dimenticare. La prima: Infostrada teneva nel suo seno la rete telefonica che era appartenuta alle Ferrovie dello Stato. Quella rete era stata comperata, nel 1997, dalla Olivetti, al prezzo di 700 miliardi di lire, pagabili in 14 anni, ed era stata rivenduta dalla stessa Olivetti alla Mannesmann, l’anno successivo, per 14 mila miliardi di lire, senza rateizzazione. Lo Stato ricomperava quella stessa rete che una sua azienda aveva venduto. La seconda cosa da non dimenticare è che la rete Infostrada non venne acquistata da Wind, la società telefonica del gruppo Enel, perché allora vi erano ancora i soci francesi di France Télécom, i quali non avevano alcuna intenzione di svenarsi per una simile operazione. L’acquisto venne fatto da una società di diritto olandese, la Enel Investment Holding Bv. Una società di Stato che usava strumenti da elusione fiscale. Mica male.

Quando, nel 1998, si tiene la gara per il terzo gestore di telefonia mobile, Telecom fa osservare che si troverebbe come concorrente una società partecipata dallo Stato, retta dai soldi degli italiani che pagano le bollette. Il tutto mentre ancora esisteva (ed esiste) la golden share, che assegna al governo il potere di stabilire chi può essere socio di Telecom. Parlarono al vuoto, tanto che Enel, con Wind, vinse la gara. Ma durò poco, perché nel 2006 vendette tutto a Naguib Sawiris, egiziano. Prezzo della vendita: 1,962 miliardi. La sottrazione, rispetto a quanto è costata questa fugace avventura, fatela voi.

Dunque, per tornare al tweet presidenziale: il piano industriale ci vuole, altrimenti riviviamo lo stesso incubo; non tocca al governo, ma è il potere esecutivo a stabilire se una società controllata dallo Stato rientra in un settore che era statale e fu privatizzato; se è questo che hanno in mente, sappiano che non sono dei rottamatori, ma dei restauratori. Del peggio che ci toccò vedere.

C’è un legame tra Renzi e i black bloc?

C’è un legame tra Renzi e i black bloc?

Carlo Lottieri

A qualcuno può anche sembrare che la devastazione per le strade di Milano causata dai gruppi dei centri sociali porti soltanto acqua al mulino di Matteo Renzi, che d’altra parte è stato uno dei bersagli polemici di quella violenza di strada. Ed è possibile che, nel breve periodo, in qualche modo sia così e che qualche elettore arrivi a pensare che per sconfiggere la sinistra estrema (anche al di là dei black bloc) si debba puntare su questo ex-democristiano riuscito abilmente a mettere le mani su quanto rimane del vecchio Pci.
A ben guardare, però, la relazione tra renzismo e black bloc non è solamente di opposizione: come si capisce subito dalla lettura della “Carta di Milano” prodotta per iniziativa di questo governo e che l’esecutivo ha in vari modi esaltato. Quello stucchevole miscuglio di decrescita, ecologia, dirigismo e pauperismo che è appunto la Carta presentata nell’imminenza di Expo deve farci riflettere, perché il rapporto tra la sinistra in doppiopetto e quella di piazza esiste senza alcun dubbio e non va dimenticato.
I nostri giovani – a scuola, alla televisione, sui giornali – sono ogni giorno nutriti di una visione distorta della realtà proprio perché da decenni a dominare sono culture ostili al mercato e alla libertà individuale. Quello che la sinistra vuole realizzare è la sconfitta del capitalismo selvaggio e l’edificazione di una società senza diseguaglianze. Quanti hanno distrutto le vetrine di corso Magenta sono cresciuti in un mondo che ritiene normale togliere ai produttori la metà e anche più della ricchezza che realizzano in un anno. E anche per questo non si sentono affatto in colpa di aver sottratto qualche migliaia di euro a chi vende abiti costosi o gioielli.
È ovvio che non vi sia alcuna responsabilità diretta da parte di Renzi per le devastazioni del Primo Maggio, ma è egualmente vero che l’Italia di sinistra (cattocomunista, azionista, progressista, socialdemocratica ecc.) nel corso del tempo ha posto le basi per una contestazione crescente della proprietà e del mercato. E non c’è da stupirsi quando i figli sono un poco più violenti e più coerenti dei padri.
Se la mentalità contemporanea prevalente, che Renzi interpreta tanto bene, vede nelle diversità un’ingiustizia, quelli che il premier ha chiamato “teppistelli” ne traggono le conseguenze. Perché non si può mettere costantemente sotto accusa le logiche del profitto e poi immaginarsi che non succeda nulla.
Bisognerebbe allora iniziare a capire come l’estremismo di coloro che usano le molotov per cercare di sbriciolare le istituzioni del capitalismo liberale aiuti anche a comprendere quanto veleno vi sia nel moderatismo della sinistra governativa. L’immobilismo di chi non fa nulla per ridurre la costante crescita del debito pubblico e anche della tassazione viene talvolta accompagnato da una specie di retorica liberale, ma più spesso è giustificato dal persistere di quello statalismo che la Carta di Milano ha esaltato sotto vari aspetti principali.
È allora chiaro che o si riesce a contrastare il blocco sociale post-comunista e post- democristiano che sorregge Renzi e definisce in larga misura la cultura prevalente, oppure non cambierà nulla. Lo Stato continuerà a dilatarsi e molti dei nostri giovani riterranno di essere vittime di un qualche capitalismo selvaggio che esiste soltanto nei loro sogni e nei testi con cui vengono introdotti alla conoscenza della realtà.
Renzi vale quel che vale, prova a tirare avanti e in qualche rara occasione riesce perfino a muoversi nella giusta direzione. Ma la sua cultura è tanto intrisa di dirigismo che a ben guardare non è affatto così lontano da quanti l’hanno contestato nelle strade milanesi.
Chi desidera vivere in una società più libera e basata sull’economia capitalista deve sapere costruire un’alternativa sia a Renzi, sia alla sinistra radicale. Il mondo non può essere fatto di molte sfumature del rosso: bisogna invece cercare di dare spazio ad altri colori e a diversi modi di esaminare la realtà sociale.