Matteo Renzi

Stupirci diventa sempre più difficile

Stupirci diventa sempre più difficile

Ester Faia* – Panorama

Renzi scopre che non si può fare una riforma al mese in un Paese con un conflitto sociale acuito da anni di esasperazione e stagnazione. Le prospettive di crescita non migliorano. Non ci sono solo i tempi dilatati delle riforme, ma una mancanza di proposte creative. Pensare che 80 euro al mese facciano ripartire la crescita è ingenuo e semplicistico: la propensione al consumo è alta per redditi bassi, ma diventa nulla se non si dà certezza che la misura sia permanente. Vi è poi da considerare che in periodi di recessione/stagnazione il risparmio precauzionale sale e che gli 80 euro andranno a compensare aumenti di tasse come la Tasi. Renzi ha continuato a finanziare i deficit non con tagli di spesa (per ora ci sono proposte di tagli) ma con aumenti di tasse sul risparmio. In un Paese gravato da tasse su imprese, consumo e reddito gli ultimi governi hanno fatto cassa con i risparmiatori (di ricchezza immobiliare e mobiliare). Le ragioni addotte sono tante: è difficile evadere tasse su beni visibili come le case; si tratta di tasse redistributive e così via. Purtroppo sono argomenti fallaci: le molte case abusive non sono tassabili; le tasse sul risparmio sono spesso regressive; la progressività si ottiene aumentando gli scaglioni delle tasse sul reddito. Il lato più oscuro di questi aumenti è che, scoraggiando il risparmio, rischiano di deprimere la crescita. In un Paese dove le protezioni sociali sono inesistenti, risparmio e ricchezza sono spesso l’unico modo per far fronte alle difficoltà. In Grecia per pagare gli aumenti di tasse sugli immobili i disoccupati hanno preso a prestito: il risultato è stato inesigibilità delle tasse e nuove insolvenze. Diventa sempre meno probabile che Renzi ci possa stupire.

 

* professore di Economia monetaria e fiscale alla Goethe University, Francoforte

Le buone idee e la zavorra delle (non) riforme

Le buone idee e la zavorra delle (non) riforme

Francesco Daveri – Corriere della Sera

Alla presentazione del programma della presidenza italiana dell’Unione al Parlamento europeo, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha elencato una lista di cose da fare perché l’Europa torni a crescere. Ce n’è un gran bisogno, nel Vecchio Continente: dopo due anni di recessione, gli investimenti nell’Eurozona sono scesi al 17,7% del Pil, il loro minimo di sempre. L’industria e il mercato “battono in testa” anche in Germania, non solo in Italia e in Francia.

Per crescere, dicono a Bruxelles, servono le riforme strutturali: bisogna ridurre i monopoli sui mercati e le rendite di posizione nel settore pubblico. Ma quei cambiamenti si fanno oggi per ottenere risultati solo domani. Così, secondo Padoan, ai Paesi che si impegnano da subito dovrebbe essere garantita una maggiore flessibilità nel rispetto dei vincoli di bilancio. Senza stravolgere le regole attuali. Fuori dal gergo della politica, le parole del ministro vogliono dire che l’Italia non proporrà iniziative contro la norma sul pareggio di bilancio strutturale cara all’Europa che rispetta i vincoli. Nello stesso tempo, però, l’idea di flessibilità all’italiana si traduce nella richiesta di lasciare da parte i commissariamenti della Troika (Bce, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) nei confronti dei Paesi che non riescono a rimborsare il loro debito pubblico. Alla Troika in effetti c’è un’alternativa: più coordinamento e più monitoraggio reciproco tra i Paesi europei prima, per evitare tardivi, umilianti e a volte inefficaci aggiustamenti imposti dall’alto poi. Sarebbe un netto cambiamento di rotta rispetto agli anni scorsi.

Sono tutte buone idee. Da quando è iniziato il semestre a guida italiana, da Roma fioccano proposte su come migliorare il funzionamento dell’Unione. Eppure oggi le innovazioni avanzate dall’Italia per stimolare l’Europa a fare di più si scontrano con un macigno: il carniere quasi vuoto delle riforme del governo Renzi nei suoi primi 150 giorni di attività. Senza cambiamenti strutturali, la richiesta di flessibilità di Roma viene percepita a Bruxelles e a Berlino come l’intenzione di aumentare ancora un debito pubblico che è già oltre il 135% del Pil. E l’appello ad abbandonare i commissariamenti dei Paesi a rischio di default può essere visto come il sinistro annuncio di chi in definitiva confida nella Bce per essere tirato fuori dai suoi guai. Senza una chiara accelerazione estiva delle tante riforme annunciate ma non approvate né attuate, il rischio concreto è che anche le migliori proposte della presidenza italiana finiscano nel nulla. Perché alla fine, in Europa come in Italia, tutti sanno che il miglior test per capire se un budino è buono sta sempre nel mangiarlo.

Quei prelievi da tagliare

Quei prelievi da tagliare

Tito Boeri – La Repubblica

L’ultimo bollettino economico di Banca d’Italia ha messo nero su bianco quanto ormai risulta evidente a tutti: il 2014, invece della tanto annunciata ripresa, ci porterà solo crescita zero, stagnazione. Il bonus di 80 euro non sembra aver avuto effetti apprezzabili sui consumi. Ed è illusorio aspettarsi nell’immediato stimoli a livello europeo. Del tutto fuori luogo l’entusiasmo con cui molti politici nostrani hanno celebrato il discorso di investitura di Juncker al Parlamento Europeo. Vero che il Presidente in pectore della Commissione ha detto che crescita e lavoro sono le priorità. Ma quando mai un politico europeo è stato, a parole, contrario alla crescita? In un momento in cui tutto il continente rallenta e ha un tasso di disoccupazione superiore alle due cifre chi potrebbe mai pensare di evitare di esser preso a pomodori esprimendosi contro la crescita? Il vero volto dell’Europa, oggi come oggi, è quello di Katainen, il nuovo commissario agli Affari economici, la cui prima dichiarazione è stata «Il patto di stabilità non si tocca».

Ancora più lontana dalla realtà la pretesa di alcuni di abolire l’austerità con un referendum che abroghi il nuovo articolo 81 della Costituzione, quello che vincola il nostro paese, con tanti se e ma, a tenere il bilancio in pareggio. Com’è possibile attribuire a un articolo che non è stato ancora applicato le colpe delle politiche di austerità degli ultimi anni? Quando mai la Costituzione italiana ha imposto l’austerità? Ricordiamoci che negli anni di esplosione del debito pubblico in Italia, questa imponeva che ogni «legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Perché allora sprecare soldi dei contribuenti per organizzare un referendum e abrogare con voto popolare qualcosa che viene sistematicamente disatteso?

Tutte le energie disponibili devono invece essere concentrate attorno all’obiettivo di rendere strutturale il bonus di 80 euro. Deve risultare credibile come un taglio permanente delle tasse finanziato da tagli alla spesa pubblica e non da nuove tasse che graverebbero sulle famiglie. Per farlo, senza incorrere nella procedura di disavanzo eccessivo, il governo deve sulla carta trovare 23 miliardi nel 2015. L’audizione alla Camera del ministro Padoan della scorsa settimana fa pensare che l’esecutivo sia ancora in alto mare. E l’impressione è che nella compagine di governo si stia rafforzando il partito delle nuove tasse su quello dei tagli alla spesa. Il governo Renzi, in verità, ha già aumentato delle tasse, dalle banche alle rendite finanziarie. Sotto la reggenza del presidente del Consiglio gli italiani hanno cominciato anche a pagare la Iuc, facendo conoscenza del trittico Imu, Tari e Tasi. I decreti attuativi della delega fiscale prevedono l’eliminazione di molte detrazioni. Al di là del merito di questa scelta, si tratta pur sempre di tasse più alte.

La sbandierata riforma del terzo settore vuole ampliare i trasferimenti alle imprese sociali definendo in modo più ampio che in passato i perimetri del terzo settore (allargato a imprese con partecipazione rilevante di aziende con fini di lucro). Si tratta di nuove spese che dovranno essere coperte da nuove tasse. A quanto pare questi soldi andranno a finanziare il servizio civile per i giovani quando, fra 18 mesi, si esauriranno le risorse per la Garanzia Giovani. Ma quando mai un servizio civile ha migliorato le prospettive di lavoro dei giovani? Perché allora spendere soldi pubblici? Solo per far finta di aver offerto qualcosa ai giovani? E non si sentiranno presi in giro, gli under 25, se viene loro chiesto di lavorare gratis?

La riforma del pubblico impiego, ammesso che ne esista una, non porta risparmi, semmai aggravi di spesa date le promesse di assunzioni e scivoli verso la pensione del ministro Madia. Si mormora che il commissario Cottarelli sia stato commissariato. Quel che è certo è che gli viene chiesto di tagliare le spese con soli atti amministrativi, senza passaggi parlamentari. Il problema è che c’è un limite a quanto si riesce a tagliare accentrando le autorizzazioni di spesa o intervenendo sulle società partecipate, senza toccare il numero dei dipendenti. Tra l’altro, con le nuove regole Sec molte società partecipate (e relativi debiti) finiranno nel perimetro pubblico. Questo avverrà presumibilmente dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, perché l’Istat ha annunciato che metterà in pratica le nuove definizioni solo dal 3 ottobre. Avremo così una nota di aggiornamento che viene a sua volta aggiornata nel giro di pochi giorni! Siccome siamo gli unici a essere così in ritardo nell’adeguamento contabile, il rischio è quello di alimentare sospetti sui livelli del nostro debito pubblico, la spesa e la pressione fiscale.

Renzi ha già incassato il suo bonus con gli 80 euro. Era dai tempi di De Gasperi che un governo non godeva di un consenso popolare così vasto. Deve essere utilizzato per costruire supporto a un’operazione sistematica e coraggiosa di riduzione della spesa pubblica, che apra la strada a nuovi tagli di imposte. Si possono fin da subito tagliare i cofinanziamenti statali ai fondi strutturali, senza contravvenire alle regole europee. Al contrario, il cofinanziamento è responsabilizzante solo se fatto da chi utilizza i fondi europei, dunque le Regioni. E poi ci sono leggi con tagli normativi alle spese da varare oggi ed attuare gradualmente. Perché un’operazione di razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe permetterci di invocare la cosiddetta “clausola delle riforme” guadagnando tempo prezioso per l’aggiustamento.

Dopotutto, quale migliore riforma strutturale della ristrutturazione della spesa pubblica? Se mostrasse di saper colpire le rendite annidate ai confini tra pubblico e privato, questa operazione risulterebbe più popolare di quanto si pensi. È questo il vero banco di prova dell’esecutivo. Oggi i partner europei chiedono dimostrazioni delle capacità del ministro Mogherini, che abbiamo candidato alla guida, sulla carta, della politica estera europea. Il ministro ha una grande occasione per mostrarsi all’altezza di questo compito: tagli davvero i privilegi della Farnesina, anziché far solo finta di farlo. Dopotutto investire nella politica estera comune significa saper ridurre le spese diplomatiche dei singoli paesi.

Debiti PA, 500 milioni agli investimenti

Debiti PA, 500 milioni agli investimenti

Carmine Fotina Il Sole 24 Ore

Il governo prova ad accelerare sui pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione, attesi dalla scadenza del 21 settembre, giorno di San Matteo, indicato dal premier Matteo Renzi come termine per smaltire tutto l’arretrato. In quest’ottica ieri è stato firmato un protocollo di impegni tra ministero dell’Economia, Conferenza delle Regioni, Anci (Comuni), Upi (Province), Confindustria, Confagricoltura, Ance (costruttori edili), Rete imprese Italia, Consiglio nazionale dei commercialisti, Unioncamere, Abi (banche) e Cassa depositi e prestiti. In pratica tutte le parti in causa, ognuna delle quali dovrà favorire una velocizzazione dei processi, anche se ieri – va sottolineato – il Mef ha indicato come obiettivo lo smaltimento «entro il 2014» senza riferimenti al 21 settembre. 

Punto centrale del protocollo è anche l’impegno ad aprire nuovi spazi per pagare i debiti di parte capitale, finora penalizzati rispetto alla spesa corrente perché, come noto, oltre che sul debito pubblico incidono sul deficit. Non ci sono cifre nel protocollo, ma l’obiettivo sarebbe aggiungere ai circa 7,5 miliardi finora resi disponibili una tranche ulteriore – più vicina a 500 milioni che a 1 miliardo – attraverso nuove misure di allentamento del patto di stabilità interno. Il protocollo – ha commentato Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria – «è un segnale concreto che qualcosa si sta muovendo. Confindustria continuerà a seguire il tema con la massima attenzione e non sarà soddisfatta finché alle imprese non sarà pagato anche l’ultimo centesimo». «Una svolta politica rilevante – ha sottolineato l’Ance – per pagamenti che finora sono stati penalizzati». Un passo avanti anche secondo l’Anci, che invita però a risolvere il nodo strutturale «delle regole del Patto di stabilità interno». «Un’occasione, forse l’ultima, da non perdere» per Rete Imprese.
Sommando i vari provvedimenti emanati dagli ultimi governi (per ultimo il decreto Irpef) le risorse complessivamente stanziate ammontano, per il 2013, a 27,2 miliardi e, per il 2014, a 29,6 miliardi. In totale 56,8 miliardi. Finora, stando all’aggiornamento diffuso ieri, le risorse girate agli enti debitori ammontano a 30,1 miliardi, dei quali 26,1 miliardi sono già stati erogati ai creditori.
Per sbloccare le spese in conto capitale il Mef studia un mix di interventi. Ci sarà un nuovo allentamento del patto di stabilità interno e nel contempo si «verificherà» l’estensione anche a questo tipo di debiti del meccanismo di cessione crediti con garanzia statale. Si punta poi a riproporre anche per il 2015 la norma relativa al patto di stabilità verticale incentivato e a posticipare i termini previsti per il patto “orizzontale” tra le regioni.
Il documento comune nasce dalla consapevolezza di alcuni punti deboli. Diverse Pa locali non hanno richiesto le anticipazioni di liquidità, nonostante queste siano disponibili. Regioni, Province e Comuni si impegnano ora a «sollecitare gli enti rappresentati» su questo punto. Il percorso dei provvedimenti attuativi non sempre è stato celere e adesso il Mef si impegna «ad assicurare l’adozione di tutti gli atti previsti». Allo stesso tempo, l’Abi dovrà sensibilizzare i propri associati a mettere a disposizione delle imprese adeguate risorse per la cessione pro-soluto dei crediti, anche sfruttando il canale creato con il decreto Irpef (venerdì scorso è stata firmata la convenzione con il ministero dell’Economia). Dal canto suo, la Cdp assicura che sarà «adottata celermente» la convenzione quadro con l’Abi per consentire al sistema bancario di cedere alla stessa Cassa i crediti vantati nei confronti delle Pa e assistiti dalla garanzia dello Stato (e già ceduti dalle imprese alle banche).
Grande attenzione viene riposta anche sulla certificazione dei crediti, che le imprese devono presentare tassativamente entro il 23 agosto per far sì che scatti la garanzia dello Stato. «Il numero e il corrispondente ammontare delle istanze» presentate e di quelle rilasciate appare ancora basso, di qui l’impegno di tutte le associazioni di impresa coinvolte a «sollecitare i propri associati a presentare istanza di certificazione». Gli enti territoriali, a loro volta, dovranno assicurare rapidità nel rispondere alle istanze tramite la piattaforma elettronica del Tesoro e, «per quanto possibile, rafforzare la consistenza degli uffici anche nel periodo estivo». Il protocollo preannuncia la «tempestiva nomina» di commissari ad acta in caso di inerzia delle amministrazioni e prevede la creazione di “help desk” dedicati, sia a livello di Pa che di associazioni imprenditoriali, e un’attività di comunicazione per diffondere l’utilizzo della piattaforma elettronica.

Si impenna la spesa pubblica: in un anno 25 miliardi in più

Si impenna la spesa pubblica: in un anno 25 miliardi in più

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Monti, Letta e Renzi ha fatto flop. La spending review è stato un completo fallimento. È quanto certifica il centro studi di Unimpresa analizzando i dati della Banca d’Italia sul fabbisogno dello Stato nei primi cinque mesi del 2014. Se, infatti, ci si limita ai dati del Tesoro, si nota solamente il miglioramento dello sbilancio dei conti negli ultimi 12 mesi (il saldo era migliorato di 8 miliardi a maggio, valore ridottosi a un miliardo a giugno). Se, invece, si analizzano i dati di Bankitalia si nota un andamento alquanto preoccupante delle finanze pubbliche. Soprattutto perché Palazzo Koch analizza le voci “spesa corrente” senza tenere conto delle uscite degli enti territoriali (Comuni, Province, Regioni) né di quelle per gli interessi sul debito pubblico. La spesa dello Stato nel periodo gennaio-maggio 2014 si è pertanto attesta a 206,7 miliardi di euro, circa 25 miliardi in più (+13,6%) rispetto ai 181,9 miliardi dell’analogo periodo dell’anno scorso. A fronte di questo incremento delle uscite non ha fatto seguito un coerente incremento delle entrate, aumentate dello 0,1% a 157,8 miliardi.

Premesso che tra le rilevazioni di Bankitalia e quelle del Tesoro vi sono sempre delle discrepanze legate sia al ritardo fisiologico nel disporre di alcuni dati sia alle differenti metodologie utilizzate, non si può non restare sorpresi dall’andamento fuori controllo della spesa statale. Nel 2014, infatti, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione non sembra aver fatto particolari passi in avanti. Il monitoraggio di via XX Settembre si è fermato alla fine dello scorso marzo, quindi è difficile pensare che i 22 miliardi stanziati per il 2014 siano stati già erogati (maggiori prelievi dai conti di tesoreria sono stati effettuati a giugno e, quindi, non computati in questa analisi). Analogamente, il bonus da 80 euro il cui costo è di circa 900 milioni al mese è partito alla fine di maggio, quindi la sua incidenza è minima. Tenuto conto che gli sgravi fiscali previsti dalla legge di Stabilità si iscrivono come minori entrate, ne consegue che quei 25 miliardi in più sono per la maggior parte spesa corrente.

Tra il 2012 e il 2013, prosegue Unimpresa, era già stata registrata una analoga situazione. L’anno scorso le uscite complessive dalle casse dello Stato sono state pari a 548,6 miliardi di euro, ben 38,5 miliardi in più (+7,56%) rispetto ai 510,09 miliardi totali del 2012. Nel 2013 le entrate tributarie sono state pari a 464,8 miliardi, in salita di 11,8 miliardi (+2,64%) rispetto ai 452,9 miliardi dell’anno precedente. L’aumento delle tasse, come si vede, non ha prodotto gli effetti sperati perché, con un’economia in contrazione, l’aumento della pressione fiscale non produce maggior gettito. Al contrario, lo Stato ha continuato a spendere e spandere.

Lecito, perciò, domandarsi che fine abbia fatto la spending review. Premesso che il lavoro di Carlo Cottarelli, iniziato a ottobre, sta giungendo solo ora a maturazione (primo step: sfoltire la giungle delle municipalizzate che costa 26 miliardi), c’è da registrare l’inefficacia dei governi Monti e Letta e la scarsa attenzione da parte del loro successore Matteo Renzi. Il presidente di Unimpresa Dario Longobardi però si scaglia contro Mister spending: «Il suo mandato è un bluff perché non ha portato a nessun risultato, mentre la politica del rigore è insufficiente: occorre abbassare la pressione fiscale sulle Pmi».

L’attesa

L’attesa

Davide Giacalone – Libero

 Si vive con un senso di attesa. Ogni tanto si butta un occhio agli indici che segnalano gli umori del mercato, ma solo per capire se gli anestetici dispensati dalla Banca centrale europea funzionano ancora. Non è detto che debba succedere qualche cosa di drammatico, ma è drammatico che da noi non succeda niente. Che si parli del nulla. Che ancora siano sulla scena le dirette streaming, capaci non certo di portare trasparenza, ma di rendere trasparente il vuoto, il vaniloquio. Sulla scena non c’è più la risata scomposta e volgare di un Sarkozy alterato, incosciente e prossimo alla fine, ma non per questo s’è fatto diverso l’atteggiamento di molti che ci osservano, da fuori. Dicono: ci fidiamo delle riforme e dei conti italiani. Lo dice anche Wolfgang Schäuble, ministro tedesco dell’economia e falco vero, appositamente travestito da colomba. Ci fidiamo. E’ una trappola, perché sappiamo tutti che i conti non sono in linea con gli obiettivi e le riforme sono solo un suono, senza che nessuna andrà in porto prima della chiusura del bilancio 2014. Per non dire dei loro effetti.

È incredibile la velocità con cui Matteo Renzi ha vinto la sua partita politica, radendo al suolo il gruppo dirigente del Partito democratico, conquistando palazzo Chigi e portando a casa il solo successo elettorale di un governante europeo. È stato bravissimo. È non meno incredibile la velocità con cui sta sprecando le occasioni di far pesare e fruttare questi successi, la supponenza, anche mimica, con cui dimostra di pensare che la politica europea sia la proiezione continentale delle camarille pidiessine, l’infantile convinzione che se la palla ora è sua può anche portarsela via. Un gigantesco falò di opportunità, una pira il cui orrendo foco è destinato a riscaldare le gesta di chi ha osservato e amato la politica nell’era in cui la televisione induceva confusione fra fama e potere, fra l’essere famosi e l’essere qualcuno.

Incredibile anche la condotta della destra. Privi di un leader hanno scoperto di non avere mai avuto una politica. E lo dimostrano proprio sul terreno che dovrebbe essere il cortile della loro casa culturale: l’economia. Il nuovo commissario europeo all’economia è un quarantatreenne finlandese, popolare, già premier. Si chiama Jyrki Katainen e ha detto: «Talvolta mi pare difficile capire come mai la disciplina fiscale sia vista come una politica dura e contraria all’economia sociale di mercato: la mia esperienza indica l’esatto contrario». Bravo. È comprensibile che un leader della sinistra, quale è Renzi, punti alla redistribuzione della ricchezza. Anche se finirà con il ridistribuire la miseria. È incomprensibile, inammissibile, insensato che da destra non s’imposti una politica esplicitamente indirizzata al taglio profondo della spesa pubblica, all’abbattimento del debito, quindi a un abbassamento delle tasse. Sanno dire solo l’ultima cosa, in questo ritrovandosi al fianco della sinistra: sia nel dirlo che nel fare il contrario.

Hanno tutti paura. Biascicano un moralismo da strapazzo, con il quale alimentano il veleno anti-partitico e anti-istituzionale, salvo poi praticare riforme costituzionali che consegnano tutto il potere manco ai partiti, ma a chi li capeggia. Ma hanno paura di dire che la spesa da tagliare è oggi catalogabile anche in quella sociale, non solo in quella degli sprechi e delle ruberie. È il sociale a coprire sprechi e ruberie. Prendete la scuola: ci sono regioni che stanno inzeppando le famiglie di ferraglia informatica, destinata agli studi, ma senza fornire né sistemi operativi né contenuti. Soldi buttati. A cura della destra e della sinistra. Certo che la scuola va resa digitale, ma quella è la via che la rende più costosa, lasciandola analogica. Il digitale ha senso se taglia le spese e aumenta la potenza culturale, qui si fa il contrario. Stesso discorso per la sanità. Ha ragione Katainen: il rigore dei conti è la cosa più sociale che si possa immaginare, in un Paese che ha un debito spaventoso e solo un terzo dei cittadini che lavorano.

Ma si resta in attesa. Qualche cosa accadrà. Magari ci concedono la flessibilità. Così potremo fare qualche altro investimento sociale. Forse arrivando, dopo congrua spesa, a conquistare il glorioso successo dei certificati on line. In un mondo in cui, con il digitale, i certificati non dovrebbero neanche esistere.

 

Le buone idee di Calenda e le coalizioni di Renzi

Le buone idee di Calenda e le coalizioni di Renzi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Dire che i dibattiti su flessibilità e crescita sono rimasti finora su piano dell’indeterminatezza, come scrive Carlo Calenda sul Sole di martedì, è un eufemismo: sarebbe più esatto dire dell’ambiguità, ambiguità voluta, in modo da poter presentare l’esito di una discussione nel modo politicamente più conveniente. L’idea è di scrivere un Piano industriale per l’Italia, inteso come aumento della competitività dell’offerta e non come stimolo della domanda, agendo quindi sulle condizioni al contorno. Riforma del lavoro, struttura della legge fallimentare, eliminazione dell’Irap, «il tanto che si può ancora fare sul tema delle utility nazionali e locali» (ancora?), spending review e analisi delle procedure di ogni singolo dicastero. Per chi questi temi li ha tante volte evocati vederli autorevolmente sostenuti è motivo di soddisfazione ma anche di perplessità.

Perché ai grilli parlanti il Governo può anche non rispondere, ma quando a parlare è il viceministro dello Sviluppo economico in carica, non può non rispondere a chi gli chiede: scusa, a che punto siamo? E non si dica che la carne al fuoco è tanta, che le Camere sono ingolfate dalle riforme costituzionali e istituzionali, che ci sono centinaia di decreti attuativi da approvare (come se questa fosse una scusa): in politica, è sempre politica la causa per cui non si fa una cosa. Il ddl di semplificazione delle leggi sul lavoro è stato presentato da Pietro Ichino: sicuro che la maggioranza sarebbe compatta nel votarlo? Quanto all’articolo 18, basta nominarlo che partono i fumogeni. E non mi risulta che il premier Renzi li abbia inclusi nei provvedimenti su cui si gioca la testa.

Parliamo di imposte. Nella lunga intervista pubblicata domenica scorsa dal Corriere della Sera, Matteo Renzi dice che vorrebbe allargare la platea di chi riceve gli 80 euro al mese anche a «famiglie, partite Iva, pensionati»; Calenda ricorda l’abolizione dell’Irap; e l’Unione europea si sta muovendo per la riduzione del cuneo fiscale. Come finanziare tutto questo senza imporre nuove tasse? Il premier, a proposito di debito pubblico, ha lasciato cadere un riferimento alle ricchezze dei cittadini, (oltre che un pesantissimo affondo sulle banche) che non è certo servito a migliorare le «condizioni al contorno», come le chiama Calenda. Le imposte – commenta Angelo Panebianco – sono il tabù della sinistra. Tagliare gli stipendi dei politici, come si vanta di aver fatto Matteo Renzi porta qualche voto ma pochi soldi. E su quanto si possa ottenere con i tagli veri, sia da spending review sia da analisi del funzionamento dei dicasteri, si sta sempre nel vago. Tanto da far venire il dubbio se sia perché non si sanno individuare gli sprechi o perché spaventano le riduzioni del personale che inevitabilmente ne conseguirebbero: se per gli esuberi di Alitalia alcuni sindacati sembrano disposti a seminare di mine anche l’ultima spiaggia, figurarsi che cosa succederebbe se si dovessero toccare Sanità o Pubblica istruzione. O Poste, per restare in campo aeronautico.

La diligente razionalità del “piano” di Calende mette ancora più in evidenza la complessa varietà dei temi con cui deve fare i conti il progetto di Renzi. Di un piano si chiede lo stato di avanzamento, di un progetto politico ci si interroga sulla sostenibilità: a quale maggioranza si rivolge Renzi, e quale è il programma che pensa di riuscire a farle approvare? La maggioranza, in Parlamento e nel Paese, che ha sostenuto il Renzi istituzionale, quello della cesura verso le nomenclature di partito, verso l’ideologia dell’antiberlusconismo, verso lo stallo in cui erano finite le riforme istituzionali e costituzionali, è diversa dalla maggioranza, in Parlamento e nel Paese, di cui ha bisogno il Renzi governante: lo sosterrà qualora le dovesse proporre riforme che negano alcuni principi base della sinistra, la redistribuzione fiscale, la solidarietà in tema di immigrazione, il potere dello stato di controllare l’andamento economico? Sosterrebbe riforme come quelle che hanno fatto Tony Blair e Gerhard Schroeder? O non è invece più probabile che Renzi sia indotto a percorrere strade più tradizionali?
Alla fine il risultato potrebbe essere che la maggioranza che ha consentito a Renzi di arrivare al governo del Paese, e che ha anche accettato i compromessi necessari per portare in porto le “grandi” riforme, si trovi a essere governata dalla solita “normale” socialdemocrazia.

La cautela sull’economia mostra la sfida che il premier ha davanti

La cautela sull’economia mostra la sfida che il premier ha davanti

Massimo Franco – Corriere della Sera

Il «no comment» del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in risposta a una domanda sull’eventualità di una manovra correttiva in autunno era obbligato. La sua prudenza rispecchia l’incertezza che domina i conti pubblici e l’evoluzione della crisi finanziaria, e dunque va apprezzata. Ma gli avversari del governo hanno voluto vederci la conferma di una situazione in via di peggioramento, e una reticenza che non promette niente di buono. Forse anche per questo, nel pomeriggio Padoan è stato costretto a precisare: «Ma “no comment” non significa solo “non ho nulla da aggiungere”? Non c’è nessuna manovra in arrivo, semplicemente». L’ennesimo attacco di Forza Italia, figlio di un’opposizione «governativa» sulle riforme istituzionali e ipercritica sull’economia, tende a raffigurare Matteo Renzi sulla difensiva: cosa in parte vera, anche se ad essere realmente in panne è Silvio Berlusconi.

Il problema del presidente del Consiglio è che il fronte tedesco gli sta riservando critiche inattese. I popolari vicini alla cancelliera Angela Merkel continuano ad accusarlo di non avere voluto proporre l’ex premier Enrico Letta alla presidenza del Consiglio dell’Ue: un’intromissione che espone Renzi ma anche lo stesso Letta, indicato dal Ppe contro la candidata del governo italiano a «ministro degli Esteri» europeo: Federica Mogherini. Il risultato è un rinvio delle nomine a fine agosto. «Un rinvio estremamente pesante soprattutto per il semestre italiano», commenta preoccupato l’ex presidente della Commissione, Romano Prodi. Non solo. Il Pd appare lacerato più di quanto non sia; e, seppure supervotato il 25 maggio, è come se il suo peso politico a Bruxelles rimanesse marginale. È una difficoltà che Palazzo Chigi cerca di circoscrivere procedendo sulla riforma del Senato e soprattutto sulla politica economica.

Sa che è l’unica alla quale l’Unione Europea sia davvero attenta. Padoan ammette che la lentezza della ripresa rende i margini più stretti. «Non ci sono scorciatoie per la crescita», avverte. Ma conferma che il taglio del cuneo fiscale diventerà permanente con la legge di Stabilità. Si tratta di una marcia parallela a quella per modificare il bicameralismo. Più passano le ore, però, più diventa chiaro che la filiera degli oppositori non cederà facilmente. Ieri uno dei relatori del testo, il leghista Roberto Calderoli, ha sostenuto che non si comincerà a votare in Aula nemmeno lunedì, perché gli emendamenti sono troppi e richiedono una discussione ulteriore. La strategia del rinvio rivela anche una guerra dei nervi con il premier e con il ministro Maria Elena Boschi.

Eppure l’esito appare segnato. Gli alleati del Nuovo centrodestra insistono che bisogna far tutto prima dell’estate. E il sottosegretario a palazzo Chigi, Graziano Delrio, risponde che sulle riforme «è in ritardo il Paese, non il governo». Insomma, nonostante i malumori dell’Anci, che vorrebbe con Piero Fassino più sindaci senatori, il patto Berlusconi-Renzi dovrebbe portare all’approvazione in tempi relativamente rapidi. Resistono e fanno ostruzionismo sia una ventina di senatori del Pd, sia quanti dentro FI parlano di subalternità di Berlusconi a Renzi. E dall’esterno, costituzionalisti come Stefano Rodotà sostengono la tesi dell’«imposizione indecente, senza alcuna cultura istituzionale». Ma Renzi può replicare che la proposta è stata modificata; e reagire alle accuse del Movimento 5 Stelle sull’immunità parlamentare.

Nel testo governativo non c’era, dice, facendo capire che l’avrebbero inserita altri. Sono le convulsioni che accompagnano un cambiamento storico, per quanto a dir poco controverso; e che si intrecciano con le manovre di disturbo di Beppe Grillo in vista della prossima sfida: il sistema elettorale. Il capo del M5S manda i suoi a parlarne con Renzi e il Pd. Si punzecchiano ma alla fine sembrano tutti soddisfatti. «Non siamo divisi dal Rio delle Amazzoni ma da un ruscello», commenta Renzi. Attraversarlo, però, sarà ugualmente difficile perché la sensazione di un minuetto politico è comune a entrambi gli interlocutori. Il presidente del Consiglio si chiede se Luigi Di Maio, numero due della Camera e mediatore per conto di Grillo, sia in grado di portarsi dietro l’intero movimento. Visti i precedenti, è una domanda legittima.

L’altro Nazareno

L’altro Nazareno

Davide Giacalone – Libero

Silvio Berlusconi e Matteo Renzi hanno contemporaneamente riunito i propri parlamentari e simultaneamente chiesto loro di essere leali e avere fiducia nelle capacità dei loro capi. Ovvero di loro due. Hanno stretto un patto, denominato “del Nazareno”, da quel patto è nato il governo Renzi, da quello s’è avviato il cambiamento della Costituzione, come la riforma del sistema elettorale. Ciascuno dei due ha pagato un prezzo, ciascuno ha avuto la propria convenienza, entrambe si mostrano fermi nel mantenere la parola data. Sarebbe tutto assai bello, se non fosse che il patto verte su ciò che forse è necessario, ma non su quello che certamente è urgente.
La sera del 25 febbraio 2013, quando si contarono le schede elettorali, fui tra quelli che ebbero modo di dirlo subito: questa legislatura si governa ed ha un senso solo se si stringe un accordo fra la destra e la sinistra. L’accordo deve reggersi su due punti: la messa in sicurezza dei conti e il cambiamento del sistema elettorale. Il Partito democratico, allora nelle mani di Bersani, rifiutò questa impostazione e si massacrò. Mi sento, quindi, un nazareniano ante Nazareno. Così come, del resto, fui tra quanti guardarono con interesse e simpatia al giovane sindaco di Firenze e ai suoi primi tentativi di dire la sua sulla scena nazionale. Il fatto è, però, che sia dall’accordo che dall’azione di governo è stato cancellato il primo, più urgente e più importante punto: i conti. Anzi, leggo (incredulo) che si sostiene la possibilità di animare l’intesa sulla Costituzione e lasciare dilagare la rissa sull’economia. Questo significa che i due ritengono prioritario controllare le frizioni e i conflitti all’interno dei gruppi parlamentari, piuttosto che provare a governare gli inevitabili conflitti sociali connessi a riforme economiche che, se vere, non sono indolori. È una davvero curiosa inversione delle priorità. Che risponde ad una logica culturale e politica: governare veramente non è possibile, ma è necessario controllare le Aule parlamentari, possibilmente riducendole al singolare, perché da quelle dipende non la continuità di governo, ma la stabilità dei governanti. Rassegnarsi a questo è suicida.
Tanto più che senza un Nazareno economico la sfida continuerà a svilupparsi in senso dannoso. Come Berlusconi volle alzare le pensioni minime così Renzi ha voluto alzare alcuni redditi, entrambe convinti che da quello dipenda il consenso e ambedue speranzosi che la spinta della domanda interna regga il prodotto interno lordo. Il tandem, purtroppo, pedala in senso opposto: crescendo i redditi (di poco per ciascuno, ma abbastanza nell’insieme) senza che cresca il lavoro diminuisce la produttività e la competitività, azzoppando la sola parte d’Italia che ancora prova a correre. E siccome senza sviluppo e con più spesa non si può far crescere il debito (che cresce per i fatti suoi), né sfondare il deficit (che è il preludio di nuovo debito), ne discende che, oggi come ieri, quel che si da con una mano si toglie con quella fiscale. Magari non esattamente agli stessi, ma in un forsennato gioco a non cambiare nulla. Questa logica non solo non cura il male, ma è il male.
Siccome tutto questo è evidente, e siccome è altrettanto chiaro che dominare i conflitti sociali, in un Paese che s’impoverisce, è difficile se altri si mettono a soffiare sul fuoco o bassamente speculano sulle difficoltà oggettive, ecco che aveva ed ha un senso che su quel terreno si stringa un accordo: mettiamo in equilibrio i conti, tagliamo la spesa pubblica da tagliare (tanta), dismettiamo patrimonio e abbattiamo il debito, nel frattempo riformiamo il sistema elettorale e lasciamo che sia il tempo a dimostrare quanto siamo stati ragionevoli, rimandando a subito dopo la ripresa della normale e sana dialettica fra diversi. E se qualche parlamentare scalpita, provando a farsi famoso intralciando questo importante lavoro, che si usi pure la frusta. Invece ci si è incaponiti su una cosa, la riforma costituzionale, che se la guardi da lontano ti sembra utile, ma non certo risolutiva, e se la guardi da vicino preferisci sperare che sia inutile. Il metodo giusto per la cosa sbagliata. Una maledizione.

L’impeto senza metodo non realizza il cambiamento

L’impeto senza metodo non realizza il cambiamento

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Uno Sturm und Drang che ancora non conosce la sistemazione teorica dell’idealismo: il riformismo renziano acquista sempre più la fisionomia di un impeto senza organicità. Il Sole ha provato a darne una razionalizzazione, e ne sono nate le pagine 2 e 3 di questo giornale, ma anche con una certa esperienza di norme si fa fatica a seguire le linee e i contorni del disegno complessivo.

Lo slancio, appunto, c’è. Così come lo sforzo evidente e meritevole di produrre il cambiamento necessario, a partire proprio dall’economia. Va incoraggiato il premier nel tentativo di superare le resistenze di un’Italia che, nel suo immobilismo, si è messa ai margini delle trasformazioni che hanno cambiato il mondo negli ultimi 25 anni. Ma l’impeto, pur necessario in questa fase, non basta. Produce antitesi, quasi mai sintesi.

Lo dimostra, una su tutte, la vicenda del Jobs Act. Renzi ne presentò con grande urgenza le linee guida nei primissimi giorni dell’anno, quando non era ancora premier. Letta ragionava sul programma 2014, Renzi in poche ore tirò fuori la sua “rivoluzione” del lavoro. Sono passati sei mesi e l’approdo in Aula al Senato del Ddl 1428, la delega sul lavoro appunto, è slittato a fine mese, in attesa che la maggioranza trovi l’intesa sul contratto a tutele crescenti. Poi toccherà alla Camera e, quindi, ai decreti delegati. La rivoluzione, insomma, può attendere.

Anche perché le norme sul lavoro si devono far largo nel vero e proprio ingorgo parlamentare di questi giorni. Tra decreto competitività, Dl e Ddl pubblica amministrazione, riforme istituzionali, sono centinaia gli articoli da discutere e approvare, con il termine dei due mesi che incombe pericolosamente per la conversione dei decreti. Il tutto complicato ulteriormente dalla mole delle norme attuative che continuano a moltiplicarsi mentre si fa fatica a smaltire quelle ereditate dai precedenti governi.
La «nostra novità è il metodo» annunciava Renzi all’esordio del suo governo. Oggi quello che manca è proprio il metodo e l’organizzazione. Il solista c’è, così come la visione e il coraggio, ma lo schema di gioco non ancora. E così la palla, banalmente, non va in porta.