Matteo Renzi

Il gufo di se stesso

Il gufo di se stesso

Giorgio Mulè – Panorama

Adesso noi dovremmo essere soddisfatti, darci di gomito in redazione e idealmente con voi che ci leggete. Perché quattro giorni dopo aver denunciato in copertina, dati alla mano, l’incapacità del governo di attuare i tagli alla spesa previsti, lunedì 13 ottobre Matteo Renzi ha annunciato l’aumento della spending review nel 2015 da 10 miliardi scarsi a 16 miliardi. Avevamo scritto: «La strada per diminuire seriamente le tasse e destinare fondi agli investimenti c’è, e Panorama la predica in maniera ossessiva: i tagli alla spesa pubblica».

Beh, ci sarebbe di che essere contenti. E invece mentre ascoltavamo l’ennesimo annuncio del premier, in redazione ci siamo guardati smarriti. Perché Renzi, soltanto il 7 ottobre, aveva spiegato che la manovra sarebbe stata di circa 23 miliardi (adesso è di 30) e che i tagli non avrebbero raggiunto quota 10 miliardi (ora lievitati a 16). Il nostro smarrimento nasce dalla considerazione, suffragata da anni di esperienza, che la revisione della spesa pubblica è una cosa seria e non s’improvvisa: va pianificata nel tempo per avere risultati, altrimenti è una presa in giro. Esempio: si decide di abolire le 34mila centrali di acquisto di beni e servizi per ridurle a 34 con l’evidente finalità di risparmiare. Peccato che questo provvedimento, il quale da solo potrebbe valere circa 13 miliardi (il comune X non potrebbe più comprare un computer, ma lo farebbe un unico ufficio istituito a livello centrale per tutti i comuni italiani, strappando condizioni e sconti assai maggiori dalle imprese che garantiscono le forniture), per produrre effetti già il prossimo anno doveva entrare in vigore a luglio scorso mentre è stato rimandato proprio dal governo (!) al gennaio 2015 per gli acquisti di beni e servizi e al 1° luglio 2015 per gli appalti sui lavori pubblici (!!). Addirittura nel provvedimento di rinvio della presidenza del Consiglio si legge che «l’area vasta che avrà funzioni anche di centrale di committenza sarà operativa soltanto dal 1° ottobre 2015» (!!!). Non è finita. I comuni hanno già fatto sapere di volere una deroga per gli «acquisti in economia (sono quelli che non hanno bisogno di una gara d’appalto, ndr) fino a 40 mila euro e per interventi di somma urgenza» (!!!!).

Non voglio tediarvi oltremodo con i dannati punti esclamativi e mi fermo qui. Di sicuro non sono queste le premesse per una spending review affidabile, qui siamo alle comiche. Ma l’annuncio sui 16 miliardi non è un episodio da trascurare politicamente. Ci dice che la realtà, cruda e crudele dei nostri conti impone già a Matteo Renzi di cambiare metodo. Il premier che camminava tre metri sopra il cielo, il facilone che pensava di mettere tutto a posto con gli annunci è tornato sulla terra. Ha preso finalmente atto che le parole non bastano più nell’Italia disastrata e paralizzata;e che per ripartire la strada obbligata è quella di eliminare sprechi e mangiatoie come noi gufi gli ripetiamo da quando è arrivato a Palazzo Chigi senza alcun mandato popolare. Non è mai troppo tardi. Per fortuna, anzi, Matteo Renzi è diventato il gufo di se stesso. E questa sì che è una grande soddisfazione.

Fingere di tagliare aumentando le spese

Fingere di tagliare aumentando le spese

Mario Baldassarri – Panorama

Firmando la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def), Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno onestamente detto quattro verità. La prima verità è che il maggiore Pil stimato dall’Istat, che aveva indotto qualche buontempone a parlare di «maggiori margini di manovra», ha un peso del tutto irrilevante. Affiancato alla revisione al ribasso, sia della crescita che dell’inflazione, l’effetto Istat si esaurisce subito e dal 2016 in poi l’andamento del Pil è «inferiore» a quello previsto prima della rivalutazione.

La seconda è forse una verità contabile, che però pone domande e attende spiegazioni. Rispetto al Def di aprile, nella Nota di aggiornamento di settembre i dati del 2013 della spesa e delle entrate pubbliche sono stati cambiati in misura rilevante. Ad aprile il consuntivo per lo scorso anno riportava una spesa pubblica totale pari a 799 miliardi di euro balzata a 827 a settembre, con un aumento di 28 miliardi. Il totale delle entrate era pari a 752 miliardi balzato a 782, con un aumento di 30 miliardi. Senza la rivalutazione Istat del Pil la spesa sarebbe volata oltre il 52 per cento e le entrate avrebbero sfiorato il 50 per cento. I 28 miliardi di maggiori spese sono dovuti per 17 miliardi a spesa corrente al netto degli interessi, per 4 miliardi a minori spese per interessi e per 15 miliardi a maggiore spesa in conto capitale. I 17 miliardi in più di spesa corrente al netto degli interessi risultano per 15 miliardi alla voce «altre spese correnti» (?) che, per lo stesso anno 2013, passa da 61 a 76 miliardi di euro.I 15 miliardi in più delle spese in conto capitale sono dovuti per 11 miliardi a investimenti fissi lordi (nel 2013 abbiamo fatto più investimenti di quelli che risultavano a consuntivo ad aprile!) e 4 miliardi a contributi in conto capitale (abbiamo cioè erogato più fondi perduti?). I 30 miliardi in più di entrate risultano provenire per 18 miliardi da quelle tributarie (più 4 dalle dirette e più 14 dalle indirette) e per 12 miliardi da «altre entrate» (ma cosa sono le altre entrate?). In sintesi, abbiamo scoperto a settembre che, nel 2013, abbiamo avuto più Pil, più spesa pubblica e più tasse! Certo, ci potranno essere ragioni «tecnico-contabili», ma che queste spostino i numeri in modo così rilevante merita certamente «spiegazioni e approfondimenti».

La terza verità conferma la mistificatoria metodologia che si applica in Italia da oltre trent’anni quando si parla di tagli alle spese. Infatti, come si dimostra in tutti i Def, quando si parla di tagli alle spese ci si riferisce ai dati «tendenziali previsti» per gli anni futuri e scritti sulla carta. Non si fa cioè riferimento alla spesa storica e vera di quest’anno che è effettivamente «entrata» nell’economia. Pertanto, se quest’anno ho speso 100 euro, i tagli non sono riferiti a questi 100 euro, bensì alla previsione di spesa per il prossimo anno che magari è «stimata» (come? da chi?) pari a 130 euro. Allora se si propone un taglio di 20 euro rispetto a quei teorici 130, si sta riducendo l’aumento di spesa «previsto» di 30 euro, ma di fatto si aumenta la spesa da 100 a 110 euro!

La controprova di questo è data dagli stessi numeri della Nota di aggiornamento. Infatti, nel 2018 rispetto al 2013, la spesa totale «aumenta» di 69 miliardi (se ci si riferisce al dato del Def di aprile), e 41 miliardi (se ci si riferisce al dato di settembre), con dentro una spesa corrente al netto degli interessi che aumenta di 63 o 46 miliardi nei due casi. Quest’ultima differenza è tutta dovuta ai 15 miliardi di maggiori «altre spese correnti» scoperte per il 2013 tra aprile e settembre. Queste «altre spese correnti» rappresentano un calderone ignoto e intonso che cresce nei prossimi anni fino a poco meno di 80 miliardi all’anno. Cosa c’e dentro? Per contro, le entrate totali «aumentano» di 102 miliardi sempre in riferimento ai dati di aprile e di 72 miliardi rispetto a quelli di settembre. In sintesi, da qui al 2018, avremo più tasse, più spesa corrente, minori investimenti, nonostante la minore spesa di interessi sul debito.

Per questo è facile spiegare la quarta verità. In queste condizioni, è corretta e onesta la stima degli effetti della politica economica che vengono indicati in una tabella della Nota di aggiornamento (tav. II. 4 a pagina 18). Stima, però, talmente prudente e oggettiva da rappresentare quasi una dichiarazione di impotenza. Nella suddetta tabella si indica che:
– il bonus degli 80 euro (stimato a 7 miliardi invece dei precedenti 10) aumenterà il Pil dello 0,1 per cento all’anno fino al 2017 e zero nel 2018;
– la riduzione fiscale per le imprese determinerà un aumento di Pil dello 0,1 nel 2015 e nel 2016 e zero negli anni successivi;
– il resto della legge di stabilità ridurrà il Pil dello 0,1 per cento l’anno prossimo e avrà effetto zero sugli anni successivi;
– le quattro riforme «strutturali» (giustizia, pubblica amministrazione, competitività, Jobs act) avranno effetto zero nel 2015, attiveranno un aumento di Pil dello 0,2 nel 2016 e dello 0,4 dal 2017 in poi;
– nella stessa tabella, viene reiterata la famigerata clausola di salvaguardia, di tremontiana invenzione. Ma che cos’è? Semplice, ci si impegna, se i conti non tornano, a far scattare automaticamente una riduzione delle detrazioni e deduzioni fiscali. Si chiama «tax expenditure», ma i comuni mortali capiscono che, se le detrazioni si riducono, si pagheranno più tasse. Ebbene, questa clausola di salvaguardia, già incorporata nelle stime, riduce il Pil del 2016 dello 0,2 per cento, quello del 2017 dello 0,3 e quello del 2018 dello 0,2. Ecco allora che gli effetti della politica economica vengono indicati in una maggiore crescita del Pil dello 0,1 per cento nel 2015 e dello 0,2 negli anni successivi. Come direbbero gli anglofoni di casa nostra… peanuts, cioè bruscolini!

Questi sono i dati «ufficiali» scritti nero su bianco dal governo dieci giorni fa. Poi ci sono i numeri sparati come fuochi artificiali nelle conferenze stampa: una legge di stabilità di 30 miliardi, tagli di spesa per 16 miliardi, tagli di tasse per 18 miliardi ecc.. Ma questi numeri sono riferiti alle previsioni future o ai dati storici del 2013? Sono tutti in un anno o sono la somma dei prossimi tre o quattro anni? Solo con il testo finale della legge di bilancio sarà possibile avere una risposta. Nel frattempo… incrociamo le dita!

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Intorno alle cifre imponenti della manovra di Renzi si discuterà a lungo: dal rapporto fra tagli di spesa e risorse in deficit alla verosimiglianza dell’intero pacchetto, fino alle effettive coperture. Che sia un progetto ambizioso, è chiaro a tutti. Che sia anche realistico, lo si vedrà presto.

Appare chiaro che il presidente del Consiglio gioca su due fronti. Quello europeo è evidente a tutti. Ma l’ambizione che traspare dai numeri va molto al di là del rigido rispetto dei parametri. Sulla carta il famoso tetto del 3 per cento di deficit è rispettato, ma si sono anche poste le premesse dello sfondamento, nel caso in cui i vari tasselli del mosaico non si collocassero tutti al loro posto: cioè se le maggiori spese non fossero compensate da tagli efficaci e soprattutto autentici. Quindi si coglie un rischio calcolato e persino temerario nelle cifre di Palazzo Chigi, anche se non proprio una sfida all’Unione. Ora spetterà alla Commissione di Bruxelles studiare la manovra nel merito, voce per voce, e giudicare la sua serietà. Non sarà, come tutti prevedono, un esame facile e il pericolo della bocciatura s’intravede sullo sfondo.

Tuttavia c’è anche il secondo fronte, a cui Renzi è particolarmente attento. Un secondo fronte che riguarda il rapporto fra il premier e l’opinione pubblica interna. Sotto questo aspetto la legge di stabilità del centrosinistra è una miscela ben congegnata per piacere al maggior numero possibile di italiani. I miliardi destinati ad abbassare le tasse delle imprese servono, almeno nelle intenzoni, a conquistare il mondo produttivo. Al tempo stesso, gli 80 euro confermati nelle buste paga vogliono rendere più solido il patto politico con i bassi redditi.

È chiaro che l’operazione è tutt’altro che banale. Non è una mera ricerca di consenso; al contrario è soprattutto il tentativo di imprimere una spinta significativa a un’economia che non esce dalla recessione: con un Pil tornato ai livelli di quattordici anni fa, cioè al 2000. Ma in ogni caso è anche una legge molto “politica”, nel senso che Renzi l’ha modellata sull’Italia che ha in mente: da un lato, il paese di chi produce e compete sui mercati eppure si sente soffocato; dall’altro, la platea di chi – singoli o famiglie – ha pagato fin qui il prezzo più salato alla crisi. Tale profilo politico della manovra è stato tratteggiato pensando al possibile «blocco sociale» che il premier ha in mente. Quindi è un errore limitarsi a dire che si tratta di una legge scritta pensando alle elezioni anticipate. Anche perché al momento il voto non è vicino, come non è vicina la riforma elettorale maggioritaria che Renzi considera l’indispensabile lasciapassare per le urne.

Detto questo, è certo che si tratti di un passaggio verso il consolidamento del consenso “renziano” nel paese. Consenso che ha bisogno di mettere radici nell’Italia profonda. Poi, una volta rafforzate le radici, il premier potrà giocare con maggiore sicurezza le sue carte. E magari immaginare quel ricorso alle urne che oggi è prematuro. Del resto, è chiaro che una manovra del genere “lacrime e sangue” oggi non sarebbe praticabile in una nazione stremata. Mentre una legge di stabilità come l’attuale permette di tenere in tasca, fin quando non sarà utile, la carta dello scioglimento del Parlamento. E c’è da credere che al momento opportuno, non sappiamo quando, Renzi vorrà giocarla.

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Marcello Sorgi – La Stampa

Convocato nel mercoledì nero del crollo delle borse, con Milano che ha toccato il picco della negatività in Europa, il Consiglio dei ministri ha licenziato la legge di stabilità in un clima diverso da quello di svolta che Renzi avrebbe voluto, e che comunque s’è sforzato di costruire, presentando in serata nei dettagli la manovra da trentasei miliardi, «con il più grande taglio di tasse della storia della Repubblica». In sintesi, Renzi tende a dare un valore contingente al terremoto di ieri sui mercati e a prevedere risultati molto più immediati delle misure appena varate, sia in termini di rilancio dell’occupazione, grazie al drastico taglio dell’Irap e del costo del lavoro, sia in fatto di ripresa dei consumi e di crescita complessiva. Si tratta, com’è evidente, di una visione ottimistica del percorso che l’Italia ha di fronte. Renzi però sostiene che non c’è altra strada.

Qualificati osservatori economici, tuttavia, di quel che è accaduto ieri e del trend delle ultime settimane tratteggiano un quadro diverso e arrivano a conclusioni più preoccupate. L’alibi della Grecia in cui il governo Samaras spingerebbe per liberarsi in anticipo dei vincoli della Trojka non può bastare a spiegare la fuga degli investitori negli ultimi giorni dalla Borsa italiana e il brusco rialzo dello spread, che ieri ha toccato di nuovo quota 170 per assestarsi poi solo qualche punto più sotto. Il ritardo con cui l’agenzia Moodys ha consegnato il suo periodico rapporto (per la verità più positivo, o se si preferisce meno allarmato, del previsto) può aver determinato un’ondata di vendite, ma non fino al punto da provocare un crollo come quello che s’è avuto.

La verità, come ha ricordato giorni fa il presidente della Bce Draghi, è che la crescita globale nell’insieme sta rallentando, e in tale ambito la stagnazione europea non dà segni di movimento e la stessa Germania comincia a mostrare qualche segno di affaticamento. È in questa cornice che la Commissione europea – quella uscente presieduta da Barroso, che ha già spiegato come sia difficile fare sconti, e la nuova guidata da Juncker, con cui Renzi ha avuto una telefonata non del tutto rasserenante martedì – deve decidere se promuovere l’Italia e la manovra varata da Palazzo Chigi, accettando l’ottimismo della volontà di Renzi, o se rimandarla o addirittura bocciarla, abbandonandosi al pessimismo della ragione.

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

È una proposta non nuova per gli italiani. Negli ultimi anni diverse forze politiche hanno proposto l’azzeramento dei contributi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. La peggiore recessione del secondo dopoguerra abbinata alla deflazione e accompagnata da un cuneo fiscale che scoraggerebbe perfino la voglia di fare impresa dei tedeschi hanno prodotto il record italiano della disoccupazione giovanile: +44,2%. Ovvio che un premier di attacco, quale Matteo Renzi sicuramente è, non poteva restare fermo ai soli annunci. Non sorprende, quindi, la sua decisione di varare nella nuova legge di Stabilità la decontribuzione triennale al 100% sui contratti a tempo indeterminato. Decisione, peraltro, accompagnata dall’eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap. Una scossa vera, dunque, al cuneo fiscale italico che punta al cuore delle aspettative di imprenditori e manager per farle girare verso il quadrante positivo della congiuntura economica.

Oggettivamente si tratta di decisioni sempre promesse dal duo Berlusconi-Tremonti e mai realizzate in tanti anni di governo. Renzi con la nuova legge di Stabilità completa l’opa ostile, iniziata con gli 80 euro e il primo taglio dell’Irap del 10%, sull’elettorato un tempo del Cavaliere e indossa, senza se e senza ma, i panni della socialdemocrazia riformista tedesca. Il pericolo per il premier a questo punto è soltanto uno: quello incarnato dalla burocrazia italiana oggettivamente inadeguata a rendere operative rapidamente le politiche anticicliche adottate dai governi. I ministeri fanno marcire nei cassetti le norme pro sviluppo e pro occupazione e quando, dopo vari anni dalla pubblicazione in G.U. del dl che le conteneva, le rendono operative non servono praticamente più a raggiungere lo scopo per cui erano state varate.

Il caso del Mise e del cosiddetto bonus fiscale per le assunzioni altamente qualificate è esemplare. Introdotto con decreto dal governo Monti nel giugno del 2012 è diventato operativo solo il 15 settembre del 2014 (solo per le assunzioni del 2012 ovviamente; quelle fatte quest’anno saranno incentivate nel 2016!). Chi assume un PhD nel 2012 per avere un credito di imposta nel 2015? In pratica nessuna impresa, come ora certificano i dati della stessa procedura. Dei 25 milioni di euro messi a disposizione dal Mise per il 2012, ben 20.125.982, cioè più dell’80%, sono ancora disponibili dopo un mese dall’avvio del clickday. Trattandosi di assunzioni relative al 2012 possiamo già considerare chiusa la procedura. Morale: quando la burocrazia impiega ben 27 mesi per rendere operativa una norma anticiclica ne uccide la capacità di incidere. La vera nemica del riformismo di Renzi, oggi, è proprio questa pubblica amministrazione da terzo mondo.

Trovare i soldi, nella bufera

Trovare i soldi, nella bufera

Il Foglio

“La differenza tra la finanziaria 2014 e quella 2015 è che ci sono 18 miliardi di tasse in meno. Tutto qui”, ha twittato ieri mattina Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio, prima di riunire il governo in serata per approvare la legge di stabilità da inviare a Bruxelles e in Parlamento, non ha nominato nemmeno il predecessore, Enrico Letta, ma il confronto al momento è impietoso. Nell’ottobre 2013, Letta le tasse le ridusse di soli 3,7 miliardi per l’anno successivo, in una manovra di 11,6 miliardi. Renzi punta ad alleggerire il fardello per i contribuenti di 18 miliardi su una manovra di oltre 30 miliardi. Domanda più che legittima: ma come è possibile che Renzi d’un tratto, dopo gli ultimi anni di manovre levigate con un timido cesello, trova invece i soldi per tentare uno stimolo robusto dell’economia? Perdipiù nei giorni in cui le nubi di una nuova tempesta finanziaria si avvicinano minacciose superando di parecchio il proverbiale orizzonte?

Un primo indizio si trova proprio nel fosco scenario internazionale. Ieri la Borsa di Atene ha perso 6,32 punti: si teme che la fretta di abbandonare la tutela della Troika (Ue, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) e l’accelerazione verso possibili elezioni faccia deragliare il percorso di risanamento. Proprio lì dove la crisi dell’euro è deflagrata nel 2010. Contemporaneamente l’attesa per i risultati degli esami della Bce sulle banche europee trascina giù un po’ tutti i listini (Milano ha perso 4,4 punti). Si aggiunga il calo sempre più rapido dei prezzi del petrolio e un qualsiasi dato statunitense peggiore del previsto: la congiuntura economica mondiale rallenta, e per l’Eurozona già a rischio deflazione non è un belvedere. “Un possibile nuovo choc recessivo per l’Italia, associato a un rallentamento europeo e a segnali di un certo tipo che arrivano dalle urne… Qualcuno, anche a Bruxelles, si è allarmato”, dice Sergio De Nardis, economista di Nomisma. Anche così si spiega “il percorso potenzialmente in conflitto con la Commissione” avviato dal governo Renzi che rinvia il pareggio di bilancio strutturale al 2017 e conta (per trovare circa 11 miliardi) sull’aumento del deficit nel 2015 dal 2,2 al 2,9 per cento del pil. Le regole europee per stringere i bulloni della finanza pubblica, tra cui il noto Fiscal compact, furono finalizzate tra 2011 e 2012: allora Bruxelles e i mercati dicevano con una sola voce che il default degli stati era possibile ed era necessario un segnale. Due anni dopo, con un “whatever it takes” di Mario Draghi alle spalle che ha placato lo spread, i vincoli austeri di Bruxelles non sono cambiati, ma Fmi, analisti e agenzie di rating hanno cambiato musica: l’ortodossa Berlino se ne faccia una ragione, la crescita viene prima di tutto. I dati di contesto contano, dunque, poi c’è il quid di spavalderia connaturato al premier rottamatore: “Renzi fin dall’inizio ha insistito sullo ‘sviluppo’ – dice Paolo De Ioanna, economista che ha coperto ruoli di governo e ai vertici della Pa – Ora, per la prima volta rispetto agli ultimi due governi, l’effetto netto della legge di stabilità sarà espansivo e non riduttivo”.

“La forza politica di Renzi è un ingrediente di questa finanziaria di cui non si può non tenere conto”, aggiunge De Nardis. Così, mentre ieri l’Abi (Associazione bancaria italiana) rompeva tutti gli indugi sull’idea del tfr in busta paga, si registra pure un cambiamento di tono della Confindustria che giudica “un sogno” il tris composto da stabilizzazione del bonus di 80 euro, abbattimento dell’Irap per 6,5 miliardi e decontribuzione sui nuovi contratti a tempo indeterminato. Le risorse per fare tutto ciò e pagare le spese indifferibili, oltre che nel deficit (11 miliardi) e nella consueta lotta all’evasione fiscale (3 miliardi), si troveranno in tagli alla spesa per oltre 15 miliardi. Cifra monstre pure questa per i nostri standard, da recuperare tra regioni, enti locali, ministeri e acquisti di beni e servizi della Pa. Se la spending review non basterà, ed è probabile, il governo procederà con tagli lineari. Il Parlamento capirà, dicono spavaldi nell’esecutivo. Altrimenti toccherà far scattare le clausole di salvaguardia (leggi: aumenti di tasse). E sarà proprio così, secondo autorevoli “gufi”, che alla fine si troverà invece una risposta alla domanda di cui sopra: ma com’è possibile che oggi Renzi i soldi li trova, e nemmeno pochi?

Carta vince, carta perde

Carta vince, carta perde

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Evviva, evviva: Matteo Renzi sfascia l’austerità, taglia le tasse di 18 miliardi, regala soldi alle imprese, infila la liquidazione in busta paga ai dipendenti, conferma gli 80 euro, favorisce le assunzioni, c’è perfino qualcosa per le partita Iva. Tutti felici e tutti grati al premier e al Pd: un utile consenso, casomai arrivassero presto le elezioni.

Qualche obiezione però dovrebbe essere lecita. Primo: le coperture sono, come sempre, all’italiana. Oltre 11 miliardi arrivano dall’aumento del deficit: come dire che la copertura non c’è. Ma visto che ormai siamo tutti keynesiani, chiudiamo un occhio. Però ci sono i tagli: non ai tanto odiati “sprechi”, visto che il commissario alla revisione Carlo Cottarelli è stato licenziato e il suo lavoro sepolto negli archivi. No, si taglia (poco) sui ministeri e (molto, 6,2 miliardi) su Regioni ed enti locali: solo chi è in malafede può sostenere che ci sia ancora grasso da asportare. Dopo quattro anni in cui lo Stato centrale ha sottratto oltre 40 miliardi a Regioni e Comuni, ogni ulteriore stretta ridurrà i servizi, visto che le tasse non si possono più alzare senza rivolte di piazza (anche se il ministro Padoan è favorevole a un aggravio delle imposte locali).

L’austerità è ottusa, non c’è dubbio. E va ridiscussa perché non sta funzionando. Ma ancora una volta l’Italia viola i suoi impegni, oggi su debito e domani sul deficit, e non per finanziare investimenti che creino la base della crescita dei prossimi anni, ma per una versione rinforzata della deludente “operazione 80 euro”. Legittimo, ma il crollo delle Borse di ieri sulle voci di elezioni anticipate e di rigetto del rigore in Grecia dimostra quanto fragile è la tregua concessa dallo spread. Spendere in deficit e sbertucciare Bruxelles è facile. La parte difficile è affrontare le sanzioni europee – ormai certe – e l’eventuale furia dei mercati. Oltre a quella dei cittadini, se dovessero scoprire che i regali della politica sono prestiti con tasso di interesse da usura.

Una frustata chiamata Irap

Una frustata chiamata Irap

Il Foglio

Matteo Renzi ha annunciato un progetto strutturale di grande importanza, ossia l’abolizione dell’Irap sui costi del lavoro, che consentirebbe di togliere di mezzo una tassazione dei costi di produzione che va pagata anche dalle imprese che sono in perdita. L’onere di questa abrogazione sarebbe complessivamente di 6,5 miliardi, secondo i calcoli del Sole 24 Ore. Ma ciò comporterebbe di immaginare che venga abrogato lo sgravio dello scorso anno, che dovrebbe valere circa 2,5 miliardi. E probabilmente ciò ancora non basterebbe, dato che attualmente il gettito sul lavoro dell’Irap è attorno ai 12-13 miliardi.

C’è. dunque. nell’immediato, un problema di copertura. Ma la linea che viene adottata è quella giusta e potrebbe essere completata in un biennio, anziché in un anno, con effetti equivalenti, purché il provvedimento sia reso certo e non sia coperto con imposte sul contribuente italiano, ma con una riduzione delle spese o con privatizzazioni e condoni che sterilizzano l’effetto negativo sul pil, generando un rientro di entrate permanenti (come nel caso degli accordi sul rientro di capitali tenuti in Svizzera). Una volta abrogata la tassazione dei costi del lavo- ro con l’Irap ci sarà il problema di dare alle regioni un contributo equivalente, da destinare alla spesa sanitaria, senza però aumentare l’ammontare dei contributi sociali. Cio puo avvenire togliendo da quelli nazionali, le aliquote che non hanno una base nel diritto a pensioni o indennità di malattia oppure invalidità. L’Irap rimanente è un tributo sul reddito, detraibile per gli accordi internazionali sulla doppia imposizione.

Questa riforma, così, può avere un importante effetto sugli investimenti in Italia da parte delle imprese multinazionali il cui carico fiscale risulterà così ridotto sia sul lavoro sia sul profitto. E, allo stesso modo, favorirà il mantenimento in Italia delle produzioni di servizi di lavoro qualificato, come ad esempio quelli dei centri manageriali e di ricerca, delle attività finanziarie e delle aziende che producono beni di qualità che maggiormente contribuiscono alle esportazioni, come molte dell’elettronica e della meccanica. Certo, rimangono ancora interrogativi a cui rispondere a partire da quello sull’onere da coprire e sul modo di finanziario. Ma la spinta strutturale alla crescita con occupazione può essere molto rilevante grazie alla mossa di Renzi.

Tagliamo le imposte, ma per tutti

Tagliamo le imposte, ma per tutti

Carlo Lottieri

La proposta avanzata da Matteo Renzi in tema di fisco, con il progetto di ridurre per tre anni le imposte azzerando i contributi a chi assuma nuovi dipendenti, sta riscuotendo successo: anche in ambienti culturali lontani dalla maggioranza di centro-sinistra oggi al governo. C’è però da chiedersi se non vi sia qualche falla in questa maniera di procedere.
Un punto è chiaro e fuori e discussione: le imposte vanno ridotte. È necessario che lo Stato si ritragga, tagliando le spese, e che in tal modo sia possibile abbassare la pressione fiscale senza sfasciare ancor più i conti pubblici con altro debito. Ma è giustificabile una politica che privilegi, in questo caso, le aziende che decidono di assumere nuovi dipendenti a scapito delle altre?
L’intenzione è positiva, perché non c’è dubbio che rimanere senza lavoro è qualcosa di tragico ed è giusto fare il possibile perché chiunque abbia una vera chance di essere produttivo: di mettersi al servizio dei bisogni degli altri. Nondimeno una simile misura suscita qualche perplessità.
In primo luogo, essa è discriminatoria. L’impresa che ha assunto un anno fa non godrà del beneficio tributario riconosciuto a quanti si sono presi in azienda altri dipendenti dopo l’approvazione della norma: e questo comporta due conseguenze. Una sul piano della giustizia (perché due aziende sono trattate in maniera differente solo perché una ha assunto prima e l’altra dopo) e l’altro sul piano della competitività, dal momento che l’azienda che assume solo all’indomani dell’approvazione della norma può fare prezzi inferiori a quella che aveva assunto in precedenza.
In secondo luogo, questa scelta può modificare il comportamento degli amministratori delle aziende, ad esempio portandoli ad assumere invece che a rinnovare i macchinari, e non è detto che sia una scelta economicamente ragionevole (capace, insomma, di soddisfare al meglio i consumatori). Se vi sono norme che mi inducono ad assumere invece che utilizzare altrimenti le mie risorse, è possibile che io assuma anche quando altre iniziative sarebbero state migliori.
In fondo, tutto si riassume nella pretesa dei governanti di “indirizzare” le scelte delle imprese private. Ma non è in questo modo che cresce un’economia libera. Sarebbe allora molto meglio che la riduzione del prelievo fiscale, se mai si farà, sia fatta senza dividere tra figli e figliastri: senza aiutare chi investe e chi non, chi assume e chi non, chi esporta e chi produce per il mercato interno, e così via.
Un ordine economico di libero mercato non nasce dalla programmazione di politici che orientano le scelte degli individui, ma quale risultante delle decisioni di quanti (imprenditori, dipendenti, consumatori, ecc.) sono in condizione di poter decidere della propria vita e dei propri beni. Ben venga quindi un vero taglio al prelievo fiscale e, assieme a questo, anche un dimagrimento dell’apparato pubblico. Ma se si riuscisse a togliere ogni elemento dirigistico (e con esso l’illusione che la politica possa creare occupazione) sarebbe molto meglio.