Matteo Renzi

Renzi ci prova: ecco le sue liberalizzazioni

Renzi ci prova: ecco le sue liberalizzazioni

Filippo Caleri e Marco Valeri – Il Tempo

Abolizione del «prezzo imposto» sui libri, eliminazione del mercato di «maggior tutela» per il gas, vendita libera di medicinali di fascia C nelle parafarmacie. E ancora: rimozione dei vincoli per l’apertura di nuove farmacie, studi notarili, pompe di benzina e persino edicole; ma anche via libera a Uber (il servizio di noleggio con il cellulare), al cambiamento di operatore telefonico in tempi sprint e all’ingresso dei privati nel trasporto pubblico locale e per la creazione di nuove cliniche sanitarie. Renzi tenta il bis delle lenzuolate di Bersani o perlomeno ci prova. Insomma, lobby permettendo, sono in arrivo le «Renzuolate». Per avere l’elenco ufficiale delle nuove liberalizzazioni si deve attendere il 20 febbraio, quando il Disegno di Legge Concorrenza arriverà sul tavolo del Consiglio dei Ministri. Ma la bozza del provvedimento che circola in queste ore, datata 15 gennaio, delinea già la maggior parte degli interventi, che riguarderanno molti settori, dall’editoria all’energia, fino al sistema bancario e alle assicurazioni.

Libri più cari
La bozza prevede sia l’abolizione del prezzo imposto dall’editore, con possibili rincari, soprattutto sui libri di testo scolastici, sia l’eliminazione del tetto massimo del 15% di sconto applicabile sulla vendita di libri. In pratica viene sancita la fine dei limiti imposti dalla Legge Levi del 2011, varata in seguito alle proteste dei piccoli editori e dei librari indipendenti, preoccupati dalla concorrenza dei grandi gruppi editoriali e delle grandi catene di librerie. Preoccupazione che non scompare. Secondo Cristina Giussani, presidente del Sindacato Italiano Librai, l’intervento «è un favore ad Amazon e a tutti quei gruppi che hanno le capacità economiche per vendere libri sottocosto e mettere fuori mercato, una volta per tutte, le librerie indipendenti e i piccoli editori».

Energia
A partire dal 30 giugno 2015 scomparirà anche il servizio «di maggior tutela» del gas per i clienti domestici, nel quale le tariffe sono fissate trimestralmente dall’Autorità per l’energia. Nella stessa data cesserà anche la possibilità per le piccole imprese di aderire al servizio di maggior tutela per l’energia elettrica. Una doppia novità che porterà alla piena liberalizzazione del mercato, ma che potrebbe avere come effetto collaterale un improvviso aumento dei prezzi per i clienti un tempo tutelati. Un rischio riconosciuto anche dal Governo: nella bozza, infatti, si prevede di condurre «un monitoraggio dei prezzi durante la fase di liberalizzazione», per evitare sorprese.

Rc Auto
Moltissime le novità nel campo assicurativo. Rispuntano gli sconti obbligatori per gli assicurati che accettano di installare sulla propria auto le famose «scatole nere», i dispositivi che registrano le attività del veicolo. La nuova bozza, però, prevede sconti anche per chi accetta di sottoporre il proprio veicolo ad ispezione da parte delle compagnie assicurative. Ma cambiano anche le misure per la trasparenza e per l’assegnazione delle classi di merito, che ora prevedono aumenti meno salati del premio assicurativo per chi viene «declassato».

Farmacie e farmaci di fascia C
Il ddl Concorrenza interverrà pesantemente anche sul tessuto delle farmacie. Attualmente, infatti, la norma prevede la possibilità di aprire una farmacia ogni 3.300 abitanti. La bozza del disegno di legge prevede il dimezzamento di tale soglia, abbassandola a 1.500 abitanti, e permettendo quindi il raddoppio del numero di farmacie. Novità anche per i farmaci di fascia C con ricetta, destinati al trattamento di patologie lievi, che potranno essere venduti anche nelle Parafarmacie e nei corner dei supermercati.

Trasporti locali
Altra grande novità del sarà l’arrivo dei privati nel trasporto pubblico locale. La bozza prevede infatti che imprese diverse dal concessionario del servizio di trasporto «possano fornire servizi anche in sovrapposizione alle linee gestite in regime di esclusiva». Viene abrogato anche l’obbligo per le auto del Noleggio con conducente (NCC) di ricevere prenotazioni solo presso l’autorimessa: un divieto che stava a cuore soprattutto ai taxi, ma che ora scompare. E che facilita la vita ad Uber, il servizio di trasporto 2.0 che utilizza guidatori privati e, appunto, NCC.

Edicole, benzina e parrucchieri
Le Renzuolate prevedono, fra le tante cose, anche l’abolizione delle autorizzazioni comunali per l’apertura di nuovi punti vendita di quotidiani e periodici insieme alla rimozione dei vincoli residui all’apertura di nuovi impianti di distribuzione carburanti, e allo sviluppo del «non oil», la parte di business delle pompe di benzina che non è legata al carburante, come vendita di giornali e prodotti di altro tipo. Anche gli acconciatori saranno liberalizzati: la durata prevista dei corsi di qualificazione per accedere alla professione di parrucchiere passa dagli attuali due anni a 900 ore, mentre l’apprendistato si riduce da un anno a 300 ore.

Notai e banche
Alle banche verrà imposto di trasferire il conto corrente, quando richiesto dai clienti, presso altri istituti tassativamente entro 15 giorni. Per i notai, invece, è prevista la trasformazione del tetto minimo di 7.000 abitanti, necessario per l’apertura di una nuova posizione notarile, in un tetto massimo.

Blitz contro un mondo pietrificato

Blitz contro un mondo pietrificato

Francesco Manacorda – La Stampa

Difficile condividere la sicurezza di Matteo Renzi sul fatto che il decreto varato ieri dal governo per trasformare le dieci maggiori banche popolari in società per azioni cambi segno a una situazione in cui «abbiamo troppi banchieri e troppo poco credito». Non esistono studi che dimostrano che con meno banche e banchieri le imprese vedano aumentare il credito concesso, né ci sono evidenze sul fatto che le banche popolari facciano crediti in misura inferiore di quanto accada alle banche che sono Spa.

Più facile comprendere le ragioni che hanno spinto Renzi a un vero e proprio blitz per decreto sulle popolari e immaginare quali saranno le conseguenze di questa mossa. Le ragione principale, per usare le parole del ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, è quella di «dare una scossa» al sistema davvero pietrificato delle popolari, che basandosi sul voto capitario – una testa un voto, indipendentemente da quante azioni si abbiano in tasca – ha finora consentito alla maggior parte di esse di mettersi al riparo da qualsiasi rischio di scalata da parte di altre banche e in molti casi ha assicurato la permanenza al vertice degli stessi uomini per periodi che si misurano non in anni ma in decenni. E la conseguenza facilmente prevedibile di questa scossa è un aumento delle concentrazioni bancarie.

Era comunque opportuno muoversi per sanare un’anomalia più e più volte segnalata anche dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: la maggior parte delle dieci maggiori popolari che rientrano nel decreto sono assimilabili ormai, per dimensione e modalità operative, ai grandi gruppi bancari. Corretto, dunque, uniformarle a questi sotto alcuni profili: una governance che permetta a chi ha la maggioranza del capitale di incidere e non ostacoli né contendibilità né ricambio ai vertici, una maggiore trasparenza nei rapporti con le autorità di vigilanza, financo – sostengono alcuni – la possibilità di accedere al mercato del credito con condizioni migliori. L’urgenza della manovra è dettata anche dall’entrata in vigore dell’Unione bancaria e dalla necessità di avere condizioni il più possibile uniformi tra i vari istituti.

Si reciderà in questo modo il rapporto delle popolari con il territorio, come protestano insolitamente concordi esponenti di destra, di sinistra e dei Cinque stelle? Non necessariamente. Anche in questo caso non è dimostrata la relazione tra la governance di una banca e il suo rapporto con la realtà in cui opera. E il fatto stesso che una vasta porzione di banche più piccole, in particolare quelle di credito cooperativo, non venga toccata dal provvedimento, dimostra che secondo il governo il cambio di registro non è necessario per tutti.

La conseguenza prevedibile della mossa di ieri, magari anche prima che si siano esauriti i 18 mesi di tempo dati alle popolari per cambiare il loro statuto, è dunque che le nuove società per azioni – non più frenate dal voto capitario che sottopone qualsiasi decisione al voto della maggioranza non delle azioni, ma degli azionisti – saranno protagoniste di fusioni e acquisizioni. Magari tra di loro; magari unendosi a qualche Spa già esistente; magari salvando qualcuna delle Spa bancarie in difficoltà. Se infatti i critici delle popolari citano casi scandalosi come quello della Popolare di Lodi o di Banca Etruria, dal mondo del credito cooperativo si può rispondere ricordando casi come Mps, Carige e Banca Marche, in cui l’essere società per azioni non ha evitato di finire in un mare di guai. Come a dire che non basta solo il modello Spa per eliminare i rischi di una cattiva attività bancaria.

Old economy

Old economy

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Correggendo un errore si limitano i danni, non si risolvono certo i problemi. Matteo Renzi, facendo apprezzabilmente autocritica, ha più volte ripetuto di voler modificare l’inasprimento fiscale introdotto per le partite Iva con la legge di stabilità e Giuliano Poletti ne ha annunciato, di conseguenza, la riscrittura. Bene, ma non basta. Perché l’errore deriva dal perpetuarsi di vetusti schemi ideologici che a parole si vorrebbero superare. Il legislatore, invece, resta ancorato alla vecchia cultura del Novecento imperniata sulla diarchia imprenditori-dipendenti – figlia della separazione marxista tra capitale e lavoro, tra padroni e sfruttati, che privilegia solo il dipendente a tempo indeterminato – che dipinge i liberi professionisti e chi si è fatto imprenditore di se stesso, nel migliore dei casi come un limone da spremere fiscalmente, e nel peggiore come un popolo di evasori, quando invece la società moderna, che cammina assai più velocemente, ha già costruito nuovi modelli.

Il Jobs Act, per esempio: lungi da me sottovalutare le discontinuità che produce, ma ancora una volta il lavoro autonomo è rimasto fuori dalla porta. E gli 80 euro? Una misura da 10 miliardi a favore di chi ha già un lavoro dipendente, stabile e una retribuzione “media”: l’idealtipo dell’elettore di sinistra, insomma, Anche i 5 miliardi di sgravi Irap per i neo assunti, più che generare nuova occupazione, saranno utilizzati dalle imprese per sostituire chi è in uscita, con effetti benefici limitati al turn-over, Stesso discorso per gli under 35 che hanno una partita Iva: dopo aver constatato che nella legge di stabilità (chissà poi perche non è stata utilizzata la delega fiscale) l’aliquota nel regime agevolato dei minimi è stata triplicata (il 15 per cento, contro il 5 per cento deciso dal governo dei tecnici) e aver scoperto che all’innalzamento da 30 a 40 mila euro della soglia di fatturato per l’applicazione del regime fiscale agevolato per artigiani e commercianti, si contrappone l’abbassamento da 30 a 20 mila per lavoratori della conoscenza (addirittura 15 mila nella prima stesura governativa), e dopo aver amaramente visto che i costi saranno definiti in base a coefficienti presuntivi di redditività e non, come sarebbe logico, sulla base delle spese effettivamente sostenute, c’è il rischio che rimpiangano il vecchio Monti.

Perché, in un sol colpo, l’esecutivo dei quarantenni ha ridotto la platea e triplicato le tasse a trentenni che iniziano un’attività da freelance della conoscenza. Senza contare che, mentre si prova a rivoluzionare il sistema degli ammortizzatori sociali, il welfare pubblico per i lavoratori autonomi rimane un tabù e l’aliquota contributiva Inps è appena salita al 29 per cento (e continuerà a farlo fino ad arrivare al 33 per cento nel 2018), mentre per i dipendenti si ferma al 25 per cento. In sintesi, con misure che riducono i contributi previdenziali e ampliano la soglia di applicazione del regime dei minimi, si è dato sostegno al lavoro autonomo più tradizionale (artigiani e commercianti), ma non si è neppure provato a distinguere dentro il variegato mondo del lavoro autonomo, magari premiando chi è completamente rintracciabile nei pagamenti rispetto a chi evade.

Ora bisogna rimediare. L’idea migliore, che era circolata ma è poi stata accantonata, sarebbe quella di varare un veicolo legislativo ad hoc per le partite Iva, completo e soprattutto stabilizzante rispetto alle aspettative future visto che nell’ultima parte del 2014 tanti freelance, consigliati dai commercialisti, hanno deciso che fosse meglio giocare d’anticipo e aprire subito la partita Iva per poter usufruire del “forfettone” (5 per cento di tassazione fino a 30 mila euro) per sfuggire dai nuovi minimi. Meglio arrivare a un regime fiscale e previdenziale più severo ma garantito nel tempo e senza tetti anagrafici, piuttosto che offrire vantaggi spot che velocemente evaporano. Nello specifico, è evidente che diventa difficile per il governo far fare un passo indietro ad artigiani e commercianti dopo aver assicurato loro la gran parte degli 800 milioni stanziati per gli autonomi, Ma proprio per questo, bisogna arrivare a un provvedimento specifico, dove e più facile articolare il dare e l`avere e dove lo spirito liberalizzatore di Renzi (almeno a parole) può essere maggiormente valorizzato.

Nella litania del “largo ai giovani” e dei “millennials pronti a raccogliere le sfide della globalizzazione” non c’e spazio per provvedimenti che spingono i freelance a diventare imprese artigiane o commerciali. Capisco che delle parole di Acta, l’associazione dei freelance che ha lanciato la campagna “#RenzireWind” – “se il presidente del Consiglio è coerente deve bloccare l’aumento dei contributi per la gestione separata Inps e studiare un regime agevolato” – possa esserci una lettura corporativa. Ma è altrettanto vero che non ci sara mai il “nuovo corso” che blairianamente Renzi auspica se l’unico orizzonte resta quello della “old economy”, lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e autonomi “classici”.

Una manina pericolosa

Una manina pericolosa

Alessandro Pace – La Repubblica

Dunque, per ammissione dello stesso Matteo Renzi, era sua la manina che ha infilato di soppiatto il testo dell’art. 19bis nella delega fiscale. Che Renzi abbia operato da solo o si sia avvalso della complicità di altre persone, ha poca importanza. È invece grave che l’ammissione di Renzi sia avvenuta dopo che si era consentito che si facessero i nomi del ministro Padoan, del viceministro Casero, della dottoressa Menzione ed altri.

Ed è grave che Renzi si sia macchiato dello stesso reato commesso da Berlusconi nel 2001, come ho ricordato su queste pagine l’8 gennaio. Pur ricoprendo entrambi la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, essi hanno usato un sotterfugio perché una loro volizione ‘individuale’ assume le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi: una volizione individuale che nel 2011 consisteva nel ritardare di 5 o 6 anni il pagamento del debito della Fininvest alla Cir; e che nel 2014 sarebbe sostanziata in un favore fatto da Renzi a Berlusconi per mantenerne l’appoggio alle discutibilissime riforme in atto. In paesi come il Regno Unito o la Germania, per assai meno già sarebbero state chieste le dimissioni del premier Cameron o della cancelliera Merkel. E non ho il minimo dubbio che negli Stati Uniti sarebbe stato chiesto l’impeachment del Presidente Obama.

Che questa vicenda non possa né debba concludersi soltanto con delle battute di spirito discende, sotto il profilo strettamente giuridico, dal fatto che Renzi ha rischiato di commettere un delitto punito con la detenzione da tre a dieci anni; e discende, sotto il profilo istituzionale, da due diverse ‘coloriture’ del sotterfugio. O lo stesso Renzi si rendeva conto della gravità del fatto e voleva tentare che l’aiutino a B. venisse conosciuto il più tardi possibile oppure Renzi considera da sempre i suoi e le sue ministre degli yesmen e delle yeswomen, che comunque appoggerebbero a scatola chiusa tutte le sue iniziative. Né si dica, come ha detto il Ministro Boschi in risposta al senatore Mucchetti, che tutto ciò che accade nel Consiglio dei ministri sarebbe coperto da segreto.

Ribadisco: il caso è troppo grave perché passi sotto silenzio, come appunto sta succedendo. È quindi doveroso che se ne discuta in Parlamento spontaneamente ad iniziativa dello stesso Renzi. oppure a seguito di una delle varie forme di sindacato ispettivo. Altrimenti, dopo il precedente di Berlusconi del 2011 e quello di Renzi del 2014, diverrebbe prassi che il premier, nonostante le sue prerogative ufficiali, possa portare avanti sue proprie iniziative legislative senza l’approvazione del Consiglio e per giunta di soppiatto. Il che costituirebbe un’ inammissibile sbrego per la nostra democrazia, le cui legale, per la formazione delle decisioni legislative, sono il dibattito e la trasparenza, come ha giustamente ricordato Nadia Urbinati su queste pagine lo scorso 11 gennaio, a proposito di questa stessa vicenda.

Sul lavoro Renzi arranca

Sul lavoro Renzi arranca

Metro

«Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi IV e Letta». Lo sostiene una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” (www.impresalavoro.org) realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione. Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. «Un risultato nettamente peggiore – sottolinea la ricerca – rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro». Peggio dell’ex sindaco di Firenze – evidenzia il centro studi “ImpresaLavoro” – ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità (da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila). Il risultato peggiore di Renzi è nel numero di donne senza occupazione, aumentate di 145mila unità.

Il buco e la pezzaccia

Il buco e la pezzaccia

Davide Giacalone – Libero

Non è una svista, ma un errore accecante. Era già capitato con il trattamento fiscale delle partite Iva, approvato di notte e la mattina dopo Matteo Renzi già diceva che si doveva correggere. E’ capitato con uno dei decreti legislativi relativi sul lavoro, che taluni consideravano valido anche per il pubblico impiego e altri no, tanto che Renzi disse di rimettersi al Parlamento, dimenticando che era il Parlamento ad essersi rimesso al governo. Ma sulla delega fiscale si esce dalla farsa e si entra nella tragedia. Per tre ragioni: di merito, di metodo legislativo e di ordine politico.

1. Nel merito credo abbia ragione Vincenzo Visco, quando osserva che considerare non perseguibile penalmente una frode fiscale entro il 3% dell’imponibile pagato non è diverso dal considerare penalmente esenti le fatture false entro i 1.000 euro e la soglia di non punibilità penale che passa da 50 a 150.000 euro evasi. A me sembrano provvedimenti accettabili, sebbene oscuri nel funzionamento (la fattura è esente se resta unica o può esistere una cartiera che ne produce in serie? perché cambia, e non di poco). A Visco sembrano abomini. Ma sono perle della medesima collana. Se si cancella il 3% per ragioni morali, perché mai si dovrebbe mantenere la non penalità per le fatture false, che sono strumento evidente di frode fiscale? E’ ragionevole che si possa essere favorevoli o contrari, non lo è che si faccia uno spezzatino e si mastichino alcuni bocconi sputandone altri. Questa faccenda, per le evidenti implicazioni politiche, finisce con l’oscurare tutto il resto. Che non manca di guai grossi. Avevo avvertito che la formulazione dell’abuso di diritto porta con sé un abuso di giurisdizione, nel senso che si passa palla e potere ai giudici. Ovvero l’esatto opposto della certezza del diritto, che dovrebbe essere chiaro prima. Leggo che Alessandro Giovannini, presidente dell’associazione docenti di diritto tributario, pensa la stessa cosa. Ma nessuno se ne occupa.

2. Il metodo legislativo è raccapricciante. L’idea che il Consiglio dei ministri approvi roba che non legge, o che al momento dell’approvazione non è scritta (perché questo credo sia successo), è già imbarazzante. Se poi parte la gara a dissociarsi, vuol dire che il governo è in disfacimento. Essendo decreto legato a una legge delegante la sola cosa da accertarsi è se il suo contenuto sia conforme, o meno, alla delega. Posto che un decreto non si “ritira”, qui si sta correndo a scriverne un altro senza che si sia detto se il punto contestato è o no coperto da delega. Non sto a descrivere il perché tale punto è rilevante, con entrambe le ipotesi inquietanti.

3. Se quel 3% era una furbata pro-Berlusconi era da rincretiniti supporre che sarebbe sgusciata nel silenzio. Passi per il Natale, ma prima o dopo qualcuno avrebbe letto. Se non lo è, nel senso che non è un codicillo oscuro della “pacificazione”, allora è allucinante che una norma sia ritirata (non essendo ritirabile) sol perché potrebbe giovare a uno. Con tanti saluti alla Costituzione e alla presunta eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge. Renzi se ne è assunto la responsabilità perché s’è reso conto che raccontare come sono veramente andate le cose (ammettendo che la macchina legislativa di Palazzo Chigi è fuori controllo, o eteroguidata di soppiatto) sarebbe stato più dannoso che prendersi la colpa. Non s’è reso conto della conseguenza: se ripiega braghe in mano dopo la malaparata si trova nella medesima condizione in cui si trovò il governo Amato quando il decreto Conso dovette essere stoppato: finito. Prendere l’aereo di Stato per andare a sciare e poi scivolare su una roba simile significa avere perso lucidità. Infine, dire che della materia si riparlerà dopo l’elezione presidenziale non solo ha un vago sapore ricattatorio, destinato ad avvalorare l’idea che fosse una furbata, stupidamente organizzata, ma dimentica che la delega fiscale scade il 28 di marzo. Posticipare è suicida, perché incita l’esercito dei franchi tiratori a dilatare i tempi quirinalizi, talché la delega fiscale vada a farsi benedire. Si dirà: così, però, essi danneggerebbero gli interessi nazionali. Sicuro, ma non è che i protagonisti di questa storiaccia si siano distinti per l’opposto.

P.S. La pezza si fa sempre più colorata, talché il buco risulta sempre più evidente. Leggo (Il Messaggero) che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sostiene essere normale che un testo licenziato dal Consiglio dei ministri sia diverso da quello entrato. Come dire: il dibattito è vero e i partecipanti non sono delle comparse. Sarebbe bello, ma non è così. I provvedimenti esaminati dal Consiglio vengono prima studiati e preparati in un pre-consiglio, cui partecipano capi di gabinetto e/o i capi degli uffici legislativi. Questo per fare in modo che all’esame dei ministri non giungano questioni che poi daranno luogo a discussioni tecniche. Il punto è: visto che il 3% del dovuto al fisco, quale soglia al di sotto della quale l’evasione non fa scattare l’azione penale, non era nel testo entrato in Consiglio è evidente che non è mai stata esaminata dal pre-consiglio. Il che non è affatto normale. Quando, poi, dovessero sorgere discussioni politiche, dubbi o posizioni diverse, delle due l’una: o il presidente del Consiglio pone ugualmente il provvedimento in votazione, chiedendone l’approvazione, oppure, più frequentemente, rinvia la discussione al Consiglio successivo, in modo che ci sia tempo per appianare i contrasti e fornire i chiarimenti. Sul 3% non è successo nulla di questo.

Dice Delrio, in tal modo confermando la procedura e questa seconda ipotesi, che non c’è nessuna manina che abbia cambiato il testo, essendo stato licenziato quel che il Consiglio ha discusso e approvato. Benissimo. Poi aggiunge. Ma siamo pronti a cambiarlo. Malissimo. Se è quello che avete discusso e approvato, perché poi volete cambiarlo? Solo per le reazioni esterne? Ma, allora, sbaraccate il Consiglio dei ministri, rottamate la parte della Costituzione che ne regola funzioni e poteri, e abbandonatevi ai sondaggi. Perché vi accorgete che è un errore? Allora licenziate gli uffici legislativi e fate penitenza. Aggiunge ancora: “non credo che ci sia nessun problema a tenere aperto il provvedimento fino a quando non si trova un equilibrio che possa evitare qualsiasi cattiva interpretazione”. Ci sono eccome, i problemi. Primo: dove pensa di trovarlo, l’equilibrio? All’interno del Consiglio, dove hanno già approvato, nel partito, nella coalizione, in televisione? La Costituzione prevede solo il primo caso, il resto non è fantasia, ma rottamazione costituzionale. Secondo: si tratta di un decreto legislativo, già approvato, la cui delega scade il 28 di marzo, se lo tengono sospeso si brucia tutto. Terzo: si rendono conto del precedente che creano? Da ora in poi il Consiglio approva, poi si attende di vedere l’effetto che fa, indi si stabilisce se procedere o ritirare. Posto che la procedura di ritiro non esiste. Il buco non è bello, ma la pezza è terribile.

Errori e balocchi

Errori e balocchi

Davide Giacalone – Libero

Ammettere gli errori è onesto e può essere segno di forza. Ma può anche essere una sgusciante furbata. Dice Matteo Renzi, ai microfoni di Rtl 102.5, che “un intervento correttivo sulle partite Iva è sacrosanto e me ne assumo la responsabilità”. Dell’errore commesso o della correzione? Di entrambe, suppongo. Bene, gliene renderemo volentieri merito. Non è per non fidarsi, però ci sono cose che non tornano.

L’errore, ora ammesso come tale, è stato qui segnalato quando la legge di stabilità era ancora in discussione. Per correggere quelli accumulati nell’iter parlamentare, diversi dei quali indotti da emendamenti presentati da ministri, il governo ha elaborato un mostruoso maxi emendamento, in totale continuità con i (peggiori) costumi di sempre. In quel testo, caotico, colmo di strafalcioni e scritto in un linguaggio che (teoricamente) la legge proibisce, l’errore non solo c’era ancora, ma aggravato. Anche questo lo abbiamo qui scritto, in tempo utile per la correzione. Niente. Su quel frullato legislativo hanno posto la fiducia. Teoricamente si sarebbe potuto intervenire alla Camera dei deputati, visto che è questo il lato positivo del bicameralismo (consustanziale alla “Costituzione più bella del mondo”, anche se ora va di moda oltraggiarlo). Obiettano: così si sarebbe arrivati all’esercizio provvisorio. Primo: non è una tragedia. Secondo: meglio quello delle norme abborracciate e sbagliate. Niente. La mattina dopo l’approvazione definitiva ecco Renzi: è un errore, va corretto. Poteva accorgersene prima. Sarebbe bastato leggere.

La stessa mattina, però, il Corriere della Sera pubblica una nota firmata da Yoram Gutgeld, consigliere economico del medesimo Renzi, il quale sostiene che non solo non è un errore, ma un’ottima e giusta cosa, una conquista fiscale e semplificatoria (!?). Ovviamente dissento, avendo sostenuto il contrario, ma mi educarono a rispettare opinioni e tesi altrui, salvo confutarle. Qui, però, il problema è che due opinioni opposte risiedono in due stanze attigue, a Palazzo Chigi. La domanda è: stanno parlando dello stesso testo? Oppure, nel caos, hanno ancora in mano bozze e riassuntini diversi? Difficile credere che Gutgeld potrà consigliare la correzione di quello che gli sembra ben fatto. Ma, allora, chi si sbaglia? È comunque disdicevole la dottrina per cui le leggi si fanno insalsicciando di tutto, anche a caso, salvo poi intervenire con altre leggi per correggerne i più macroscopici errori. Si deve a tale dottrina la non credibilità e affidabilità delle leggi. Il tutto senza dimenticare che si continua a dare per fatta la diminuzione della pressione fiscale, il che non trova fondamento nel testo e, con ogni probabilità, serve ad alimentare una suggestione. Occhio, perché poi si trasforma in disillusione. Difficile da indirizzare.

Renzi ha fatto riferimento anche all’Ilva, altro tema qui sollevato, avvertendo noi che si sta andando in direzione opposta al necessario, nazionalizzando laddove si dovrebbe privatizzare. Ha detto che l’Unione europea non può impedirci di salvare i bambini di Taranto. Siamo abituati alle parole e ai toni della propaganda, ma queste superano il tollerabile. Sembra il piccino cui la mamma non compra i balocchi, salvo che è cresciutello e vuole imporsi per ruzzare, ma senza che la mamma smetta di dilapidare in profumi e il babbo scommettendo all’ippodromo. Invocare il superamento di parametri agitando l’immagine dei bimbi equivale a dire che non si è capaci di porre limite alcuno ai loro dissennati genitori. Si è sodali degli sperperanti, tentando di far credere che i cattivoni stiano altrove. Forse Renzi non lo ha chiaro, ma è esattamente questa la ragione per cui la legge di stabilità non solo non cambia affatto verso, ma fa il verso al peggio del passato. Pur al netto degli strafalcioni. Suggerisco un criterio facile: finché non sarà tagliata la spesa pubblica è escluso che scenda la pressione fiscale, senza che cresca il debito. Statalizzare l’Ilva è l’opposto.

Fisco meno caro ma non per tutti

Fisco meno caro ma non per tutti

Alessandro Barbera – La Stampa

L’anno volge al termine e per l’italiano è giunta l’ora di porsi la ferale domanda: nel 2015 pagherò più tasse? Negli ultimi cinque anni la risposta è stata sempre la stessa. Quest’anno le cose andranno diversamente. Non per tutti però. Partiamo dal dato più importante, la cosiddetta pressione fiscale. Il documento di economia e finanza dice che nel 2015 sarà lievemente più alta: il 43,4, appena un decimale in più di quest’anno. Le apparenze non traggano in inganno: l’aumento è dovuto al fatto che le regole contabili europee non contabilizzano il bonus Irpef da ottanta euro come una riduzione fiscale. Nonostante il tentativo di superarlo, il governo si è trovato costretto a confermare un meccanismo perverso che tramuta quei dieci miliardi di minori tasse in maggiori spese. Nella pressione fiscale sono invece calcolati il taglio dell’Irap alle imprese, la decontribuzione per i nuovi assunti, l’aumento delle tasse sui fondi pensione che va ad aggiungersi a quello già previsto quest’anno per depositi bancari e titoli. Il governo Renzi ha scelto di aumentare le tasse sulle rendite (erano mediamente più basse che nel resto dell’Ue) per abbassare quelle sul lavoro. Gli ultimi dati disponibili (Istat 2012) dicono che se un dipendente italiano costava mediamente all’imprenditore 41 mila euro, al lavoratore andavano meno di trentamila: peggio di noi in Europa facevano solo Danimarca, Germania e Francia. In ogni caso nel 2015 la somma di dare e avere sarà positiva: nel complesso le tasse scenderanno. Ma «complessivamente» non significa necessariamente per tutti. La manovra di Renzi è «di sinistra» molto più di quanto, a sinistra, non si voglia ammettere.

Casa, niente sorprese
Tasi e Imu non riserveranno sorprese grazie al tetto che bloccherà il tetto massimo per le tasse sulle casa. Con un però: i Comuni potranno aumentare l’aliquota Tasi fino allo 0,8 per cento se suddivisa fra prima casa e altri immobili. Chi ha molti investimenti nel mattone ha buone probabilità di pagare di più. In alcune Regioni le brutte sorprese per i più ricchi arriveranno in ogni caso dalle addizionali Irpef. Attenzione alle cronache locali, non c’è momento migliore del Natale per far passare lievemente le cattive notizie. Il Lazio di Nicola Zingaretti ha già messo a bilancio un aumento dell’addizionale dall’1,73 al 2,33 per cento ai redditi sopra i 28mila euro. Per inciso, l’esenzione dagli aumenti ancora non c’è: la maggioranza ha promesso una legge entro aprile. Per i più ricchi in Piemonte si prepara un salasso: aliquota invariata fino a 28mila euro (oggi è del 2,13 per cento), dello 0,44 per cento fino a 55mila, dell’un per cento al di sopra, al quale va poi aggiunto l’aumento del bollo auto. L’addizionale salirà anche in Liguria, con una fascia di esenzione uguale a quella promessa dal Lazio: 28 mila euro annui. In ossequio al federalismo fiscale che c’è, i toscani non avranno di che lamentarsi: invece di aumentare le aliquote il presidente Rossi ha preferito il taglio delle partecipate.

Chi ottiene di più
A questo punto si può tracciare l’identikit di chi con certezza l’anno prossimo pagherà meno tasse: è un lavoratore dipendente, ha uno stipendio di circa 1400 euro al mese e ha al massimo una casa di proprietà. Sopra quella soglia tutto dipenderà da cosa possiede, quante persone ha a carico e soprattutto da dove vive: se possiede più di una casa, ha risparmi, non ha figli a carico e vive nel Lazio o in Piemonte ha ottime probabilità di pagarne di più. Lo scenario si farebbe ancora più cupo se nel frattempo il governo non riuscisse a tagliare la spesa nei numeri promessi. In quel caso – il primo gennaio 2016 – scatterebbero le clausole di salvaguardia previste dalla legge di Stabilità: l’aliquota media Iva salirebbe dal 10 al 12 per cento, quella più alta dal 22 al 24, più un ritocco sulla benzina. La regola aurea del nuovo fisco nei Paesi occidentali è «dalla persona alla cosa». La speranza è di schivarle entrambe.

Colpo grosso in casa Renzi

Colpo grosso in casa Renzi

Antonio Rossitto – Panorama

Da malpagato co.co.co. a riverito manager. L’ascesa lavorativa di Matteo Renzi è stata fulminea come la sua scalata a Palazzo Chigi. E si è portata dietro uno di quei privilegi che, a parole, il presidente del Consiglio aborrisce: dieci anni di generosi contributi previdenziali ottenuti in virtù della sola appartenenza alla vituperata casta. Una storia poco commendevole già ricostruita nei mesi scorsi dal Fatto Quotidiano.

Si puo riassumere così: Renzi rimane un semplice collaboratore coordinato continuativo della Chil, l’azienda di famiglia, senza diritto a pensione né Tfr, fino al 24 ottobre 2003. Dopo tre giorni da disoccupato, viene riassunto dalla stessa società come dirigente. Ma l’azienda si caricherà solo per pochi mesi gli oneri di cotanto figlio. Perché lo scatto di carriera, guarda caso, avviene il 7 novembre 2003, alla vigilia dell’ufficializzazione, già ventilata dai giornali, della candidatura alla guida della Provincia di Firenze. La scontata elezione avviene sette mesi più tardi: il 13 giugno 2004. Da quel giorno, per cinque anni, l’amministrazione versa gli oneri pensionistici di quella promozione tanto tempestiva quanto inusuale. Eletto sindaco nel 2009, godrà dello stesso privilegio fino al febbraio 2014, quando diventa presidente del Consiglio. Solo due mesi dopo. il 22 maggio del 2014, pressato dai giornali, annuncia le sue dimissioni dalla Chil.

Per dieci anni, quindi, il premier è rimasto sul groppone di un sistema previdenziale che, rivela uno studio dell’Ocse appena pubblicato, pesa per quasi un terzo sul totale delle uscite dello Stato: la peggior percentuale tra i paesi industrializzati. Colpa anche dell’inesauribile arte di azzeccare i garbugli degli italiani. Tra cui si potrebbe annoverare anche quella del capo dell’esecutivo: a beneficiare del suo avanzamento professionale sotto stati infatti solo i versamenti pensionistici al premier. L’entità di questi oneri non è però stata mai definita. Le ripetute interrogazioni dei consiglieri dell’opposizione al Comune di Firenze hanno ricevuto solo risposte evasive. Stessa sorte per la richiesta promossa alla Camera dal Movimento 5 stelle.

Panorama è in grado di ricostruire i dettagli di un accorgimento che ha permesso a Renzi di mettere da parte, alle spalle del più scassato sistema previdenziale del pianeta, un tesoretto che un operaio si ritrova solo dopo vent’anni di lavoro in fabbrica. Quasi 200 mila euro accumulati grazie ad appena sette mesi da dirigente della Chil, l’azienda adesso al centro di un’inchiesta della Procura di Genova in cui è indagato per bancarotta fraudolenta Tiziano Renzi, padre del presidente del Consiglio. Le cifre di cui è entrato in possesso Panorama sono sorprendenti. Nella dichiarazione del redditi riferita al 2003, il premier dichiara appena 14.273 euro di imponibile Irpef. A cui si aggiungono 200 azioni privilegiate Fiat, un’Audi comprata l’anno prima e la proprietà di una panetteria di 78 metri quadrati a Rignano sull’Arno.

Nei primi dieci mesi di quell’anno, Renzi è un co.co.co. della Chil. Ma a fine ottobre viene assunto come manager: passa così a un contratto di circa 59 mila euro all’anno partendo da una retribuzione misera che Panorama è riuscito a calcolare sulla base degli oneri previdenziali corrisposti dalla provincia. Già, ma quanto misera? L’importo si può desumere sottraendo al reddito del 2003 (14.273 euro, appunto) la somma degli stipendi da manager di novembre e dicembre: 8.800 euro circa. Il risultato sarebbe di 5.500 euro. È questo, all’incirca, il compenso che Renzi riceve dalla Chil per i servigi resi da gennaio a ottobre: 550 euro al mese. A novembre però, da dirigente, lo stipendio del futuro presidente del Consiglio aumenta di nove volte: arriva a quasi 4.400 euro, contributi, tredicesima e quattordicesima inclusi. Tutte le cifre, calcolate da Panorama, potrebbero essere ancora più precise se il premier, in ossequio alla decantata trasparenza, fornisse i contratti di assunzione della Chil. Un atto reso ancora più necessario dai benefici ottenuti da Renzi: tutti a carico della collettività.

Di questa invidiabile ascesa, la società di famiglia si farà carico solo per sette mesi: fino a giugno del 2004. Poi a pagare è Pantalone. Una volta alla guida della provincia, sospeso lo stipendio, rimangono infatti da versare gli oneri contributivi: gravame che, per legge, pesa sull’ente in cui il politico è eletto. Nel caso di Renzi non si tratta di quisquilie. Il totale è di 20.184 euro all’anno: 7.416 per il fondo dei dirigenti, 5.259 per la pensione integrativa, 3.731 euro per il fondo sanitario e 3.778 euro versati direttamente alla Chil per il Tfr maturato. Cifra che va moltiplicata per il quinquennio in cui Renzi ha guidato l’amministrazione, fino a giugno del 2009. Per le casse provinciali, una spesa di 100.922 euro. A cui va aggiunta una cifra analoga, 98mila euro circa, per gli oneri accumulati da giugno 2009 a marzo 2014, durante il mandato da sindaco di Firenze. Il totale è ragguardevole: quasi 200 mila euro destinati alla serena vecchiaia del primo ministro. Soldi che, una volta raggiunta l’età pensionabile, potrebbero cumularsi a un sostanzioso vitalizio cui avrebbe diritto proseguendo l’attività politica. Unica consolazione per i contribuenti: a marzo del 2014, dopo la nomina a premier, Renzi annuncia le dimissioni dalla Chil.

Non è un magnanimo gesto di ravvedimento, ma l’epilogo di un anno di polemiche cominciate all’inizio del 2013. Quando il consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Francesco Torselli, chiede chiarimenti all’allora primo cittadino di Firenze con un’interrogazione urgente. La stringata risposta dell’ex vicesindaco, Stefania Saccardi, arriva con una nota del 22 marzo 2003: «Il dottor Renzi ha avuto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 24 ottobre del 2003 presso la Chil». Mentre «dal 27 2003 è stato come dirigente». Non soddisfatto, Torselli presenta un’altra richiesta: «Per sapere a quanto ammonta esattamente la cifra pagata dalla collettività, prima dalla provincia e ora dal comune per la pensione del sindaco». Sta qui infatti il busillis. Il vicesindaco Saccardi risponde due mesi dopo, il 31 maggio 2013. limitandosi però al parziale calcolo del solo Tfr: che corrisponde a una minima parte di quanto versato per la previdenza dal segretario del Pd. Nella replica all’interrogazione viene chiarito: «Il dottor Matteo Renzi è sempre stato assunto senza alcun tipo di interruzione ed è rientrato in azienda dal 22 al 24 giugno del 2009». Un altro escamotage per garantire continuità dei versamenti pubblici: sono infatti i giorni in cui scade il mandato alla provincia e comincia quello da sindaco. Ma nemmeno in quei tre giorni Renzi mette piede in azienda: «Ha usufruito di tre giorni di ferie» scrive Saccardi. Infine, all’ultimo punto della replica, l’ultima beffa: «Se al momento dell’assegnazione della carica, fosse stato occupato con un rapporto di co.co.co., il dottor Matteo Renzi non avrebbe avuto diritto ai contributi figurativi».

Ecco spiegato il motivo del balzo da co.co.co. a dirigente, prima di essere eletto alla provincia: escamotage che gli ha permesso di passare da una retribuzione di meno di 7mila euro all’anno a un contratto da circa 59mila euro, previdenza, tredicesima e quattordicesima inclusi. Maturando così quasi 200 mila euro di versamenti dal 2004 al 2014, pagati dai contribuenti invece che dall’azienda di famiglia, oltre che dieci anni di anzianità lavorativa. In cambio, dal momento della sua prima elezione, non ha messo piede nemmeno un giorno negli uffici della Chil. Alla società di famiglia è bastato pagare sette mesi di stipendio, circa 30 mila euro, perché lo Stato ne restituisse a Renzi più di sei volte tanto in oneri previdenziali. Come insegna la buona, vecchia, casta. Più facile da rottamare a parole che nei fatti.

Matteo punta alle urne per non pagare i conti

Matteo punta alle urne per non pagare i conti

Davide Giacalone – Libero

L’accordo europeo s’è fatto. I conti non tornano e si dovranno rifare a marzo. Dentro l’accordo c’e un non detto assai pericoloso. Questa volta sì che la presidenza italiana ha lasciato il segno, conducendo l’Unione europea all’accordo del fare finta: io fingo che abbiano un senso i conti che presento, tu fai finta che abbia un senso rifarli fra tre mesi e tutti facciamo finta di non vedere che la voragine della crisi s’allarga. Ma che senso ha guadagnare tre o quattro mesi? Che ci si guadagna? L’Italia nulla. Chi la governa, però, spera nell’improbabile ripresa, o nel crollo dei conti europei, sì da nascondere i nostri nel caos, oppure, più realisticamente, nel far saltare prima il banco, sostituendo i conti economici con quelli elettorali. Lo andiamo ripetendo dall’estate scorsa, benché da Palazzo Chigi si giuri e spergiuri che si voterà a scadenza naturale. Se così fosse non avrebbe alcun senso quel che stanno facendo, compreso l’accordo a far finta.

L’ottimo Pier Carlo Padoan continua a stupirmi. Ogni giorno che passa mi domando chi glielo fa fare di affermare e firmare l’inverosimile. Ora sostiene: è vero che la Commissione europea prima e l’Eurogruppo poi hanno affermato che i conti italiani (e non solo) saranno rivisti a marzo e che dovremmo e dovremo fare di più, ma intendono dire che dobbiamo farlo nell’attuazione delle riforme già approvate, non certo preparare una manovra correttiva. Le riforme è una riforma, quella del lavoro, che è una legge quadro: qualsiasi cosa si faccia da qui a marzo non cambierà di un decimale i conti.

Certo, il governo può ben dire di avere chiuso l’accordo, cantando vittoria. Me ne compiaccio. Ma è un accordo scritto sulla sabbia in una giornata di vento. E se prima la comunicazione governativa continuava a ripetere che l’Italia mai e poi mai avrebbe sfondato il tetto del deficit, comodamente collocato al 3% del Pil, laddove dovrebbe essere significativamente più basso, ora si mormora e sussurra quel che l’aritmetica già gridava: potremmo superarlo. Oibò, che è successo? È in programma una politica di spesa pubblica anticiclica, per la gioia di tutti i magnaccioni, che siano stati terroristi neri, mezzani sinistri, o criminali della società civile? No, temo che la faccenda sia (ove possibile) più prosaica: sappiamo già che a marzo i conti non torneranno e allora si mettono le mani avanti, annunciando come possibilità quella che sarà neanche una necessità, ma la logica conseguenza di numeri messi a capocchia, supponendo crescite che non ci saranno.

Non supereremo il 3% per scelta politica, ma per prepotenza contabile. Questo temo. E come potrà giustificarlo, il governo Renzi? Basta aguzzare l’ orecchio, per capire l’antifona. Già si sente dire: 1’Europa non sia solo vincoli, ma sviluppo. Concetto profondo. Tanto che ci vuole un sommergibile per scorgerlo. Dagli abissi non tornerà certo a galla allargando il deficit, quindi poi il debito, mettendo soldi in tasca a italiani cui lo stesso Stato poi li toglie con la mano fiscale. Perché questo è tale spesa pubblica, incarnata dalle emergenze sociali e dagli 80 euro: un modo per distribuire quel che poi si ripiglia, salvo che a quelli più lesti, che lo portano via nel frattempo. L’antifona, però, è quella di dare la colpa all’Europa. Ah, se non ci fossero loro, a stringerci il cilicio!

Ma dove porta una simile impostazione? Porta al voto. Perché mica puoi tenere la minestra in caldo per anni. A fine marzo non succede nulla, ma entro primavera ci sarà chiesto di onorare le promesse. A quel punto che fa, Padoan, risponde loro che il 70% dei decreti attuativi del Job Act sono stati fatti? Ne prenderanno act e ci domanderanno se abbiamo problemi di comprendonio: i conti sono disallineati. Quindi, fra aprile e giugno, chi governa si deve mettere sulle spalle la loro correzione. O invoca la rivolta smutandata contro l’Europa. Altrimenti no, semplicemente fa osservare che siamo in campagna elettorale e che la democrazia va rispettata. Ci vediamo subito dopo. È vero che guadagnare ancora uno o due mesi non serve a nulla, ma vale solo per gli italiani, non per quel ristretto gruppo fra loro che andrà a popolare le due (leggasi due) aule parlamentari e a formare il nuovo governo. Poi si vedrà. Non brilla in lungimiranza, ma almeno ha un senso. Far finta che siano solidi conti già in fase di smontaggio neanche è lungimirante, ma è pure privo di senso.