Matteo Renzi

Date una pensione a Renzi e Poletti

Date una pensione a Renzi e Poletti

Giorgo Mulè – Panorama

Nei piani del governo, quello sulle pensioni doveva essere un blitz: improvviso e, aggiungo io, improvvido. Me lo confidò, lunedì 4 agosto, una mia fonte assai addentro ai segreti ministeriali. Con dovizia di particolari elencò le misure del blitzkrieg fissato per ottobre che prevedeva tra l’altro il varo dell’ennesimo e ipocrita «contributo di solidarietà», la rimodulazione degli assegni calcolati con il metodo retributivo e la revisione delle pensioni di reversibilità. Scrivemmo tutto, ovviamente, e giovedì 7 agosto mandammo in edicola la copertina di Panorama (numero 33) con Matteo Renzi nelle vesti di un vampiro e il titolo: Il prelievo. Nessun giornalone, nei giorni seguenti, approfondì la notizia. Normale, nel provincialismo editoriale italiano. Fin quando domenica 17 agosto il ministro del Lavoro, Guliano Poletti, ha confermato tutto con un’intervista al Corriere della sera. Il resto lo state leggendo in questi giorni (ben svegliati, colleghi) e continuerete a leggerlo nelle prossime settimane.

Sono circa 300 i miliardi che l’Italia paga ai pensionati ogni anno. Per ogni governo si tratta di una categoria bancomat: non c’è manovra, manovrina o manovrona che li abbia risparmiati. Le storture non mancano, per carità, ed è giusto intervenire anche in profondità. Il problema è che bisogna farlo con raziocinio e non a colpi di rapine indiscriminate. Evitando, soprattutto, azioni demagogiche modello Robin Hood come quella in corso: è profondamente sbagliato dipingere il titolare di una pensione da 3.000 euro come un ricco sfondato e quindi meritevole di essere spennato per cedere parte dei suoi soldi a chi ne ha di meno. Perché il pensionato che perderà soldi si sentirà povero e impaurito e spenderà ancora di meno rispetto a oggi mentre l’altro pensionato (già terrorizzato dalla congiuntura attuale e fresco di fregatura dal mancato arrivo degli 80 euro) che ne prenderà poco di più non si accorgerà neppure dell’incremento.

E mentre lor signori discettano di quanto e a chi rapinare, che cosa c’è da aspettarsi se non l’ennesima gelata sui consumi da parte di coloro che con quei 300 miliardi equivalgono al 20 per cento del prodotto interno lordo? Nella platea dei «ricchi» pensionati chi spenderà un euro in più oltre lo stretto necessario? Non ci vuole un economista di Harvard per enunciare questo banale parallelo, lo sanno perfettamente al ministero dell’Economia e pure a quello del Lavoro e lo ha sottolineato un insospettabile come Stefano «chi?» Fassina.

Alla radice di tutto c’è un problema di cultura di governo. Il ministro Poletti è una degnissima persona, un “tecnico” chiamato da Renzi: ma si è nutrito di pane e comunismo (pochissimo il pane) fin da quando aveva le brache corte. Nel defunto Partito comunista ha ricoperto incarichi importanti, è stato custode di quell’ortodossia maledetta nella rossissima Imola negli Anni 80. Che cosa c’è da aspettarsi da un ministro così se non un prelievo dalle pensioni che lui si ostina a chiamare «d’oro»? Inutilmente s’è atteso il colpo d’ala dal sempre assai loquace Renzi, una frasettina tipo: «Suvvia Giuliano, nun di’ bischerate». Macché, muto è stato. Poi, tanto per tenersi sulle generali, ha scritto un tweet che però non smentisce nulla: dice vagamente che i giornalisti a Ferragosto si inventano cose che il governo non ha neppure pensato. Ma a quali cose si riferisce? Tweet da Sibilla cumana.

Comincio a pensare che Renzi, oltreché muto, sia pure sordo. Al premier, che pure dall’orecchio destro, quello delle riforme, sembra recepire qualche segnale, bisogna sturare al più presto l’orecchio sinistro, quello dell’economia: deve avere un tappo che puntualmente gli impedisce di sentire. E, ahinoi, di cogliere la realtà.

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Primo step il pacchetto di misure all’esame del Consiglio dei ministri del 29 agosto: il decreto «sblocca-Italia», la riforma della giustizia civile e le linee guida sulla scuola con i nuovi meccanismi di reclutamento degli insegnanti per superare l’emergenza precari e il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro (mentre potrebbe slittare il provvedimento su «quota 96» per sanare la posizione di 4mila docenti pensionandi). Secondo step il 30 agosto, quando il Consiglio straordinario dei capi di Stato e di governo affronterà il nodo delle euronomine, con un focus sulle ricette per affrontare la congiuntura negativa che investe i big dell’eurozona, Germania, Francia e Italia in primis. Consiglio europeo “cruciale”, secondo quanto il premier Matteo Renzi ha fatto sapere ai suoi ministri.
Poi, a partire dall’Ecofin informale di Milano in programma il 13 settembre, l’avvio vero e proprio della trattativa per rendere esplicito «il miglior utilizzo della flessibilità», secondo le intese raggiunte nel Consiglio europeo di fine giugno, con l’obiettivo di chiudere il semestre di presidenza italiana della Ue con un pacchetto di proposte concrete, preventivamente concordate con la nuova Commissione europea che si insedierà in novembre. Mese in cui l’esecutivo comunitario renderà note le sue nuove stime sull’economia dell’eurozona, con annesse le prime valutazioni sulle manovre di finanza pubblica predisposte dai singoli paesi. Nel caso dell’Italia, la legge di stabilità che il Governo sottoporrà all’esame del Parlamento a metà ottobre. È già partita la caccia alle risorse per stabilizzare il bonus Irpef, all’interno di una manovra che si attesterà attorno ai 20 miliardi: tagli alla spesa, ma anche riordino delle agevolazioni fiscali e maggiori introiti attesi dalla lotta all’evasione.

Fonti di palazzo Chigi negano che sia in atto una sorta di trattativa pubblica o segreta sui conti italiani con l’Europa e che sia in arrivo un piano taglia debito, come riportato da alcune indiscrezioni giornalistiche. L’Italia, sottolineano le stesse fonti, «farà la sua parte come più volte ribadito dal premier, rispettando il vincolo del 3% senza aumentare la pressione fiscale. Non esiste, ribadisce palazzo Chigi, un problema Italia in Europa: esiste un problema dell’eurozona che l’Italia contribuirà ad affrontare». E il premier Matteo Renzi ai suoi collaboratori ricorda: «Abbiamo sempre detto che l’Europa non è solo spread e Maastricht, ora che la guidiamo noi è giusto dimostrarlo». La linea del Tesoro non cambia: le varie ipotesi di operazioni taglia debito circolate in questi giorni, e approdate fin nei corridoi di Via XX Settembre, presentano «problemi». Non esistono di fatto scorciatoie per il Tesoro, come ha ripetuto più volte Padoan, e quindi la via maestra per ridurre il debito pubblico al Mef è e resta una soltanto, ed è quella della crescita «sostenibile e sostanziale abbinata alla fiducia dei mercati». Fiducia che si conquista sul campo con uno sforzo continuo nell’implementazione delle riforme strutturali, con l’aggiustamento del bilancio, con un avanzo primario che sia considerevole e con i conti pubblici tenuti costantemente sotto controllo. Le privatizzazioni possono certamente contribuire ma in maniera minore, non sono decisive, hanno alti e bassi: il Tesoro conta di avvicinarsi molto all’obiettivo dello 0,7% di Pil programmato per quest’anno, con le privatizzazioni (senza Poste, la vendita di azioni Eni ed Enel integra la voce delle dismissioni) e con la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico per il quale grandi aspettative sono riposte nel decollo in autunno di Invimit, la SGR immobiliare posseduta al 100% dal Tesoro. La fiducia dei mercati, che è fondamentale per la riduzione del debito, è alimentata da un ventaglio di forme di intervento tra le quali non figurano operazioni taglia debito come quelle proposte in questi giorni. Una crescita non fiacca, le riforme strutturali, un avanzo primario importante restano il sentiero principale per ridurre il debito pubblico, dal quale l’Italia e il Tesoro non si discostano ma lungo il quale il Paese dovrà essere aiutato dall’Europa, che deve fare la sua parte (con nuove politiche per rafforzare la crescita) e dalla Bce che con la sua politica monetaria deve fare anch’essa la sua parte anche per combattere i rischi di deflazione.

Lo schema resta quello più volte enunciato da Renzi e Padoan: riforme in cambio di flessibilità nel timing di rientro dal debito, tenendo conto che rispetto allo scenario ipotizzato in primavera i due trimestri consecutivi di crescita sotto lo zero rendono di fatto obbligata la strada del ricorso alle «circostanze eccezionali» previste dal Fiscal compact. La contemporanea, brusca frenata di Germania e Francia rafforza la linea avanzata dall’Italia: solo attraverso azioni concordate e coordinate a livello europeo si potrà tentare di invertire il ciclo. Se, differentemente dalla Francia, l’Italia conferma che non vi saranno sforamenti al tetto del 3% per quel che riguarda il deficit, il focus si sposta sul percorso di rientro dal deficit strutturale (depurato dagli effetti del ciclo economico e dalla una tantum) così come delineato dalla disciplina di bilancio europea.
La frenata del Pil rende per noi di fatto impossibile, a meno di ricorrere a manovre restrittive di bilancio, rispettare la richiesta di Bruxelles in direzione dell’obiettivo di medio termine. Il pareggio di bilancio non potrà essere conseguito nel 2015, slitta al 2016 se non al 2017. La trattativa con Bruxelles dovrà a questo riguardo puntare in primo luogo a evitare il ricorso a misure aggiuntive già nel 2014 (in sostanza una manovra correttiva) chiesto dalla Commissione fin dalle raccomandazioni del 2 giugno. Richiesta motivata dallo scarto tra la stima del deficit strutturale calcolata da Bruxelles per il 2015 (0,7%) e lo 0,1% assicurato dal governo. A quel punto la trattativa si concentrerà proprio sul 2015 e sugli anni a venire e la carta che Renzi e Padoan si accingono a giocare, per quanto riguarda le politiche nazionali, punta sull’effetto atteso dalle riforme strutturali, che lo stesso Padoan fissa in almeno un biennio. L’auspicata flessibilità, da estendere evidentemente erga omnes, sarebbe dunque strettamente connessa alle riforme strutturali messe in campo, puntualmente monitorate dalla Commissione. Il giudizio di Bruxelles è atteso su questo punto non prima della prossima primavera.

Economisti da rottamare

Economisti da rottamare

Nicola Porro – Il Giornale

A un certo punto negli Stati Uniti fu varata una legge che obbligava ad installare i cosiddetti airbag in tutte le auto. Solo una pattuglia di libertari, un po’ pazzi, si dissociò. Uno di loro ebbe l’intuizione definitiva: se proprio non volete incidenti montate sui volanti delle auto, al posto dell’airbag, un coltellino che si conficchi nel petto in caso di urto. Tutti saranno portati a una guida iper prudenziale. Si tratta di un paradosso, ma anche di una provocazione: gli incentivi individuali contano più delle norme.

Sono le idee anticonvenzionali (come quelle di Keynes o Friedman per i loro contemporanei) a generare le svolte. Non il tran tran degli economisti burocrati. Insomma è necessario rottamare il pensiero condiviso degli economisti. Occorre una nuova generazione, nuove intuizioni, ricette clamorose. Nulla di personale. Ma gli ultimi economisti al governo ci hanno raccontato ciò che già sapevamo e che già non aveva funzionato. L’economia italiana muore per tanti motivi e per un solo grande colpevole: l’ingombrante presenza dello Stato. O almeno non abbiamo la prova contraria: e cioè non sappiamo come andrebbe se ci fossero meno leggi, meno regole e meno tasse. Insomma, fatecelo provare.

Abbiamo bisogno di una grande rottamazione culturale delle scuole economiche e burocratiche che si sono affermate in Italia e in Europa. Matteo Renzi ha dimostrato come sia possibile, in pochi mesi, rivoluzionare un partito strutturato e i linguaggi felpati della politica. Ma non è riuscito a fare altrettanto in campo economico. Siamo ancora là con i decimali del Documento di economia e finanza, con le manovre fiscali spot e i decreti di urgenza. Per la verità ha rotto il barboso e inutile tabù della concertazione. Ma non basta. Non ha fatto un centesimo, in economia, di quanto ha realizzato nel suo partito. Pensate un po’: è riuscito a portare Silvio Berlusconi al Nazareno, ma non un suo uomo al ministero dell’Economia.

Occorre più fantasia, più coraggio. Berlusconi nel 1994 lo ebbe. Portò al governo una pattuglia di economisti fuori dagli schemi. Importò il principio: meno tasse, più gettito, più crescita. Non lo realizzò. Ma allora era una novità, oggi una frasetta sdrucita da talk show. Ecco. Non si tratta (per il paese e incidentalmente per il centrodestra) di ritornare al 1994. L’economia mondiale è cambiata. Si tratta di trovare il coraggio di mettere un bambino senza pregiudizi alla corte dell’economia che dica: il re è nudo.

Quattro anni sprecati

Quattro anni sprecati

Luciano Gallino – La Repubblica

I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.

Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani. Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.

Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.

Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue. Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro – quelle tedesche – che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.

Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.

A ciascuno la sua

A ciascuno la sua

Davide Giacalone – Libero

La banca centrale europea deve fare la sua parte. Giusto. Ha fatto bene il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, a ricordarlo. S’è dimenticato due o tre cose, però. La prima è che, fin qui, la Bce è stata la sola istituzione europea ad avere fatto la propria parte. Se i tassi d’interesse sui debiti sovrani sono scesi e gli spread sono stati ricondotti alla fisiologia (con quello italiano costantemente sopra lo spagnolo, perché quella è una patologia non influenzabile da Francoforte), lo si deve all’azione della banca centrale. La seconda cosa che Padoan ha dimenticato è che la settimana scorsa il governo di cui lui fa parte, per bocca di chi lo presiede, Matteo Renzi, aveva intimato alla medesima banca di farsi i fatti propri. È bello avere un governo che corre, corre e corre. Sarebbe meglio se lo facesse due settimane di fila nella stessa direzione.

Perché Renzi aveva così sgarbatamente reagito, intimando a Mario Draghi di non impiccarsi delle riforme interne a ciascun Paese? Perché Draghi aveva ricordato quanto quelle riforme siano decisive, sicché chi non è in grado di farle, e di metterle a regime nei tempi opportuni, quindi subito, sarebbe stato costretto a perdere sovranità. Era stato pesante, non c’è dubbio, ma lo aveva fatto proprio nel senso ora auspicato da Padoan. Ed è per questo che qui non abbiamo avuto dubbi: ha ragione la Bce.

Per indurre i mercati a piantarla con lo speculare sui difetti strutturali della moneta unica, quindi a inchiodare paesi come l’Italia, costringendoli a pagare cifre altissime per i loro debiti pubblici, Draghi dovette usare sistemi non convenzionali. In quel caso furono le parole: siamo pronti a tutto per difendere l’euro. I mercati capirono, gli speculatori si ritirarono. Poco più di un anno fa, quindi, la Bce comprò tempo, spendendo la propria credibilità. Quel tempo sarebbe dovuto essere dedicato alle riforme interne. Guardiamo in casa nostra: teste e lische. Posto che la speculazione potrebbe ripartire in ogni momento, averla fermata non ha risolto tutti i problemi. In particolare non ha risolto quelli della crescita. Gli ultimi dati hanno confuso le idee a molti, complice uno stucchevole propagandismo governativo: i problemi non sono solo nostri, ma di tutti, tanto che neanche la Germani cresce. Bubbole: noi siamo in recessione, mentre la Germania cresce troppo poco. Non è la stessa cosa. Per affrontare il secondo problema lo sguardo si dirige ancora una volta verso la Bce: continuate ad agire in modo non convenzionale e fate crescere l’inflazione, tirandoci fuori dal gorgo della deflazione. Richiesta prevedibile e prevista.

Ma la Bce non può mettersi a spingere l’inflazione dando l’impressione che dopo avere comprato tempo per consentire le riforme ora s’appresti a introdurre moneta per pagarne (o affievolire il costo) la mancanza. L’inflazione deve servire alla crescita, non a far finta che il debito pubblico non cresce in valori reali (come, invece, fa). Per questo Draghi ha bisogno, e ripeto “bisogno”, che ciascuno dei beneficiari si mostri consapevole dello sforzo in atto. E se Padoan chiede, giustamente, alla Bce di fare la sua parte Draghi s’era limitato a dire: fate la vostra, o qualcuno lo farà al posto vostro.

Ora girate pagina dei giornali. Ci trovate un surreale dibattito sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, con il ministro del lavoro che guida la tesi: non lo si tocca, semmai lo si aggira, come ho fatto con il decreto sul contratto triennale a termine. Questa è la conferma che quel 18 non solo è un totem, come lo ha definito Renzi, ma anche un tabù. Che nella lezione di Freud era il legame fra le credenze dei selvaggi e la loro sopravvivenza odierna. Oppure leggete l’intervista al sottosegretario Angelo Rughetti: propone un fondo per abbattere il debito pubblico, ove far confluire beni mobiliari e immobiliari dello Stato. Lo si scrive da lustri, anche scendendo nel dettaglio. Avvertite Rughetti che è al governo, non a un convegno. Oppure leggete le tante interviste di politici e professori: gli 80 euro non sono stati la bischerata democristianeggiante che sembrano, daranno effetti nel tempo. Ecco, è esattamente quel che non abbiamo: tempo e soldi da buttare.

Se oggi ci si rivolge ancora alla Bce è perché la politica non ha saputo assolvere il dovere che gli compete. Non ha saputo dare indicazioni precise sulle riforme, correndo a realizzarle. Non ha saputo impostare i rapporti europei richiamando tutti al rispetto dei trattati, quindi anche i tedeschi sul disavanzo commerciale, preferendo chiedere (come continuano a fare) elasticità per sé. Quell’elasticità è la speranza di non dovere riconoscere d’essersi sbagliati. Ergo: Padoan ha ragione, ma la smetta di fare il politicante, che non è il suo mestiere, e sappia impuntarsi con palazzo Chigi. L’estate è finita, senza essere arrivata.

La ricetta giusta per l’economia non è l’austerità

La ricetta giusta per l’economia non è l’austerità

Gaetano Pedullà – La Notizia

Prima Draghi, poi Napolitano. E in mezzo il Papa, perché una benedizione non fa male quando c’è da affrontare i nodi della nostra economia. Questi gli incontri che Matteo Renzi ha messo in fila nelle ultime ore, con una missione ai limiti dell’impossibile: scongiurare una nuova manovra economica subito dopo l’estate e preparare un argine di protezione dai mercati. Tornata in recessione tecnica, se l’Italia non riuscirà a rispettare il vincolo del 3% del deficit sul Pil è possibile che si scateni una nuova tempesta finanziaria, con ricadute sullo spread e la sostenibilità del nostro debito pubblico.

Impossibile conoscere i contenuti delle conversazioni, ma da Napolitano e soprattutto Draghi, Renzi avrà ricevuto la raccomandazione di tenere stretti i cordoni della borsa, tagliando la spesa e proseguendo una politica fiscale che ha già strangolato metà del Paese e tra un po’ finirà per ammazzare il resto. Si continua con l’austerity, insomma, e pazienza se con questa strategia il nostro debito invece di scendere continua a salire, abbiamo il record storico di disoccupazione giovanile e i più bassi consumi di sempre.

Può essere questa la strada per farci ripartire? No. E nella fiducia che gli italiani hanno dato così copiosamente al premier c’è anche l’aspettativa che si interrompa questo circolo vizioso tra poteri forti, imposizioni di Francoforte e Bruxelles, vecchie ricette che piacciono tanto ad economisti e professori ma che alla prova dei fatti stanno facendo morire quanto di buono c’è ancora nel nostro tessuto produttivo.

Fai presto

Fai presto

Giorgio Mulè – Panorama

Inutile girarci intorno: il 2014 ce lo siamo giocati. I mesi che ci separano dalla fine dell’anno saranno contrassegnati da dati nefasti su tutti i fronti principali dell’economia: prodotto interno lordo, occupazione, consumi. Non si tratta di fare i gufi e anzi, piccola parentesi, sarebbe ora che Matteo Renzi la smettesse di fare lo spiritoso guardando in faccia la realtà perché c’è un Paese in ginocchio.

L’ultima mazzata che certifica lo stato comatoso dell’Italia è il dato sull’andamento dei prezzi: a luglio sono calati ancora innescando quella micidiale spirale che si chiama deflazione. Per capirci, la deflazione è il contrario dell’inflazione: la gente non compra, i prezzi calano e a ruota si mettono in moto una serie di conseguenze che portano meno profitti alle imprese, meno produzione, meno assunzioni, maggiori difficoltà per sostenere gli interessi sul debito. Una catastrofe. Basti ricordare che, a causa della deflazione, il Giappone ha conosciuto una crisi che gli economisti hanno efficacemente battezzato del «Decennio perduto» anche se gli effetti sono stati addirittura più lunghi.

La discesa dei prezzi a luglio si spera che convinca definitivamente il premier che il bonus da 80 euro è servito solo a fargli vincere le elezioni europee: gli effetti concreti sono sottozero, al punto che il fatturato dei saldi del 2014 ha conosciuto un decremento del 4 per cento rispetto al già pessimo 2013. La gente non spende, se ne frega altamente della riforma del Senato anche perché è terrorizzata dalla mazzata autunnale in arrivo sul fronte dei tributi locali con in testa la Tasi. A questo punto, piuttosto che interpretare Braccio di ferro e fare a cazzotti con la Bce di Mario Draghi (e comunque gli finisce male, dovrebbe sapere il premier), il governo che non ha legittimazione popolare faccia un bagno di umiltà. Concordi con le forze politiche responsabili e le categorie produttive del Paese un piano di emergenza: tagli sul serio la spesa pubblica di 50 miliardi in 3 anni (si può fare, si deve fare) e assuma immediatamente l’iniziativa di rilanciare gli investimenti pubblici e privati. Questo non significa battezzare un nuovo provvedimento roboante, tipo lo Sblocca Italia che in realtà sblocca a stento una vite in quanto si limita a spostare soldi da un capitolo all’altro o, peggio, a sancire il via libera a opere che però daranno lavoro tra due o tre anni come l’autostrada Orte-Mestre.

La strada è quella di dare incentivi a imprenditori piccoli, medi e grandi affinché siano realmente spinti a investire i loro soldi. Significa inventarsi misure come una rottamazione dei macchinari industriali, per esempio, che spesso sono obsoleti, dando in cambio benefici fiscali da riconoscere a chi con l’innovazione risparmia energia o digitalizza l’impresa. Non ci vuole molta fantasia, ma senso pratico per rimettere in moto l’Italia. Al bando l’arroganza, presidente Renzi. Non perda tempo con l’articolo 18 (non è aria) e si concentri sul 2015. Inizi subito e vari le misure entro agosto.

I veri fantasmi di Bruxelles

I veri fantasmi di Bruxelles

Andrea Bonanni – La Repubblica

«Tutto bene», assicura Matteo Renzi dopo l’incontro segreto con Mario Draghi in villeggiatura in Umbria. Tuttavia se il premier sente il bisogno di prendere un elicottero per andare a disturbare le privatissime vacanze del presidente della Bce, è legittimo immaginare che abbia avuto urgenti questioni da risolvere. Specie dopo che Draghi ha spiegato come la recessione italiana sia dovuta alla insufficienza delle riforme promesse dal governo. E dopo che Renzi, in una intervista al Financial Times, ha replicato con un secco «non ci faremo commissariare». Ma quanto è reale il rischio di un cornmissariamento europeo dell’Italia? E quanto peserà, nei mesi a venire, la richiesta di Draghi che i governi nazionali cedano sovranità anche sulle riforme strutturali, dopo aver ceduto a Bruxelles la sovranità sui loro conti pubblici? Perché di questo è lecito immaginare che abbiano discusso il capo del governo italiano e il presidente della Bce nelle due ore e mezza del loro incontro riservato.

Alla prima domanda esistono due risposte: una formale e una sostanziale. La risposta formale è che, oggi, l’unico strumento di “commissariamento” previsto dalle norme europee è quello della troika, composta da rappresentanti della Commissione, della Bce e del Fondo monetario inernazionale. E la troika entra in azione solo qualora un Paese faccia ricorso ai prestiti europei dell’Esm, il Fondo salva-Stati che ha finora dato soldi a Irlanda, Grecia, Portogallo e Cipro. La Spagna ha ricevuto un prestito dall’Esm, ma solo per salvare alcune banche private, e dunque non è stata sottoposta al controllo della troika.

L’intervento della troika non è stato uguale in tutti i Paesi. In Irlanda e a Cipro, per esempio, che avevano un enorme buco finanziario aperto dalla crisi delle banche ma un’economia sostanzialmente sana, il direttorio europeo ha agito con mano relativamente leggera. In Grecia, invece, dove il dissesto era provocato oltre che dalla falsificazione dei conti pubblici anche da una cronica mancanza di competitività, la troika ha agito con durezza esigendo tagli sanguinosi alla spesa pubblica e riforme sociali molto dolorose. In entrambi i casi la cura ha funzionato. Ma il paziente greco ha rischiato seriamente di morire perla medicina somministratagli pagando un prezzo altissimo in termini sociali. E proprio questo potrebbe essere il caso dell’Italia, il cui problema principale, oltre all’enorme debito pubblico, è la scarsa competitività di un sistema-Paese oppresso da una burocrazia tanto invadente quanto inetta.

Ma l’Italia, al momento, non sembra correre il rischio di vedersi messa sotto il controllo della troika. Per due motivi. Il primo è che la congiuntura favorevole dei mercati sta mantenendo i tassi di interesse molto bassi e dunque il Paese per ora è in grado di sostenere l’enorme debito pubblico senza dover ricorrere ai prestiti europei. II secondo è che un’ipotetica bancarotta italiana sarebbe talmente disastrosa che neppure l’intervento dell’Esm potrebbe scongiurarla E senza intervento del Fondo salva Stati non ci sarebbe intervento della troika, che è sostanzialmente un comitato di creditori.

Tuttavia proprio per questi motivi l’Italia, Paese “too big to fail”, si trova ancora una volta nella difficile condizione di osservato speciale delle autorità monetarie europee e internazionali. Se non riprende la strada della crescita, Roma non potrà continuare per molto a rimborsare un debito che diventa sempre più pesante con il diminuire del reddito prodotto. E la crescita, è convinzione comune, può arrivare solo con una serie di radicali riforme strutturali che taglino la spesa inutile, avviino le privatizzazioni tante volte annunciate, riformino il mercato del lavoro e restituiscano al Paese una amministrazione pubblica efficiente, dalle Regioni al fisco, dalla giustizia alla scuola, alla sanità. È essenziale, per evitare un collasso dell’Italia e un tracollo dell’euro, che queste riforme, tante volte promesse e mai attuate, vengano finalmente rese operative.

La richiesta di Draghi di una «cessione di sovranità» su questa materia costituisce dunque anche la risposta sostanziale alla domanda sul rischio di commissariamento dell’Italia. L’Italia deve dare garanzie ai partner europei che le riforme tante volte promesse verranno finalmente attuate. E queste garanzie devono essere concrete e verificabili perché, anche in Europa, la politica degli annunci non basta più.

Come ottenere questo risultato senza ricorrere alla troika? La risposta potrebbe essere nei cosiddetti “accordi contrattuali”, che la Commissione e il Consiglio stanno studiando da tempo. In pratica, un governo firma un accordo specifico con Bruxelles in cui si impegna a realizzare riforme precise, dettagliate e scadenziate nel tempo (dall’approvazione delle norme alla loro attuazioneconcreta). E in cambio riceve dall’Europa l’autorizzazione a rinviare, per un periodo determinato, gli aggiustamenti di bilancio a cui sarebbe tenuto in base alle norme comuni. Nel caso dell’Italia, per esempio, fermo restando il rispetto del deficit al 3%, il governo potrebbe evitare la drastica riduzione del debito a cui sarebbe tenuto, senza per questo incorrere in una procedura di infrazione cherisulterebbealtrimenti inevitabile.

Sarebbe nell’ interesse dell’ Italia che questi “accordi contrattuali” prendessero forma al più presto proprio per evitare forme di commissariamento più invasive. E comunque, anche se gli accordi non dovessero essere concretizzati in forma giuridica, sarà questa l’unica strada che il governo potrà percorrere presentando a Bruxelles uno scadenziario di riforme concrete in cambio della tanto auspicata “flessibilità” nel giudizio sui nostri malandati conti pubblici.

Conti d’evasione

Conti d’evasione

Davide Giacalone – Libero

Sono anni che contestiamo l’irragionevolezza dei dati sull’evasione fiscale, diffusi dall’Agenzia delle entrate. Da anni ripetiamo che non ha senso aizzare l’opinione pubblica contro un’evasione non recuperabile, contestando 100 e portando a casa 10. Ora che la nuova direttrice dell’Agenzia, Rossella Orlandi, ci conforta con la sua convergente opinione, però, non vorremmo s’eccedesse. Non possiamo semplicemente scordarci il passato, lasciando che chi ha evaso il fisco la faccia franca e non sborsi un tallero. Vediamo, allora, in quale contesto la parolaccia potrebbe non essere una bestemmia. Mi riferisco al condono.

Proviamo a dare una qualche dimensione quantitativa. L’anno scorso l’Agenzia rese noto, e i mezzi di comunicazione acriticamente strillarono, che dal 2000 al 2012 si erano accumulati 807,7 miliardi che sarebbero dovuti andare al fisco e che, invece, mancavano all’appello. Un’evasione pazzesca. Se la si recuperasse il debito pubblico sarebbe ricondotto al di sotto di ogni soglia del pericolo. Facemmo i conti, a spanne, basandoci sui dati della stessa Agenzia: da quella montagna si dovevano togliere 193,1 miliardi, perché i contribuenti interessati avevano già dimostrato di non doverli; 69,1 erano stati pagati; 20,8 erano ancora in contestazione. Già si scendeva da 807,7 a 524,7. Da quelli si dovevano togliere altri 107 miliardi, perché dovuti da soggetti falliti, quindi a decidere sarebbero dovuti essere i giudici fallimentari, escludendosi le normali procedure di recupero. 19 miliardi erano già stati rateizzati, quindi in corso di riscossione. Da 807,7 si passava a 398,7. Che non è la stessa cosa. Era un conto della serva, ma utile a capire. A questo si aggiunga che una fetta assai rilevante di quel gettito mancante era ed è composto da sanzioni: il contribuente che non aveva pagato (o si supponeva non lo avesse fatto secondo il dovuto) veniva gravato di ulteriori oneri. Il che, forse, risponde a una logica di presunta equità, ma non è molto logico sperare che chi non ha dato 100 dia 200. Dato tutto ciò, che si fa, ora, si molla la presa e ci si dedica agli evasori più freschi e perseguibili? La si può considerare una scelta pragmatica, ma non giusta.

Il Parlamento ha già approvato la delega fiscale. Tocca al governo provvedere al riordino della materia. Posto che l’obiettivo principale deve essere quello di far scendere la pressione fiscale, perché di tasse ne paghiamo troppe e il terrore (fondato) della loro crescita è la principale causa della mancata ripresa dei consumi, e posto che il secondo obiettivo è quello di avere un fisco che non agisca da despota svincolato dalle leggi, talché prima prende e poi ascolta la contestazione, degno compare di uno Stato che pretende d’incassare ma continua a non pagare, posto tutto ciò, una volta provveduto ai decreti delegati e riformato il fisco, ci può anche stare che si chiuda il passato con un condono. Lo so: fa schifo. Ripugna anche a me che lo scrivo. Ma agli evasori veri è meglio togliere qualche cosa, piuttosto che continuare a far bau bau. Anche perché quel cane è feroce con chi evade per necessità, ma sdentato contro chi lo fa con voluttà.

Tanto più che sono già due i ministri in carica che, interrogati sulla possibile manovra autunnale, rispondono: Pier Carlo Padoan la esclude e noi ci fidiamo di lui. Prima Marianna Madia e poi Maurizio Martina. Lasciamo perdere che ai due deve essere sfuggito che il Consiglio dei ministri è un organo collegiale, e prima di giurarci sopra la Costituzione potrebbe anche essere letta, ma le loro parole significano una cosa precisa: il governo non ha collegialmente discusso dei conti, chiarendo a tutti i ministri in quali condizioni reali si trovano, sicché loro, in mancanza di numeri, si affidano alla fede. Con un pizzico di viltà: perché Padoan ha ripetutamente segnalato che ci sono dei problemi, quindi la garanzia che non ci saranno manovre è da intestarsi al capo del governo, Matteo Renzi.

Non è né piacevole né produttivo mettersi a fare i rompiscatole. Tanto più che il conto lo pagheremo tutti. Ma puntare sulla furbizia e l’arte del maneggio non è saggio. Il Paese ha bisogno di un’operazione verità. Abbiamo la forza di rimediare a conti squilibrati, ma ce la giocheremo e la neutralizzeremo se continuiamo a prenderci in giro da soli, strizzando l’occhio a qualche fetta di elettorato. Tanto più che una parte degli italiani adora farsi prendere in giro, campando alle spalle dell’altra. La forza ce la giochiamo, se lanciamo una chiamata autarchica contro le istituzioni europee, chiedendo a Mario Draghi di farsi gli affari suoi, come se la riduzione dello spread e il minor costo del debito lo dovessimo a qualche politica di risanamento e riduzione e non all’intervento della Bce.

Operazione verità, quindi. Sui conti e sul fisco. La direttrice dell’Agenzia ha dimostrato che vedevamo bene nel contestare quelle declamazioni propagandistiche (e ha maliziosamente aggiunto che un funzionario non usa la propria posizione per pavoneggiarsi, chissà che al predecessore siano fischiate le orecchie). Ma servono fatti, quantificabili e incolonnabili.

Il vero incubo adesso è il debito

Il vero incubo adesso è il debito

Massimo Riva – La Repubblica

A preoccupare non è tanto che Moody’s tagli le sue stime sul Pil di quest’anno: ormai lo sanno anche a Palazzo Chigi che il previsto più 0,8 per cento è diventato un obiettivo irraggiungibile. Quel che più dovrebbe allarmare è l’effetto che i giudizi negativi sulla lentezza delle riforme possono avere sui mercati finanziari. Le agenzie di rating – ormai questi anni di crisi ce l’hanno insegnato – non sono né arbitri distaccati da interessi concreti né istituti di beneficenza. Il loro ruolo è quello di orientare gli operatori mercantili ed è un compito che ne alimenta il reddito e il successo soltanto nella misura in cui le annunciate profezie si avverino.

Occorre, dunque, maneggiare con cura questa sortita di Moody’s perché essa potrebbe facilmente trasformarsi in un nuovo segnale di attacco sul fronte più fragile delle tante nostre oggettive difficoltà. In particolare, quello del finanziamento del debito pubblico che in questi mesi è riuscito a reggere con il vento in poppa di una costante e significativa discesa dei tassi d’interesse. È chiaro a tutti, infatti, che un brusco rincaro del servizio del debito non solo priverebbe il governo di risorse utili a misure di stimolo all’economia ma metterebbe a rischio anche quel rispetto del fatidico 3 per cento di deficit che è condizione importante per poter fare la voce grossa in Europa.

Il nodo cruciale attorno al quale ruotano i giudizi negativi dell’agenzia americana riguarda soprattutto la lentezza con cui l’Italia procede sul terreno delle riforme strutturali. Dunque, la stessa questione sollevata appena qualche giorno fa dal presidente della Bce, Mario Draghi. A quest’ultimo il presidente del Consiglio ha risposto in termini al tempo stesso consenzienti e infastiditi. Da un lato, ha detto di essere anche lui consapevole della necessità di attuare le attese riforme. Dall’altro lato, ha tenuto a ricordare che la scelta sulle riforme da fare spetta al governo italiano e non alla Bce o alla Commissione di Bruxelles, tanto meno alla troika fra i due e il Fondo monetario.

Una rivendicazione di sovranità formalmente legittima e per certi versi oggi anche ovvia sul piano istituzionale. Ma che per non avere un senso di battuta occasionale ed estemporanea avrà bisogno di essere seguita da comportamenti e azioni all’altezza dei problemi del momento su due tavoli principali, interno ed esterno.

In primo luogo, evidentemente, si tratterà di realizzare le attese riforme in tempi che evitino al Paese il rischio di quel discredito sui mercati che potrebbe essere alimentato da iniziative come quelle di Moody’s. In secondo luogo, si tratterà di muoversi con più cautela sul piano europeo proprio per quanto riguarda i rapporti di potere all’interno dell’Unione, laddove sempre Moody’s (non a caso) preconizza forti tensioni fra Italia e Germania.

Nel reclamare cessioni di sovranità dai governi nazionali alle istituzioni comunitarie, Mario Draghi ha posto il dito sulla piaga più dolente di un impianto europeo dove ogni spinta in senso federale è regolarmente bloccata dall’esercizio della legge del più forte. Come dimostra l’impotenza dei paesi favorevoli a una politica economica espansiva a far cadere il muro dell’austerità contabile a qualunque costo costruito dalla Germania. Perciò Matteo Renzi, tanto più nel corso del semestre italiano di presidenza, dovrà fare non poca attenzione alle controindicazioni implicite nella sua rivendicazione di sovranità. Quello che può oggi sembrare un punto di forza a Roma facilmente può diventare un fattore di debolezza a Bruxelles perché fornirebbe alibi potenti ai governi che intendono l’Europa come poco più di un’unione doganale.

Le inattese avvisaglie di stagnazione che si profilano all’orizzonte della grande Germania stanno facendo capire anche ai tedeschi che la crescita in un Paese solo è oggi una pura illusione. Berlino ha bisogno dell’Europa non meno di quanto l’Europa di Berlino. Figuriamoci, quindi, quanto più questa equazione possa essere valida per l’Italia. A maggior ragione in una fase nella quale lo scenario internazionale – dall’Ucraina alla Libia passando per il Medio Oriente – solleva nubi minacciose anche sui rifornimenti energetici.

L’inverno non è così lontano e tutto l’Italia può permettersi fuorché trovarsi nella tenaglia di rincari congiunti dei tassi d’interesse e di gas e petrolio. Coraggio, perciò, presidente Renzi mandi in porto le riforme “sovrane” che vuole ma lo faccia presto. Anche perché solo su questa strada troverà i titoli politici per promuovere una svolta nella politica economica europea. Ci sono treni, in politica e nella vita, che passano una sola volta.