Matteo Renzi

Mai prima d’ora

Mai prima d’ora

Davide Giacalone – Libero

Va di moda il “non si era mai fatto prima”. Si è passati dal cronoprogramma sincopato alla più lunga maratona dei mille giorni, passo dopo passo. Il che potrebbe essere salutato come un approdo al realismo, se non fosse che ad ogni passo ci viene chiesto di credere che “non si era mai fatto prima”. E neanche mi preoccupa la pretesa, in sé infantile, ma che molti, specialmente fra i politici teleparlanti, mostrino di crederci. O addirittura ci credano. Perché questa non è semplice mancanza di memoria, ma ignoranza allo stato brado.

Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, ebbe a dire che i suoi governi avevano realizzato più cose di tutti quelli precedenti, dalla nascita della Repubblica a quel momento. Boom! La sparata era talmente tonante che non sarebbe neanche stato necessario metterla in dubbio, eppure non passava giorno, anzi non passava ora senza che si sostenesse e facesse valere, su ogni mezzo di comunicazione, una corbelleria eguale e contraria: non ha fatto nulla e nulla sta facendo. Salvo gli affari suoi, naturalmente, perché questo voleva e vuole la vulgata luogocomunista. Insomma: Berlusconi non era certo immune dal dirle tonde, ma cadevano su un terreno vaccinato, se non prevenuto. Ora mi preoccupa una certa predisposizione al contagio della balloneria.

Mai prima d’ora si erano fatti sgravi fiscali. No, se ne sono fatti diversi. Se proprio serve indicarne uno: la cancellazione dell’Ici sulla prima casa, poi replicata con l’Imu, sotto il governo Letta. Ed era appena ieri. Solo che gli sgravi si sono fatti, ma la pressione fiscale continuava a crescere, come ora. Mai prima d’ora s’era messo mano alla Costituzione. No, lo si è fatto un sacco di volte. Purtroppo. Ma mai prima d’ora s’erano diminuiti i parlamentari. Certo che lo si è fatto, solo che il partito il cui segretario oggi crede d’essere il primo, il Pd, allora volle un referendum per cancellare la diminuzione. Lo stesso referendum che servì a far cadere la riforma della pessima riforma del Titolo quinto della Costituzione, che ora è condannata da chi la votò, mentre è reclamata la riforma da chi la affossò. Già, ma mai prima d’ora ci si era dedicati al bicameralismo paritario. Eccome, tanto che nella Costituzione del 1948 non c’era. Solo che a difenderlo era quella sinistra che ora crede d’essere la prima a detestarlo. Mai prima d’ora s’erano messi dei soldi nelle tasche degli italiani. Certo che lo si fece, ad esempio con la social card (osservo che la criticai per la stessa ragione per cui ho criticato gli 80 euro, il che dimostra che non solo non è la prima volta, ma facciamo le stesse cose da troppo tempo). Mai prima d’ora s’è pensato di rivoluzionare la scuola e la giustizia. Ci hanno pensato tutti, fin troppo spesso, solitamente con idee più chiare di quelle fin qui presentateci dai primatisti. Mai prima d’ora s’era messo in discussione l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ne parliamo da quaranta d’anni ed è stato riformato due anni addietro, mentre la delega alla riforma è vuota.

Potrei continuare, ma temo di arrivare ad essere contagiato anch’io, concludendo che: mai prima d’ora si sono detti tanti sfondoni. Me lo risparmio, perché sarebbe una bella gara. Faccio solo osservare che le non raffinate menti di quelli che guardano alla sostanza, nonché i grossolani figuri della Commissione europea tendono ad attenersi alle regola di Totò: è la somma che fa il totale. E se fra di addendi ci si mette i proventi della lotta all’evasione fiscale, pretendendo che sia la prima volta nella storia, va a finire che si ricordano d’averla già sentita. Così che se si dice di voler diminuire i premi delle lotterie, va a finire che qualcuno s’accorge che trattasi di prelievo fiscale. E presto gli sovverrà che non è la prima volta, ma l’ennesima.

In compenso ora, per la prima volta, leggeremo il testo della legge di stabilità, non dovendola desumere da un fiume d’interviste contraddittorie. La studieremo senza prevenzione alcuna. Se conterrà cose mai viste prima, ne daremo atto. Se ci vedremo conti che tornano sopravvalutando le entrate e sottovalutando le uscite, rimandando tutto alla prima trimestrale di cassa, a tutto penseremo, tranne che alle novità.

L’ora degli esami per il premier

L’ora degli esami per il premier

Michele Brambilla – La Stampa

Domani il governo approverà la manovra. Vedremo come sarà. Da essa dipenderà, certamente, il futuro della nostra economia (almeno per i prossimi mesi): ma, probabilmente, anche quello del premier. Matteo Renzi sta infatti governando grazie a una formidabile apertura di credito ricevuta da una parte del Paese ben più numerosa di quella riferibile all’elettorato del suo partito. C’è tutto un mondo che per la prima volta, alle scorse europee, ha messo la ics sul simbolo del Pd nella convinzione che Renzi sia l’uomo giusto per dare il via a una serie di riforme di stampo liberale. Questo mondo finora ha dimostrato di saper aspettare, di non pretendere da Renzi, in pochi mesi, risultati che altri non hanno conseguito in decenni. Ma quanto durerà la pazienza? Insomma quanto durerà questa «apertura di credito»?

Prendiamo il Veneto, esempio perfetto. Da sempre è stato un feudo del centrodestra: nel 2010, Pdl e Lega insieme raggiunsero il 59 per cento. Quest’anno, in maggio, alle europee il centrosinistra ha vinto per la prima volta. Il Pd ha toccato il 37,52 per cento, contro il 21,6 di appena un anno prima (alle politiche): da solo, ha avuto più consensi di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Ncd messi insieme. Non occorre un mago dei flussi elettorali per comprendere che una simile rivoluzione ha un nome e un cognome: Matteo Renzi. Il leader di centrosinistra che, alle orecchie degli imprenditori del Nord-Est, finalmente parla il loro linguaggio, e non quello di una vecchia sinistra, che è poi quella che ieri a Bergamo l’ha contestato.

Nei giorni di quell’exploit renziano, Luca Zaia disse: «La luna di miele tra Renzi e il Veneto finirà prima che arrivino le regionali». Ebbene, in questi giorni la Swg ha fatto un sondaggio appunto sulle prossime regionali, che si terranno in primavera, e i numeri direbbero che Zaia è in vantaggio di quindici punti sulla probabile candidata del centrosinistra, Alessandra Moretti, che pure nel maggio scorso, alle europee, aveva preso 230.000 preferenze, un’enormità. Non solo: il sondaggio darebbe il Pd attorno al 30 per cento, sette punti in meno rispetto a cinque mesi fa. Vero che il sondaggio è stato commissionato dalla Lega: ma il direttore scientifico della Swg, Enzo Risso, ha detto ieri al quotidiano L’Arena di Verona che un lavoro analogo gli è stato commissionato anche dal Pd, facendo capire che i risultati sono gli stessi.

Ora, è fin troppo banale sottolineare che le elezioni europee sono una cosa, e le regionali un’altra; che Zaia ha un seguito personale fortissimo, eccetera. Ovvio. Tuttavia, è innegabile – come filtra da ambienti di Confindustria Veneto – che tra gli imprenditori un po’ di impazienza cominci a circolare: «Renzi è venuto più volte qui in Veneto facendo grandi promesse, ora deve stare attento a non deluderle. La sua idea sul Tfr in busta paga, ad esempio, ha fatto venire molti mal di pancia». «Tra gli elettori passati dal centrodestra a Renzi comincia a montare qualche insofferenza», conferma Francesco Jori, scrittore veneto, autore di saggi sulla Lega. L’ex sindaco di Oderzo Bepi Covre, uno degli imprenditori leghisti che hanno votato per Renzi, dice che continua ad avere fiducia nel premier, ma pure che un cambio di passo non è rinviabile: «Il Pil Veneto nel 2014 sarà del più 2,5: come la Germania. Ma la media del Paese porterà a un meno 0,3 o 0,4: è chiaro che non si possono dare le stesse medicine per malattie diverse. Il governo deve restituire competitività alle piccole e medie imprese abbassando il cuneo fiscale. Più soldi in busta paga e meno tasse». Ieri a Bergamo Renzi ha promesso agli imprenditori proprio questo: meno tasse, almeno per chi assume. Non solo in Veneto, ma in tutta Italia, c’è tutto un mondo che lo giudicherà sulle sue parole.

Renzi alla conquista delle imprese

Renzi alla conquista delle imprese

Stefano Menichini – Europa

Dalle tartine confindustriali Matteo Renzi si tiene lontano, ma ormai è chiaro chi siano i veri referenti dello sforzo comunicativo nel quale impegna se stesso in persona. Da settimane il premier batte gli stabilimenti industriali, quelli afflitti dalla crisi e quelli salvati da oculate scelte di nicchia, quelli enormi come la Fiat Chrysler e quelli più piccoli in Puglia o nel Bergamasco. Dopo la prova di forza sull’articolo 18, le contestazioni dirette organizzate dalla Fiom hanno preso il posto delle proteste legate a situazioni locali. Ma Renzi non si fa dissuadere, la campagna continua e agli operai si rivolge in maniera indiretta, attraverso i loro datori di lavoro: sono loro, gli imprenditori piccoli, medi e grandi, il target del tour renziano. E del resto sono loro, messa in sicurezza l’operazione 80 euro, i destinatari delle misure della legge di stabilità e del decreto sblocca-Italia. E, di nuovo, sono loro – con artigiani, commercianti, professionisti – il bacino elettorale fin qui irraggiungibile per la sinistra nel quale il Pd sta crescendo negli ultimi mesi secondo le ricerche più aggiornate.

Le anticipazioni sulla legge di stabilità fornite ieri a Bergamo faranno discutere per tre motivi. Perché le cifre sono ingenti, 30 miliardi di euro di manovra ma con ben 18 miliardi di tagli di tasse rispetto allo scorso anno: dove saranno reperite le risorse? Poi perché il testo è in realtà lontano dall’essere completato, ancora oggetto del consueto andirivieni tra palazzo Chigi e ministero dell’economia. Infine, perché le indicazioni di Renzi appaiono decisamente pro-business, orientate a soddisfare antiche e recenti richieste delle imprese (innanzi tutto sul taglio dell’Irap per la parte legata al lavoro) in cambio dello sblocco delle assunzioni, con l’obiettivo di muovere un mercato molto più fermo di quanto il governo sperasse ancora agli inizi dell’estate. Tre anni di totale decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato causeranno uno stress alle casse previdenziali: è lo shock che Renzi ritiene necessario, misure più blande non hanno sortito effetti. Il menu delle misure è condito dalle spezie anti-establishment e anti-burocrazia: imprenditori veri quelli che danno il buon esempio, non quelli che partecipano ai seminari; le opere di manutenzione del territorio che danno più lavoro agli avvocati che ai manovali (come a Genova). È il preannuncio di nuovi tormentoni utili a far passare il messaggio. Il Jobs Act pare già alle spalle, come cosa fatta.

Il piccone di Renzi e la verità dei fatti

Il piccone di Renzi e la verità dei fatti

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Il premier Matteo Renzi, vicino alla volata finale del semestre europeo a timone italiano che oggi ospita a Milano il vertice sul lavoro, s’affaccia sul curvone decisivo. Dove non può fare errori di guida sulla strada promessa del cambiamento. Riforma del lavoro, Legge di stabilità, confronto in Europa. Sono le tre emergenze che si incrociano sullo sfondo di una congiuntura europea in peggioramento, Germania compresa. E lo scontro tra la Bundesbank, contraria alle politiche innovative della Bce, e il Fondo Monetario, che sollecita la Bce in senso inverso, alimenta tensioni e incertezze. In ogni caso, l’Italia non può contare sulla sola ciambella monetaria per tirarsi fuori dai guai.

Renzi porta a Milano l’elenco delle riforme messe in campo in questi mesi, la ripresa del confronto con sindacati e imprese, l’approvazione in un ramo del Parlamento della delega per la riforma del mercato del lavoro. È un passaggio importante, che buca un muro di conservatorismi diffusi ed è possibile che la Cancelliera Angela Merkel metta sul piatto un incoraggiamento usando una parola che le è cara in questi frangenti: “impressionante”. Ma “impressionante” lo sarà davvero, nei fatti, se al momento-chiave della stesura dei decreti non ci saranno compromessi al ribasso, articolo 18 compreso. “Impressionante” sarà la manovra del governo se la Legge di stabilità abbasserà le tasse sul lavoro in modo percepibile e comprimerà le spese. “Impressionante” sarà il risultato se l’oggetto del desiderio dei governi, il Tfr, entrerà nelle tasche dei lavoratori senza procurare danni alle imprese medio-piccole.

Un muro bucato non è un muro crollato. Se usato bene, il piccone di Renzi, in Italia come in Europa, può molto. Ma non tutto. Perché i cambiamenti si misurano con i fatti e con i numeri, molti dei quali mancano oggi all’appello della ripresa. E perché l’economia reale si muoverà se ne saranno convinti i protagonisti, a partire da famiglie e imprese. Il loro sostegno è decisivo, e non c’entra la “concertazione”. Qui si tratta anzi di nuotare in mare aperto, ciascuno con le sue braccia e le sue idee, ma nella stessa direzione.

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Franco Bechis – Libero

Quei poverelli delle piccole e medie imprese italiane ce l’hanno ancora lì che campeggia sul loro portale web: facciona di Matteo Renzi e titolo «Debiti PA, Renzi shock: 60 miliardi in 15 giorni». La data era quella del 26 febbraio scorso. Le povere imprese che da lunghi mesi attendevano dallo Stato i pagamenti loro dovuti, ci avevano creduto. E si capisce: il nuovo presidente del Consiglio nel suo discorso per ottenere la fiducia alle Camere aveva detto: «Il primo impegno è lo sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione». Poi era apparso a Ballarò, intervistato all’epoca da Giovanni Floris, e lì aveva annunciato il famoso intervento shock: «La Spagna l’ha fatto da 50 miliardi di euro. Io penso di più: 60». In quanto tempo? «Il tempo di preparare un emendamento: Diciamo due settimane».

Non è andata così, e lo sanno bene i creditori dello Stato. Quella promessa resterà la più famosa, anche perché è la prima e più clamorosa tradita da Renzi premier. In corsa ha tentato di correggere la rotta, e da Bruno Vespa aveva allungato i termini di quelle due settimane, spostate al «21 settembre giorno di San Matteo. Se mantengo la promes-sa, lei Vespa che è scettico andrà a piedi in pellegrinaggio da Firenze a Monte Senario. Se non la mantengo, so dove mi mandano gli italiani». La promessa non è stata mantenuta, ma il 21 settembre Renzi ha sostenuto il contrario, poggiandosi sulla lentezza dei conteggi della pubblica amministrazione, che erano fermi a metà luglio. Ora sono usciti i dati aggiomati al 22 settembre scorso, e il bluff del premier è stato tragicamente svelato a chiunque voglia andarselo a leggere sul sito Internet del ministero dell’Economia e delle Finanze. Con una possibilità in più: i dati sono relativi ai primi otto mesi esatti del govemo Renzi. E sono perfettamente comparabili con quelli degli ultimi otto mesi del governo guidato da Enrico Letta, perché è proprio in quel periodo che sono iniziati i primi pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese. E il raffronto che Libero oggi è in grado di offrire ai suoi lettori è impietoso per il governo attuale. Perché Letta è stato due volte e mezzo più veloce e più efficace di
Renzi.

Ecco i numeri. Ad oggi nel bilancio dello Stato – grazie all’emissione di nuovi titoli di Stato dedicati – sono stati stanziati per pagare i crediti delle imprese con la pubblica amministrazione 56,839 miliardi di euro. Una cifra comunque inferiore ai 60 miliardi promessi da Renzi, ma non di molto. Solo che l’83,63% di questa somma, pari a 47,539 miliardi di euro, era già stata stanziata da Enrico Letta prima del ribaltone a palazzo Chigi. Quei soldi erano già tutti quando Renzi ha fatto le sue promesse in Parlamento e a Ballarò. Quindi non potevano fare parte dei 60 miliardi promessi, che avrebbero dovuto essere nuovi pagamenti. In otto mesi Renzi ha stanziato invece solo 9,3 miliardi di euro, pari al 16,37% dello stanziamento totale. Avere stanziato soldi non basta, però. Oltre a metterli in bilancio aumentando il debito pubblico italiano, bisogna anche metterli a disposizione di ministeri ed enti locali che sono poi quelli che materialmente debbono saldare i debiti che hanno con le imprese italiane per le commesse ricevute in passato. Di quei 56,839 miliardi stanziati solo 38,4 miliardi sono stati messi a disposizione degli enti pubblici che dovevano pagare entro il 22 settembre scorso.

Ma anche questa cifra racconta solo in parte. Perché i debiti effettivamente saldati sono ancora meno: a quella data, dopo 16 mesi (8 di Letta e 8 di Renzi) i pagamenti effettivamente avvenuti ammontavano a 31,3 miliardi di euro. Di questi Letta ne ha effettuati durante il suo governo 22,430 miliardi, e cioè il 71,67% (quasi i tre quarti) dei pagamenti totali avvenuti. In otto mesi i soldi arrivati alle imprese grazie a Renzi sono appena 8,87 miliardi di euro, pari al 28,33% dei pagamenti totali. In media il governo Letta ha pagato debiti alle imprese per 2,8 miliardi al mese. Il governo Renzi per 1,1 miliardi al mese, quindi a velocità due volte e mezza inferiore al predecessore. Dei due è Matteo il premier lumaca, Letta al suo confronto sembrava Usain Bolt, il primatista mondiale dei 100 e 200 metri…

Sul Jobs Act Renzi ha dimostrato di essere un politico navigato

Sul Jobs Act Renzi ha dimostrato di essere un politico navigato

Sergio Soave – Italia Oggi

L’iniziativa messa in atto da Matteo Renzi sulla riforma del lavoro sembrava destinata a infrangersi sugli scogli delle intransigenze filosindacali di una parte consistente del gruppo democratico e delle simmetriche rigidità del Nuovo centrodestra, che ha bisogno di dimostrare di essere influente sulle scelte più delicate. Per giunta la materia è abbastanza scivolosa, perché per esempio basta allargare i casi discriminatori coperti dal reintegro obbligatorio a una fascia ampia di licenziamenti disciplinari, e si torna di fatto alla situazione precedente, mentre, dall’altra parte, la definizione degli incentivi per le assunzioni dei giovani se non sono ben calibrati rischiano di mortificare strumenti che sono risultati assai utili altrove, come l’apprendistato, senza compensazioni adeguate. La scelta di una delega ampia è lo strumento adeguato, ma perché non venga appesantita da emendamenti che ne delimitano troppo le potenzialità, è indispensabile imporre una disciplina di voto alla maggioranza con una richiesta di fiducia che ha due effetti coincidenti, imporre alla minoranza democratica che non è orientata a una scissione un voto favorevole e evitare un vistoso appoggio determinante di Forza Italia, che farebbe apparire irrilevante il contributo di Ncd. Renzi è riuscito a manovrare abilmente e sembra che alla fine otterrà proprio questo risultato, rinviando poi alla stesura delle norme delegate la discussione vera sugli aspetti più complessi della riforma del lavoro.

Questo fatto conferma che il premier sa utilizzare con consumata maestria gli strumenti politici di partito per poi trasferirne gli effetti nel confronto parlamentare, che non è affatto rozzo o inesperto come viene dipinto (e ama egli stesso farsi dipingere). La vera debolezza risiede nella capacità di affrontare nel merito i nodi che imbrigliano l’economia e la società italiane, e sarebbe utile che chi ha le competenze necessarie le impiegasse per aiutare non il governo ma il Paese che oramai sembra boccheggiare in attesa di qualche innovazione reale che ristabilisca un minimo di fiducia. Se le rappresentanze delle parti sociali, i tecnici dell’economia e del diritto, i commentatori capaci di incidere sull’opinione pubblica, perderanno questa occasione di essere utili, anche con richiami critici naturalmente purché attinenti alle difficoltà reali, rischiano di finire anch’essi nell’irrilevanza. Da questo punto di vista l’atteggiamento rissaiolo della Cgil, isolata dagli altri sindacati del lavoro e dell’impresa che cercano punti di contatto e di dialogo, è un gran brutto segno per la sinistra sindacale.

Il deficit di Renzi

Il deficit di Renzi

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

La decisione improvvisa e unilaterale del governo francese di avere per due anni in più uno sforamento del 3 per cento nel rapporto deficit/pil, attestandolo sopra il 4 per cento, dimostra non solo la crisi in cui si dibatte l’Unione europea e in particolare l’Eurozona ma anche una sorta di fallimento del semestre italiano ormai agli sgoccioli. Tutti sapevano delle crescenti tensioni sulle politiche economiche e di bilancio di Bruxelles e Renzi, in qualità di presidente di turno, avrebbe dovuto convocare una riunione dei capi di stato e di governo per affrontare per tempo la delicata questione in termini concreti incardinandola come priorità nell’agenda di lavoro. In realtà il governo italiano, focalizzato sui rapporti tra l’Italia e Bruxelles, ha perso di vista la dimensione comunitaria delle tensioni che si stavano accumulando. Dopo la svolta francese tutto sarà più complicato per l’Europa e per l’Italia. Anzi, forse, sarebbe utile rallentare anche alcune partite già in dirittura d’arrivo come l’Unione bancaria che presenta non pochi aspetti problematici. Ma ciò che accade in Europa accade anche in Italia, e cioè una incertezza crescente sulle politiche sinora perseguite e su quelle annunciate.

Forse per qualcuno è stata una sorpresa la Nota di aggiornamento del documento finanziario approvato dal governo per i tragici numeri emersi sulla crescita sulla occupazione e sui conti pubblici, ma per noi è stata solo una conferma di ciò che diciamo da mesi. Anzi il governo non ha detto tutta la verità! Non è vero che alla fine dell’anno la crescita del prodotto interno lordo sarà ne- gativa solo per lo 0,3. Se dovesse intervenire un miracolo forse ci fermeremo a 0,5/0,6 ma deve cambiare il vento nell’ultimo trimestre e le previsioni non sono in quella direzione. La stessa cosa vale per la striminzita crescita prevista dal governo per il 2015 (+0,6) che inizierà con l’effetto di trascinamento negativo del 2014. Il pareggio di bilancio si allontana nel tempo sino a scomparire all’orizzonte e il debito continuerà a salire (il governo pre- vede di far scendere il rapporto debito/pil di uno 0,1 cioè niente) mentre il rapporto deficit/pil si dovrebbe mantenere al 3 per cento grazie alla ricchezza prodotta dalla prostituzione e dalla economia illecita e criminale. Da venti anni l’economia italiana non cresce e da ventidue anni èe affidata esclusivamente a tecnici di indubbio valore ma che con la politica economica hanno scarsa dimestichezza. Anche per l’economia vale quel vecchio aforisma di Georges Clemenceau secondo il quale la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari.

Ciò che vogliamo dire è che da venti anni manca una visione di politica economica e di politica industriale, pur essendo l’Italia il secondo paese manifatturiero dell’Europa dietro la Germania. Abbiamo la netta impressione che anche il governo Renzi si sia avviato su questa strada, al di là dei fuochi di artificio sull’articolo 18 e sulle tante riforme ordinamentali messe in pista. Renzi ha una forza politica che altri governi non avevano, per contingenze oggettive e per le modalità con le quali ha conquistato prima il Pd e poi il governo, ma rischia di sciuparla per non avere l’umiltà di capire e di operare dopo aver capito. Una cosa è il consenso e la popolarità, altra cosa è l’arte del governare che richiede visione non onirica, strumenti di conoscenza della macchina dello stato e dei processi economici e una squadra all’altezza. Così non è stato e Renzi ha sbagliato l’agenda di lavoro anticipando le riforme istituzionali a quelle economiche.

Per spiegarci meglio, è come se si volesse curare in pronto soccorso un uomo ferito da uno sparo affrontando prima la sua epatite cronica e poi aggredendo la ferita sanguinante. Il tutto avendo, peraltro, un partito alle spalle che ha due anime profondamente diverse. Bisogna dare atto a Renzi di non nascondere questa diversità genetica, tanto da dire nel dibattito in direzione che lui è un cattolico liberale. Musica per le nostre orecchie, ma cosa ci fa un cattolico liberale alla guida di un partito iscritto al Partito sociali- sta europeo? Certo, vi sono sempre stati socialisti cattolici (vedi Jacques Delors) ma in quegli uomini il termine cattolico non era una cifra politica ma solo la testimonianza di una fede religiosa. Ed è anche vero che il cattolicesimo politico ha nel suo Dna un’idea riformatrice e progressista ma profondamente diversa dal socialismo democratico. Di qui, dunque, la debolezza strutturale nell’azione di governo. Davvero Renzi ritiene di fare uscire l’Italia dal tunnel della recessione o della crescita bassissima nella quale è stata relegata da 20 anni con 10-15 mld di euro da spendere e mettendo in busta paga una parte del tfr, come si appresta a fare con la prossima legge di stabilità? Non scherziamo col fuoco. L’Italia è in grande affanno e l’idea che si possa uscire dalle difficoltà gettando la furia popolare contro gli stipendi alti a cominciare da quelli delle Camere che sono un “unicum” nelle società nazionali è un altro errore, perché accanto all’applauso vociante emerge la triste direzione di marcia: siamo tutti più eguali nella povertà.

Per dirla in maniera semplice: o si aggredisce il debito con una manovra finanziaria straordinaria recuperando decine di miliardi dalla spesa per interessi che oggi vanno alla finanza nazionale e internazionale, per darli all’economia reale, o lentamente il paese morirà e i suoi asset migliori saranno acquistati da quanti si sono riuniti qualche giorno fa riservatamente in un albergo di Milano per discutere sugli acquisti migliori da fare nel nostro paese a prezzi stracciati. Per fare operazioni di questo genere, però, non servono tecnici ma politici che abbiano visione e coraggio per chiamare la grande ricchezza nazionale a uno sforzo congiunto e salvare il paese e con esso la ricchezza che gli italiani hanno prodotto nel corso di tanti decenni, battendo nemici come il terrorismo e l’inflazione a due cifre e mantenendo intatto quel profilo democratico senza il quale non si va molto lontano.

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Quasi certamente il terzo vertice europeo sul lavoro, che si terrà domani a Milano, non sarà diverso da quelli di Berlino e Parigi che l’hanno preceduto. Parole, impegni vaghi e poi silenzio più o meno pneumatico. Liturgie pubblicitarie utili a chi le celebra: che sia Matteo Renzi, Angela Merkel o François Hollande poco cambia e cambierà per i 26 milioni di disoccupati europei, giovani e non. La soluzione dei loro problemi, infatti, per ora non potrà che essere nazionale e solo in misura marginale targata Ue: anche perché le risorse del bilancio comunitario sono scarse e sempre più insufficienti a coprire il divario tra presunte politiche comuni e risorse disponibili.

Per questo il vero vertice di Milano si giocherà sull’ennesimo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della crescita, tra Germania e nordici da una parte, Francia e Italia dall’altra. La tensione della vigilia è altissima: la Merkel richiama all’ordine i renitenti ai sacrifici, Hollande le risponde picche sull’impegno a portare dal 4,3% attuale al 3% il deficit nel 2015 ma per questo rischia di vedersi bocciata a Bruxelles la legge di bilancio. E Renzi denuncia la vetustà delle regole vigenti pur affermando che non intende violarle, anche se a sua volta difficilmente riuscirà a far fronte alla tabella di marcia europea su conti pubblici e riforme strutturali.

Il tutto mentre si fa sempre più pressante e preoccupato l’allarme della Bce di Mario Draghi sulla crescita europea sempre più fragile e la deflazione che non passa. I dati congiunturali continuano purtroppo a dargli ragione. Ieri il turno degli ordini tedeschi all’industria, crollati in agosto del 5,7% su base mensile, il peggior scivolone dal 2009, con punte del 9,9% fuori dall’Eurozona e una caduta del 2% in Germania. Naturalmente le crisi russo-ucraina e mediorientale hanno dato il loro contributo negativo ma è soprattutto la debolezza dei partner euro a frenare la locomotiva tedesca. Se il buon senso prevalesse sulle profonde diffidenze reciproche e se tutti i protagonisti della partita facessero seriamente la loro parte, la soluzione dei malanni europei sarebbe possibile e anche a portata di mano.

Con un surplus dei conti correnti che supera ampiamente il tetto del 6% massimo previsto dalle regole Ue, Berlino oggi dispone dei margini finanziari per aumentare la spesa e rilanciare la domanda interna ed europea ma non intende usarli: ufficialmente perché conta di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015, nella realtà perché convinta che, allentando la pressione sui Paesi recalcitranti, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato, inducendoli a fare ancora meno del poco o niente che oggi sono disposti a fare. Malfidenza eccessiva e ingiustificata? È difficile considerare Francia e Italia dei campioni di affidabilità: troppe promesse non mantenute, troppi immobilismi e competitività perduta, troppe divergenze economiche accumulate in un’unione monetaria che non può permettersene più di tanto se non vuole diventare ingovernabile.

Detto questo nessuno oggi, nemmeno la nuova Commissione Juncker che si insedierà il 1° novembre, sembra in grado di aiutare a uscire dal pericoloso impasse nel quale l’Eurozona senza crescita rischia di affondare. Ad ascoltare la pantomima delle audizioni parlamentari dei commissari che si susseguono in questi giorni, più che la generale consapevolezza della grande emergenza economico-sociale da affrontare e risolvere al più presto, si percepisce il solito gioco degli equivoci, degli equilibrismi impossibili, delle ambiguità europee senza fine. Non si capirebbe altrimenti come mai Pierre Moscovici, il socialista francese che fino a poco tempo fa prometteva di impugnare le bandiere della crescita e dell’occupazione a nome di tutta la sinistra europea, tenti ora di accreditarsi come il convinto paladino del rigore e delle regole Ue, come se da ministro delle Finanze non fosse stato proprio lui a ignorarli a ripetizione, con i noti risultati. Né si capirebbe Valdis Dombrovskis, il vice-presidente e falco collaudato che comunque ne controllerà da vicino le mosse, il quale sia pure con gran fatica prova a “colombeggiare” chiosando sulla futura dimensione sociale dell’Europa pur ripetendo che la crescita sarà il prodotto delle riforme e che comunque «nessuna legge impedisce agli Stati membri di uscire dall’euro». Cosa attendersi del resto dal premier lettone che ha portato il suo Paese nella moneta unica tagliando il Pil del 20% in 3 anni, i salari pubblici della stessa percentuale e le pensioni del 10%? Non si capirebbe nemmeno come mai il presidente Jean-Claude Juncker abbia promesso in luglio un piano europeo per la crescita da 300 miliardi che però, a quanto pare, punterà su capitali privati, niente fondi nazionali freschi e risorse “riciclate” tra quelle già allocate al bilancio Ue?

Le smentite a questi dubbi e confusioni di intenti naturalmente saranno più che benvenute, se ci saranno come si spera. L’Europa non può permettersi di ignorare ancora a lungo i suoi problemi. L’impatto con la realtà, troppo a lungo snobbata e travisata, potrebbe infatti riservarle, prima o poi, pessime sorprese.

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Non c’è solo il patto del Nazareno a dettare tempi e condizioni del cambiamento. In economia è l’accordo raggiunto tra il premier ed i n. 1 della FCA, Sergio Marchionne, a imporre il ritmo di marcia. Patto di Detroit, si potrebbe chiamare l’intesa siglata tra il boyscout di Firenze e il manager italo-canadese. Un’intesa che punta dritta al cuore dei problemi italiani: far saltare tutti gli intermediari ormai inutili, oltre che eccessivamente costosi, nella gestione dell’economia contemporanea. E tra questi c’è sicuramente la Confindustria, dalla quale Marchionne è già uscito da un paio di anni.

La lobby confindustriale, così come è ancora organizzata, non serve più perché è solo un frenatore del cambiamento e un luogo per parrucconi desiderosi di comparsate a Ballarò o da Bruno Vespa. La velocità del business vero è altrove, non più, da anni, in Viale dell’Astronomia. Così Renzi e Marchionne hanno deciso di procedere all’unisono per rottamare Confindustria. Su art. 18, tfr in busta paga, sul primato della contrattazione aziendale per rilanciare la produttività, sulla lotta all’Irap, sulle molte riforme nell’agenda del governo l’amministratore delegato della Fiat sarà al fianco di Renzi. L’obiettivo è quello di dare all’Italia un capitalismo moderno, con relazioni meno intermediate da poteri sempre meno rappresentativi del mondo del lavoro e di quello dell’impresa perché forgiati nella logica della concertazione a tutti i costi e, soprattutto, autoconvinti di essere l’ombelico del mondo. I templari delle riforme, i guardiani del cambiamento che senza il loro via libera non può farsi realtà.

Renzi e Marchionne vogliono condurre il capitalismo italiano oltre la concertazione e la palude dei negoziati a oltranza e della rappresentanza, sempre più marginale, che ha potere di veto. Oltre lo status quo che ha fatto raggiungere alla disoccupazione giovanile la soglia record del 44,2% e fatto arretrare il pil di 10 punti. L’Italia della concertazione del ‘900 non ce la può fare a tenere i ritmi imposti dalla globalizzazione e dall’eurozona germanizzata. Questo per Marchionne è un concetto chiarissimo; Renzi se lo sente ripetere ogni volta che varca le Alpi. Via, dunque, il fardello Confindustria dalle spalle sempre più gracili del capitalismo del Belpaese, perché la lobby degli imprenditori deve diventare moderna e occidentale. Non più un troppo ambizioso contropotere politico ma una organizzazione capace di seguire bene le poche policy di cui è tenuta ad occuparsi. Anche stavolta Renzi ha scelto con arguzia il suo alleato, perché nessuno meglio di Marchionne incarna nel mondo il volto dell’Italia che lavora 16 ore al giorno e che non si rassegna mai alla sconfitta. E con il suo supporto la rottamazione di Confindustria è cosa già realizzata e i prossimi mesi serviranno solo a registrarlo.

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Qualsiasi intervento sul Tfr sarà volontario e a costo zero per le imprese. Parola del governo. Alla vigilia dell’incontro con i sindacati ai quali il premier Matteo Renzi vuol far digerire il Jobs Act mettendo sul tavolo come compensazione l’anticipo delle liquidazioni sugli stipendi, si moltiplicano i messaggi rassicuranti soprattutto alle imprese che rischiano di più da questa operazione. Così prima il ministro dell’Interno Alfano e poi il viceministro all’Economia, Enrico Morando, hanno ribadito che se l’intervento andrà in porto, verrà «fatto in modo che per la liquidità delle imprese risulti neutrale e per i lavoratori non aumenti il prelievo Irpef. E comunque sarà volontario». Tra le opzioni sul tavolo anche quella di dare una compensazione alle imprese attraverso i nuovi prestiti della Bce alle banche.

Ma al di là delle rassicurazioni, resta il sospetto che il governo voglia acquisire al fisco maggiori risorse per finanziare gli 80 euro e renderli stabili. L’esperienza della Tasi che non avrebbe dovuto portare maggior onere fiscale rispetto alla vecchia Imu e che invece si è tradotta nell’ennesima batosta, è un precedente che induce a guardare con sospetto alle promesse del governo. Dai calcoli dei Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro emerge che mettere nelle buste paga il Tfr significa per i lavoratori un maggior reddito pari a circa 40 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 50%), circa 62 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 75%) e circa 82 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 100%). Il Tfr maturato ogni anno è circa 21,451 miliardi di euro. Non c’è solo il problema di privare le aziende di liquidità ma anche di asciugare la fonte principale della previdenza integrativa a cui ogni anno vengono destinati 6 miliardi del Tfr. Il dibattito si è scatenato. «La soluzione dell’anticipo del Tfr a costo zero per le aziende, paventata dal governo, è tutta da verificare» afferma il deputato di Forza Italia Luca Squeri. Per Stefania Prestigiacomo sempre di FI, «darebbe solo un colpo di grazia al Paese». Michele Perini, presidente della Fiera di Milano, lancia l’allarme: «Sarebbe un guaio grandissimo per le finanze imprenditoriali che utilizzano quella liquidità anche per far funzionare il sistema». E lancia l’alternativa: «Si può semmai discutere di Tfr futuro ma con un accesso al credito al 2,75%».