Matteo Renzi

Auto blu, caccia al decreto. Resta solo la slide di Renzi

Auto blu, caccia al decreto. Resta solo la slide di Renzi

Carlo di Foggia – Il Fatto Quotidiano

Nell’era Renzi, con l’annuncio il più è fatto. La distanza tra la slide e il fare è invece una questione di priorità. Quella delle auto blu in dotazione ai Ministeri non sembra esserlo molto. Come tempi d’attesa non c’è male: 76 giorni e ancora nulla. Eppure l’annuncio aveva rispettato tutti i passaggi codificati dal nuovo corso renziano: la slide («Massimo 5 vetture a Ministero»), l’annuncio in conferenza stampa in orario Tg e il tweet a effetto finale. «Direttori e sottosegretari dovranno andare a piedi o in taxi, autobus, metro, moto o bicicletta» spiegava il premier. Era il 18 aprile. Pe questo si può solo immaginare il senso di frustrazione provato al commissario alla spending review Carlo Cottarelli, costretto a chiamare il dipartimento della Funzione pubblica per chiedere conto del ritardo e sentirsi rispondere che «ci sono stati dei contrattempi». C’era la riforma della Pa da portare a casa, decine di articoli finiti in un decreto omnibus e cassati dai tecnici del Quirinale che hanno costretto gli uffici legislativi alle dipendenze del ministro Marianna Madia a riscrivere i testi e spacchettare il tutto in due provvedimenti. E quindi? E quindi «il fascicolo è finito sotto gli altri».

L’episodio si è svolto mercoledì scorso, a raccontarlo è un’autorevole fonte del Tesoro – dove Cottarelli ha ancora il suo ufficio – per altro l’unico Ministero che ha ridotto le auto blu: da 24 a 12 a disposizione dei vertici, costretti a usarle solo su prenotazione. Un’operazione – spiegano nei corridoi di via XX Settembre – «avvenuta motu proprio», cioè in automatico, senza una norma che li obbligasse a farlo. Perché, per quante riforme tu possa annunciare e impegni tu possa prendere, la trafila è sempre la stessa: servono i decreti attuativi, altrimenti le norme contenute nei testi usciti dal Consiglio dei ministri rimangono semplici dichiarazioni d’intenti. Quella sulle auto blu dei Ministeri è stata inserita nel decreto Irpef – quello sui famosi 80 euro in busta paga – del 24 aprile scorso. Quel testo stabilisce che «con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri su proposta del ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, è indicato il numero massimo, non superiore a cinque, per le auto di servizio a uso esclusivo, nonché per quelle ad uso non esclusivo, di cui può disporre ciascuna amministrazione centrale dello Stato». Ai vari Ministeri, però, quel decreto non è mai arrivato, e così le 1.599 auto blu (costo: 400 milioni l’anno) che compongono il parco macchine in uso a ministri, viceministri, sottosegretari, capi di gabinetto e di dipartimento, sono ancora tutte lì.

Come spesso succede con gli annunci renziani, i risultati ottenuti sono spesso opera dei predecessori. Nel caso specifico, a oggi l’unico taglio effettuato – per altro molto blando – è quello voluto a settembre 2011 dall’allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti: via le auto di utilizzo esclusivo con autista – cosiddette “blu blu” – a direttori generali, capi degli uffici legislativi, delle segreterie e degli uffici stampa. Ai piani più alti hanno invece conservato quelle di utilizzo non esclusivo ma sempre con autista. Le altre 5.000 auto blu sparse per le amministrazioni periferiche sono ancora tutte in servizio e non vengono toccate dalla norma annunciata da Renzi. Norma che non riguarderà le 53.743 vetture che compongono l’intero parco macchine in dotazione alla pubblica amministrazione (49.820 appartengono alle amministrazioni locali) e che costano poco più di un miliardo l’anno alle casse dello Stato. Qualcosa però potrebbe muoversi nei prossimi giorni. «Adesso che il decreto della Pa è stato licenziato – spiegano al Mef – i funzionari metteranno mano al decreto attuativo. Che peraltro varrà per tutti i Ministeri, senza bisogno di ulteriori interventi». Bastava così poco.

Rientro dei capitali, ultima spiaggia

Rientro dei capitali, ultima spiaggia

Fabio Tamburini – Corriere della Sera

Il film è di quelli più conosciuti. Il portafoglio dei conti bancari e degli investimenti in Italia è piuttosto vuoto, mentre i capitali veri vengono custoditi all’estero. Nella maggior parte dei casi neppure troppo lontano ma girato l’angolo, nel sempre accogliente Canton Ticino. Come farli rientrare evitando la solita trafila, decisamente logora, dei condoni e degli scudi fiscali? Sulla carta è l’uovo di Colombo: un nuovo provvedimento, ribattezzato voluntary disclosure, che funziona se contemporaneamente viene previsto un nuovo reato penale, l’autoriciclaggio. Insomma, è l’ultimo treno che può essere preso dagli esportatori clandestini di capitali. Prendere o lasciare. Si pagano le intere imposte evase (compreso gli interessi ma con riduzione delle sanzioni) riacquistando piena disponibilità dei beni, ma si evitano guai peggiori con la giustizia.

Peccato che un meccanismo tanto semplice, peraltro suggerito dall’Ocse, faccia tanta fatica a decollare. O, meglio, potrebbe di nuovo riproporsi un’anatra zoppa: sì alla voluntary disclosure ma rinvio a tempo indeterminato per l’autoriciclaggio, come dire vorrei ma non posso. Limitarsi alla voluntary disclosure, tra l’altro, significa andare in direzione opposta da quella di buona parte degli altri Paesi, in cui provvedimenti sul rientro di capitali hanno una cornice di contrasto anche penale all’evasione. Ora il pallino è nelle mani della maggioranza e della faccenda, a quanto pare, se ne occuperà personalmente Matteo Renzi. Il verdetto è tutt’altro che scontato. La lunga marcia della voluntary disclosure è cominciata all’epoca del governo Monti, con ministro della Giustizia Paola Severino. La scelta fu di nominare un gruppo di lavoro, affidandolo alla guida di Francesco Greco, procuratore aggiunto del Tribunale di Milano, specializzato nei reati economici e finanziari, sostenitore convinto dell’opportunità d’introdurre il reato dell’autoriciclaggio, come ha concluso la commissione nella relazione finale.

Scritto e confermato dalla stessa commissione nel prolungamento dei lavori (su base volontaria) richiesta dal governo Letta. La sorpresa è poi arrivata nel momento in cui si è passati dalle parole ai fatti, con la prima edizione dell’anatra zoppa. Il decreto che prevedeva la voluntary disclosure è stato approvato nel gennaio scorso ma le disposizioni sul reato di autoriclaggio si sono perse per strada. Al loro posto sono subentrate le promesse di rimediare al momento della conversione in legge del provvedimento. Promesse rimaste sulla carta per causa di forza maggiore perché il governo Letta è caduto poche settimane prima della scadenza del decreto legge e il giro dell’oca è ricominciato. Proprio in questi giorni è in corso il confronto suoi nuovi provvedimenti. A parole, nella maggioranza, prevalgono i sostenitori dell’accoppiata tra voluntary disclosure e reato di autoriciclaggio. Nei fatti lo si vedrà. Di sicuro la posta in gioco è di quelle che pesano perché i capitali custoditi all’estero rappresentano una ricchezza importante. E negli anni seguiti alla grande crisi economica sono aumentati invece di ridursi.

Riportali in Italia significa anche evitare la trafila di sempre, che punta a risolvere le emergenze picchiando i bambini, cioè tassando sempre di più chi paga già tanto al fisco, dai lavoratori dipendenti ai pensionati passando dalle imprese. La conferma che si tratta di un fiume di denaro da cui è possibile attingere ottenendo soddisfazioni adeguate risulta evidente dal bilancio degli ultimi sei mesi di voluntary disclosure effettuate senza certezze di legge. In tutto l’Agenzia delle Entrate, con patti sulla parola, ha avviato le procedure per il rientro di 1,5 miliardi di euro. Troppa grazia, verrebbe da dire. Perché non osare di più evitando la riedizione di un’altra anatra zoppa?

Divergenze collidenti

Divergenze collidenti

Davide Giacalone – Libero

Nella gestione degli affari economici il governo mette in evidenza posizioni non solo divergenti, fra i suoi più importanti componenti, ma incompatibili fra loro. È in atto un moltiplicarsi di divergenze collidenti. È capitato anche ad altri governi ed è sempre finita male. Il fatto è che, questa volta, nella squadra non c’è solo qualche fantasista solitario, qualche giocatore che non passa mai la palla e qualche altro che non riesce neanche a toccarla: qui c’è gente che galoppa verso la propria rete.

Guardiamo alcuni fatti, per meglio comprendere l’accelerazione di queste ore. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, promise il pagamento di tutti i debiti della pubblica amministrazione, verso privati fornitori, entro settembre. Tecnicamente non era impossibile, usando la garanzia bancaria della Cassa depositi e prestiti. Ma intervenne il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ovvero il teoricamente più stretto collaboratore del presidente, Graziano Delrio, è chiarì che sarebbe andata già bene se si fosse pagato entro marzo del 2015. Renzi non ha ritenuto di tornarci su, segno che ha ragione Delrio. Aggiungo che quando si dice “marzo 2015” si dice una sola cosa: a valere sul bilancio dell’anno prossimo, “marzo”, a quel punto, non è neanche una previsione, ma una mera speranza.

Durante tutta la tornata degli incontri europei, resi necessari dal rinnovo della Commissione e degli altri incarichi, Renzi non ha fatto altro che parlare di “flessibilità” e di contenuti che devono precedere i nomi. I giornali italiani lo hanno quasi tutti seguito, mentre noi abbiamo osservato che la conquistata flessibilità era già nei trattati. Nulla di nuovo, quindi. Ora, nel mentre l’unica posizione italiana fissa sembra essere la richiesta di un incarico per il nostro ministro degli esteri, Federica Mogherini, quindi una nomina che prescinde da un contenuto (inesistente in quel posto), il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, conferma la nostra tesi: basta leggere i trattati per sapere che abbiamo margini da sfruttare, ma anche impegni da mantenere. Appunto.

E qui arriva la questione più grossa. Renzi ripete che i conti tornano, non ci sono problemi, e la flessibilità da lui agguantata ci consentirà di fare bidibodibù sul soffice materasso di deficit e debito. Ma Delrio interviene a gamba tesa e prima afferma che si devono usare gli euro-bond per federare il debito pubblico, poi mette il piede in un terreno terribile e minato: sarà il presidente del Consiglio a valutare se necessaria una ristrutturazione del debito, magari anche tenendo conto dell’esperienza greca. Questa è una bomba atomica, tanto potente quanto potenzialmente credibile (al Corriere della Sera, non a caso il quotidiano che ha raccolto quelle parole, hanno anche fatto un seminario, per approfondire i dettagli di un simile possibile sprofondo). Quella sui debiti verso i fornitori sembra una sfumatura d’opinione, rispetto all’enormità di questo contrasto. Interviene Padoan e sostiene che della flessibilità e del caso italiano non s’è neanche parlato e che gli euro bond non erano e non sono all’ordine del giorno. Semmai i project bond, per i quali ci vogliono i progetti. Quindi Delrio delirava. E aggiunge che se il prodotto interno lordo dovesse avere un andamento diverso da quello previsto, allora anche il resto dei conti andrebbero rivisti (ed è ovvio). Siccome il pil, a volere essere ottimisti e salvo novità, si mostra in crescita al massimo per la metà di quel che il governo ha previsto, ne deriva la certezza di una manovra correttiva. Padoan lo nega, ma pro forma.

Quindi, riassumendo: per Renzi va tutto bene; per Padoan si devono rifare i conti; per Delrio non è escluso il default. Mettiamo che siano vere le voci che vogliono Renzi impegnato a trovare un incarico europeo, o internazionale, per Padoan, in modo da liberarsi dal controllo quirinalizio sulle faccende economiche, e mettiamo che ci riesca: resterebbero lui e Delrio, ovvero il tutto va bene e non è esclusa la bancarotta. E, pensate, senza neanche le slides, che visto il successo della prima volta hanno opportunamente pensato di ritirarle dal commercio.

Al contrario di altri, probabilmente più intelligenti e veloci di me, non ho coltivato alcuna prevenzione nei confronti di questo governo, nato, sebbene in modo bislacco, da un accordo di larghe intese sulle riforme costituzionali. Ma osservo non tanto che le riforme ancora non ci sono, o che quelle che si profilano sembrano frutto di una riffa, bensì che le divergenze collidenti mettono pericolosamente in dubbio l’esistenza di una linea sul governo del debito. Senza quella il resto non è neanche illusionismo: è come se fosse antani.

Scommessa da 80 euro

Scommessa da 80 euro

Davide Giacalone – Libero

La scommessa degli 80 euro, fin qui, si dimostra vincente dal punto di vista elettorale e perdente sul fronte dei consumi, che non sono aumentati. Lasciamo da parte gli opposti fronti del partito preso, talché per i tifosi del governo sarebbe stata una grande svolta e per gli oppositori una gran presa in giro. I primi potrebbero sostenere che è ancora presto per valutare, i secondi devono prendere atto che il bonus c’è, in determinate buste paga (e che il provvedimento somiglia a quello sulle pensioni minime, alzate d’ufficio dal governo Berlusconi). È più interessante cercare di capire il perché questo modo di procedere non è in grado di risolvere alcun problema.

Due elementi sono evidenti a occhio nudo: 1. gli 80 euro non sono 80, chi ha di meno (quindi una maggiore propensione a consumare ogni centesimo che incassa) prende nettamente meno; 2. il bonus arriva in contemporanea non solo con gli aggravi fiscali relativi alla casa e al risparmio, ma anche in una caos tributario che delude, quando non cancella, ogni speranza di potere avere più reddito disponibile. Già questo tandem è bastevole a far passare ogni voglia di pedalare. Ma, anche qui, si potrebbe ottimisticamente sperare che una volta passate le scadenze fiscali, ove i soldi risparmiati non siano da quelle vaporizzate, passa anche la paura e tornano i consumi. Ed è qui, forse, che si nasconde l’errore più grosso.

L’Italia non è un insieme d’individui, ma di famiglie. Quando il presidente del Consiglio presentò questa iniziativa l’argomentò dicendo: una madre potrà andare una sera in più a mangiar fuori con le amiche. Ha ragionato, insomma, considerando quella madre come un individuo che fa i conti per sé. Nella realtà, però, quella madre (con il padre, i figli e i nonni) vive in un gruppo familiare, che ha visto, in questi anni, notevolmente scendere il reddito disponibile. Sicché il bonus va a compensare parte della perdita, non a creare un di più che sarà gradevole spendere.

Confesercenti ha calcolato che, dal 2008 a oggi, i pensionati hanno perso 1.419 euro di reddito. Circa 118 al mese. I nuclei familiari in cui ci sono dei pensionati sono anche fortunati, nel senso che hanno un cespite sicuro, ma 118 meno 80 fa pur sempre 38: mancano ancora 38 euro. Ci vorranno 17 mesi e mezzo per recuperare quel che si è perso. Sempre ammesso che non si continui a perdere e facendo finta che siano davvero 80. Con questo ritmo ne riparliamo nell’ottobre del 2015.

Confcommercio fa osservare che le nuove imprese che aprono sono la metà di quelle che hanno chiuso e chiudono. Considerando il reddito di quell’attività commerciale come componente di un reddito familiare ecco che cresce la distanza fra quel che si è perso e quel che si riprende. Con quella cresce anche la distanza temporale per recuperare, ammesso che sia mai possibile farlo. Ma se proiettiamo così avanti nel tempo gli sperati effetti del bonus da (meno di) 80 euro ecco che si entra in uno spazio nel quale non solo non è affatto detto che si stabilizzi, dato che le coperture trovate sono relative solo ed esclusivamente al 2014, ma c’è anche il rischio, negato a parole ma concreto nei numeri, che altri aggravi fiscali giungano a correggere i conti pubblici, oggi sbilanciati verso un deficit superiore al previsto (anche perché il prodotto interno lordo cresce di un terzo, quindi due terzi in meno, rispetto alle previsioni governative).

Il tutto assumendo che la crescita dipenda dalla ripresa della domanda interna, laddove sarebbe corretto considerare che la domanda interna dipenda dalla crescita. Che non è un gioco di parole, o il cane che si morde la coda, ma il cuore della scelta politica da farsi: tagliare le spese pubbliche per alleggerire la pressione fiscale sul mondo produttivo, quindi rilanciando la produttività e premiando l’Italia che ha continuato a correre ed esportare; oppure usare quei tagli (che siccome non ci sono diventano maggiore peso fiscale) per premiare i consumatori, senza alcuna contropartita produttiva. Il governo, con il bonus, ha imboccato la seconda strada. Credo sia corretta la prima. E se questo mio ragionamento non è sballato non serve a nulla attendere, se non a perdere tempo.

Matteo Renzi potrebbe rispondere: non sono così sprovveduto, e con me i miei consiglieri e ministri (oddio…), ho usato il bonus per avere maggiore forza e ora che l’ho avuta posso varare quelle riforme destinate a rendere credibile la prima strada. Magari fosse vero. Escluderei di accendergli un cero, ma sarei disposto al monumento equestre. Magari fosse. Gliecché, al momento, le riforme sono annunci, o abbozzi bozzolosi, e le tasse sono realtà. Così procedendo i conti non torneranno mai.