nicola porro

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri il direttore generale della Banca d’Italia ha detto che la nostra ricchezza nel primo trimestre di quest’anno dovrebbe crescere. Salvatore Rossi ha anche sostenuto che potrebbe essere il primo di una serie di dati positivi che ci potrebbero accompagnare fino al 2016. Meglio di niente. Ma è ancora presto per brindare.

Prima considerazione. Tra il 1995 e il 2007 l’Italia è cresciuta ad un tasso medio dell’1,5 per cento. Poi, dopo la crisi americana dei subprime, il disastro (con una relativa calma nel biennio 2010-2011). Si può dire che dal 2008 al 2014 abbiamo bruciato ricchezza per più di 300 miliardi, tra mancata crescita e la riduzione del Pil vera e propria. Roba da far tremare i polsi. Fortunatamente gli italiani hanno accumulato, forse proprio grazie al debito pubblico, un’enorme ricchezza privata. Che oggi stanno usando per tamponare la crisi. Per recuperare questo salasso dovremmo crescere ad un tasso del 2,5 per cento annuo per i prossimi venti anni. Neanche uno stuntman del gioco d’azzardo ci metterebbe un euro sopra. Insomma è difficile pensare che quel che abbiamo perso si possa recuperare nel medio periodo. I tassi di crescita di cui si parla in Bankitalia (o quelli più ottimistici del governo) sono più vicini all’1 per cento che al 2. E per di più nessuno scommette che ciò possa avvenire ininterrottamente per i prossimi 80 trimestri (cioè i venti anni di cui sopra).

Seconda considerazione. Ci sono delle congiunzioni astrali piuttosto buone a saperle sfruttare. Intanto il cambio euro-dollaro (compresi i cross con il franco svizzero e le molte monete che molleranno tra poco) è sceso a livelli che rende molto competitiva l’industria italiana. E ciò avviene proprio nel momento in cui comprare petrolio (cioè energia per far girare le fabbriche) è particolarmente conveniente. Il combinato disposto di euro svalutato (come una liretta qualsiasi) e petrolio sotto i 50 dollari rappresenta un sogno per chiunque produca nel Belpaese. Nel passato alla svalutazione della nostra moneta corrispondeva un incremento della bolletta energetica. A ciò si aggiunga una tenuta dei prezzi (addirittura si parla di deflazione) che potrebbe essere manovrata per il verso giusto. Ops. Dimenticavamo: mai come in questo periodo i tassi di interesse sono stati ridicolmente bassi.

Sintesi finale. Quel che manca è un catalizzatore. Un lievito per far girare tutto nel verso giusto. Gli ingredienti sono buoni, di prima qualità. E sette anni di recessione (con alti e bassi) hanno spinto in giù la molla della nostra economia, pronta a scattare. Serve fiducia. La parola magica. Fiducia dei consumatori che riprendano a spendere, e fiducia delle imprese che riprendano a investire. Sergio Marchionne ha fatto entrare proprio ieri, a Melfi, 300 nuovi operai. Può essere un primo segnale. La politica, il governo deve alimentare un percorso virtuoso, fatto di regole certe (per investire), meno burocrazia (per lavorare) e meno tasse (per competere). La politica non può far molto perché le fabbriche producano meglio, ma purtroppo ha fatto davvero troppo perché esse si fermino. Quel che ora manca è dunque un elemento impalpabile ma pesantissimo.

Le tasse dei politici e quelle di chi lavora

Le tasse dei politici e quelle di chi lavora

Nicola Porro – Il Giornale

Una pena è giusta se proporzionata al reato commesso. È un principio banale, che gli italiani hanno insegnato al mondo, ma che da anni dimenticano alla ricerca del gesto esemplare. Ciò avviene per due spinte contrapposte: quella dei cosiddetti conservatori, poco indulgenti verso i reati comuni, e quella dei progressisti, assatanati (forse per reazione) per i crimini dei colletti bianchi. Entrambi gli schieramenti si trovano però insieme nella legislazione di emergenza: succede un qualche disastro e i nostri eroi rispondono con pene esemplari alla ricerca del capro espiatorio e per allontanare da sé l’ombra della responsabilità e dell’inattivismo.

In Italia una bottega del barbiere rischia di essere sottoposta alla stessa disciplina di uno stabilimento dell’Eni nello smaltimento dei propri rifiuti. Una piccola impresa deve seguire le stesse procedure sulla sicurezza di un’industria siderurgica. Ovviamente per rispondere a disastri ambientali del passato e a fobie ambientaliste del presente. O per contrastare morti sul lavoro sull’onda di un fatto di cronaca. Oggi l’emergenza sono i nostri conti pubblici in rosso che si ritiene siano dovuti agli evasori fiscali (una favola), giù quindi a bastonare i presunti tali con norme micidiali. I politici, inoltre, si considerano dei fenomeni, stanno lì sui loro banchi e pensano che cittadini e imprenditori non possano sbagliare una virgola: applicano ai più piccoli il rigore che si ritiene dovuto ai più grandi che, proprio per le dimensioni, si possono (ancora per poco) permettere uffici e staff che controllano la correttezza burocratica e cartacea di tutto.

Vedete, questa settimana non si è parlato d’altro che del codicillo introdotto nella delega fiscale e che prevedeva la non procedibilità penale per chi commettesse evasioni fiscali inferiori al tre per cento dell’imponibile. Una norma ispirata al buon senso. Così come tutta la legge resta di buon senso, con numerose depenalizzazioni.

La legge delega approvata dal Parlamento prevedeva appunto un ritorno alla proporzionalità tra illecito e sanzione. Un certo eccesso di delega si può senz’altro riscontrare, poiché la previsione del tre per cento si applica anche alle frodi realizzate con la predisposizione di documenti falsi. E nell’articolo 8 della legge sembra proprio che questa previsione non sia contenuta. Resta il punto di sostanza. Si pensi al caso in cui un’azienda commetta un errore di competenza economica, o si deduca costi non inerenti (la questione come ben sanno le mini partite Iva è sempre opinabile) o ancora dichiari un reddito inferiore a quello contestato sulla base di una interpretazione diversa dell’amministrazione, ma anche al caso di omessa dichiarazione di redditi conseguiti in tutti questi casi, le polemiche apparse in questi giorni sono assurde, visto che dimenticano che l’evasore che viene pizzicato paga le imposte, gli interessi e le sanzioni amministrative. Questo famigerato articolo l9bis prevede addirittura, con una norma assai severa, che le sanzioni amministrative siano raddoppiate nei casi in cui opera la non punibilità penale. Il rischio, semmai, è che non si vada in galera, ma al tribunale fallimentare.

È fuori luogo parlare di un’area di impunità. C’è chi ad esempio fa il parallelismo con il rapinatore che sarebbe autorizzato a derubare senza sanzione penale se il bottino non fosse superiore al 3 per cento della cassa: ci si dimentica però che per la rapina, a differenza dell’evasione, non c’è una sanzione pari ad un multiplo del bottino (di regola da una a due volte le imposte evase), multiplo che l’articolo 19 bis prevede espressamente di raddoppiare (da due a quattro volte). Cosa è peggio per un presunto o potenziale evasore? Sapere che dopo qualche anno potrebbe finire per qualche mese in carcere o vedere sequestrati, in attesa di giudizio,i proventi dei suoi illeciti con gli interessi?Ma, soprattutto, cosa fa più comodo alle casse dello Stato, che tutti dicono di volere risanare?

Su questa norma è nato un putiferio legato alla questione Berlusconi, che se ne avvantaggerebbe. Sono fatti che «inzigano» i retroscenisti politici. Quello che qui vogliamo sottolineare è il riflesso condizionato dei nostri politici. Che non si rendono conto di come il mondo per gli invisibili sia diverso da come se lo raccontano loro. L apiù straordinaria è la deputata civatiana (sì, esistono anche loro) Lucrezia Ricchiuti, che ha subito proclamato: «In pratica questo codicillo ha detto che più sei ricco e più puoi evadere». Ma questa parlamentare sa che già oggi ci sono delle soglie di non procedibilità penale? E lei, come i tanti che le si sono associati, sa che anche per una piccola impresa avere accertamenti superiori al 3 per cento del proprio imponibile, purtroppo non è cosa rara?

Ps: si dice nei tam tam del Palazzo che tutta la delega fiscale, una corposa normativa, sia stata concordata con l’Agenzia delle entrate. E quest’ultima ha fatto subito sapere che alcune norme di depenalizzazione non le piacciono. Viene da chiedersi se sia così assurdo prevedere nel futuro che le leggi fiscali siano fatte dai politici con il consenso, la consultazione e le legittime pretese dei contribuenti e non dei loro esattori. Il governo deve seguire i desiderata delle sue agenzie prima di fare le norme o le richieste dei cittadini-contribuenti-elettori? Che ne pensa ad esempio di ciò l’onorevole, sottosegretario all’Economia, Zanetti, che nella sua passata vita da commercialista ha fatto tante rigorose battaglie contro i pregiudizi degli uffici governativi e fiscali?

Usare il bancomat non è più reato

Usare il bancomat non è più reato

Nicola Porro – Il Giornale

Negli ultimi 10 anni esagerare con il Bancomat era davvero rischioso. Non tanto perché si rischiava di finire in rosso in banca, quanto perché si era certi di finire soffritti dall’Agenzia delle entrate. Facciamo un passo indietro. Gli uomini di Attilio Befera (oggi è stato sostituito come ben sapete da Rossella Orlandi) nei confronti dei tanto odiati lavoratori autonomi, e in particolare dei professionisti, si erano dotati di un bazooka. Chiunque dal primo gennaio del 2005 si fosse permesso di utilizzare il Bancomat avrebbe dovuto dimostrare a chi erano destinati i contanti. Una roba da pazzi. Ma credeteci, vera. In caso di accertamento, gli uomini del fisco si presentavano dal lavoratore con un foglio elettronico con su scritti tutti i Bancomat e prelievi cash fatti negli ultimi cinque anni. In modo del tutto arbitrario sostenevano che una percentuale potesse essere giustificata dal tenore di vita e dalle spese più spicce (sigarette, caffè, mance che si possono presumere pagate in contanti), ma sul resto era necessaria una prova dell’utilizzo da parte del povero contribuente. Una prova chiaramente diabolica. Ma ancora più diabolico era l’atteggiamento del fisco.

Mettiamo che il poveraccio avesse prelevato, in cinque anni, 10mila euro (ma per un reddito medio potrebbe essere ben di più) e che gli uomini del fisco gli abbuonassero 4mila euro. Il resto, e cioè 6mila euro, veniva considerato dal fisco come ricavo aggiuntivo, non dichiarato e dunque evaso, da parte del lavoratore autonomo. Secondo il principio che il nero genera il nero (cosa peraltro vera), per dieci anni professionisti e autonomi hanno pagato imposte su prelievi fatti con il Bancomat di cui non sono stati capaci di giustificare l’utilizzo. Se uno sprovveduto, dotato di buon reddito e sicuro di essere fiscalmente a posto, si fosse azzardato a giocare e perdere a poker o fare regali in contanti a sue amiche (sì, certo, non molto elegante, ma saranno fatti suoi) o a parenti o a figli, per più di 50mila euro l’anno, rischiava addirittura di finire in carcere per superamento delle soglie di evasione ai fini della rilevanza penale. Ai signori del fisco si dovevano giustificare anche le mance, se cospicue. Insomma, un inferno fiscale. E soprattutto un principio da Stato di polizia.

Ovviamente chi è stato colpito da simili indagini ha fatto ricorso. Ma la Cassazione per una buona serie di casi ha dato ragione all’impostazione del fisco. In effetti, dal punto di vista legale, l’Agenzia era blindata da un codicillo contenuto nella Finanziaria del 2005 (governo Berlusconi). Fino a quando un contribuente si è rivolto alla Commissione tributaria regionale del Lazio che, nel 2013, bontà sua, si è rimessa addirittura alla Corte costituzionale dubitando della legittimità di questa norma, che anche a un bambino sembra folle. Siamo così arrivati ai giorni nostri e alla decisione della Corte che, pochi giorni fa, con la sentenza numero 228, ha giudicato incostituzionale la procedura e questa diabolica presunzione legale. Evviva. Sono passati solo dieci anni. E molti professionisti hanno già subito la gogna dell’evasione e pagato la sanzione conseguente. Finalmente un giudice, a Roma, ha stabilito che quell’assurda presunzione sui prelievi di contanti come costituzione di ricavi in nero sia stata lesiva del principio di ragionevolezza e capacità contributiva.

Alla fine viene da pensare sulla qualità del percorso legislativo in questo Paese. E qualche brivido corre lungo la schiena pensando all’ultima finanziaria (ora si chiama legge di Stabilità). Siamo piuttosto certi che l’idea di tassare la liquidità prelevata con i Bancomat non sia stata un’idea di Silvio Berlusconi all’epoca al governo. Eppure sono dieci anni che professionisti e autonomi pagano per questa scellerata previsione normativa.

All’interno della Finanziaria del 2005 fatta di un solo articolo e 572 commi, al comma 402 era previsto: le parole da «a base delle stesse» alla fine del periodo sono sostituite dalle seguenti: «o compensi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni». Non state a perderci la testa: arabo. All’epoca, c’è da giurarci, l’astrusa previsione normativa fu presentata dagli uffici ministeriali come norma fondamentale per combattere l’evasione fiscale. E giù tutti ad applaudire. Ecco, quando vi dicono, come purtroppo si scrive anche nell’ultima legge di Stabilità, che sono previste nuove e più dure norme per combattere i furbetti, state certi che la fregatura è per tutti.

Lo sforzo di restituire (un po’) il maltolto

Lo sforzo di restituire (un po’) il maltolto

Nicola Porro – Il Giornale

Sulla prima finanziaria di Matteo Renzi si deve dire ciò che vale per ogni legge di Bilancio. Non esiste una formula miracolosa: il giorno dopo sono tutti dei fenomeni a consigliare il meglio per il paese. Spesso sono gli stessi, che con o senza responsabilità, fino al giorno prima hanno attuato o proposto il peggio. Governare i conti dell’Italia spa è un casino. Per i vincoli interni ed esterni che ci sono. Non parliamo solo dell’Europa, ma provate voi a trattare con i tecnici della Ragioneria o con le leggi che trascinano i loro effetti pluriennali senza che si possa modificare una virgola. Vabbé questa è filosofia. Andiamo al dunque. La manovra è tosta, da 36 miliardi. E, aspetto fondamentale, non è ideologica. Non è figlia di un pregiudizio politico. Una rarità per la sinistra: almeno sulla carta questo resta un governo di sinistra, o no? Per farla semplice semplice si compone di tre capitoli.

Il primo è la riduzione della spesa pubblica. Per una cifra monstre di 15 miliardi. Una buona parte a carico degli enti locali e specialmente le regioni. Non giriamoci troppo attorno, si tratta di tagli lineari belli e buoni. Ovviamente, soprattutto a livello locale, si stracceranno le vesti. Abbiamo già dato, sosterranno. È vero. Ma non siamo più nelle condizioni di andare per il sottile: occorre affamare la Bestia. E se questa prova a comprarsi un po’ di biada alzando ancora le imposte locali, saranno guai. Il rischio che si sindaci e presidenti di regione si rifacciano alzando le loro aliquote ovviamente c’è. È forse questo un buon motivo per astenersi dall’imporre loro nuovi tagli? Secondo noi, no. Lo stato deve dimagrire, regioni ed enti locali pure. Il principio è semplice così come i privati si sono arrangiati a spendere di meno e pagare di più, il pubblico si arrangi almeno a spendere di meno.

Il secondo capitolo riguarda i tagli fiscali. La cifra totale è di 18 miliardi, di cui la gran parte (10) per il bonus degli 80 euro rivolto alle sole fasce più deboli della popolazione con contratto di lavoro dipendente. Si tratta di un déjà vu , che abbiamo già criticato. Aiutare la classe medio bassa, e per di più solo una parte di essa, non aiuta i consumi. Come si è visto. Ovviamente, a questo punto togliere l’incentivo avrebbe però creato un effetto boomerang. La vera novità è aver inserito circa 7 miliardi di euro a beneficio delle imprese. In questo momento si devono aiutare loro. Il problema è dare una mano a chi assume. Il taglio dell’Irap e la defiscalizzazione delle nuove assunzioni (sommato alla riforma del lavoro che si prevede di chiudere nel giro di un anno) è cosa buona e giusta. Chiunque può trovare il pelo nell’uovo, ma ci troviamo finalmente nella condizione di criticare gli aspetti di dettaglio di un taglio fiscale invece che a commentare l’ennesima imposta creativa.

Piccola parentesi su questo aspetto. Come ha magistralmente scritto ieri Guido Tabellini: questo non è proprio il momento di incentivare le famiglie al risparmio. Le banche sono gonfie di liquidità, anche privata. Il problema oggi è spendere. L’idea di mettere a disposizione la liquidazione (anche se il vizietto di farci cassa tassandola con aliquota ordinaria il governo se lo poteva risparmiare) è sacrosanta. Solo uno Stato socialista e paternalista si preoccupa dell’insipienza dei propri sudditi nell’utilizzare i propri quattrini. Chi opterà per avere subito in busta paga il proprio tfr avrà le sue buone o cattive ragioni, e non sta ai burocrati deciderle. Ritornando dunque alla tesi di Tabellini, il combinato disposto degli 80 euro, del tfr in busta paga e delle defiscalizzazioni per le imprese agisce tutto nel verso giusto: stimolo ai consumi più che al risparmio. Se vogliamo fare i sofisti (ma evidentemente mancavano i soldi) la vera mossa per far ripartire la macchina sarebbe stata quella di dare un po’ più di ossigeno all’edilizia. Negli ultimi due anni le sciagurate tasse introdotte da Monti e Letta hanno trasferito 40 miliardi dai privati allo Stato e soprattutto hanno convinto gli italiani che la casa più che un rifugio è un debito. Una pazzia. È la mancanza più grossa di questa finanziaria. Nel nostro personale libro dei sogni sarebbe stato meglio togliere il bonus degli 80 euro e utilizzare quei 10 miliardi per la proprietà edilizia.

Infine il terzo capitolo. Parte di questa manovra (circa 11,5 miliardi) non è finanziata da maggiori tagli di spesa o da maggiori entrate, ma è finanziata a debito, aumentando il deficit. Tutto rimanendo nella soglia famigerata del tre per cento, ma rallentando il processo di risanamento che vorrebbero in Europa. Bene. Non perché sia positivo fare deficit: esso rappresenta un’ipoteca sul futuro. Oggi paghiamo le scelleratezze dei nostri padri e nonni che si sono ubriacati a botte di Krug facendo pagare il conto alle generazioni che seguivano. In un periodo di profonda recessione come questa e con prezzi in calo, fare i Mandrake del rigore è da drogati. Inoltre l’aumento del deficit non sembra dovuto a nuove leggi di spesa, ma a riduzioni fiscali. Se prendiamo un veleno, lo si faccia in modiche quantità e a fin di bene.

Il giudizio complessivo su questa manovra (anche se molti dettagli non di poco conto sono ancora da studiare) è che nei suoi saldi ha cercato di affamare la Bestia e restituire un po’ di maltolto ai sudditi.

Come fare danni semplificando

Come fare danni semplificando

Nicola Porro – Il Giornale

Tutti dicono che vogliono semplificare. È la parola d’ordine. Il problema è che la politica e gran parte della burocrazia sono talmente lontani dalla realtà che spesso le semplificazioni fanno più danni che altro. Non ci credete? Tra poco vi porteremo un caso tipico, concreto, reale. Il punto fondamentale resta di principio: lo Stato ci tratta come sudditi, predisposti alla truffa, e dunque da regolare con decreti minuziosi. È la dittatura della norma. La bestia statuale non molla mai la presa anche quando finge di farlo. Ma andiamo al dunque.

Alla fine degli anni ’80 viene approvata una leggina (la Tognoli) che, tra le altre cose, prevede di realizzare parcheggi interrati su terreni pubblici o privati non edificabili, purché siano vincolati a una casa privata (a distanza non maggiore di un chilometro). In pratica, come fosse una cantina o una soffitta Questo per evitare fini speculativi di investitori che comprassero a tappeto box auto per poi riaffittarli lucrandoci sopra. Beh, insomma, non si può pretendere troppo: la speculazione in un Paese socialista è fumo negli occhi. La seconda condizione è che sul terreno soprastante venga realizzato un parco (con alberi, panchine, verde attrezzato da sottoporre a preventiva autorizzazione del Servizio Giardini) a destinazione pubblica, indipendentemente dal fatto che il terreno sia pubblico o privato. Una legge che sembra avere un senso: il costruttore guadagna, si crea lavoro, si tolgono macchine dalla strada, l’acquirente ha la possibilità di smettere di pagare affitti o impazzire a cercare parcheggio, lo Stato incassa le tasse di tutti quelli che ci lavorano e guadagnano. Il tutto a costo zero da parte del Comune o del contribuente. Non sono previste agevolazioni, finanziamenti: nulla.

Purtroppo abbiamo cercato, un paio di anni fa di semplificare la legge. Sbandierando tale obiettivo il governo ha eliminato il limite di un chilometro, estendendolo a tutto il Comune. Un’idea geniale: chi diavolo si metterà a comprare un box auto a più di un chilometro in linea d’aria dalla propria abitazione per parcheggiare un’auto? Poco male, si dirà: norma inutile, ma non dannosa. Sennonché, la medesima legge di semplificazione ha stabilito che il costruttore prima di ottenere la concessione debba obbligarsi davanti a un notaio a vendere non più a generiche persone, ma a soggetti precisi che vanno indicati in atto. Insomma,occorre per ogni box indicare nome, cognome del futuro acquirente e i dati catastali dell’immobile cui vincolarlo.

Una roba da pazzi. Significa andare sul mercato senza avere neppure il Permesso di Costruire e trovare acquirenti disposti a impegnarsi all’acquisto di un bene futuro che non solo è da costruire, ma per il quale mancano le autorizzazioni. Ovviamente nessuno si impegnerà a una pazzia del genere. I costruttori sono costretti a chiedere a mamma, a nonna, amici e parenti di prestarsi alla farsa di promettere l’acquisto, con l’accordo non scritto che non compreranno mai e che, quando verrà trovato l’acquirente vero, loro rinunceranno all’opzione in favore del cliente finale. Il quale si insospettirà di questo strano passaggio e magari deciderà di non comprare un bel niente. Un bel modo per aiutare un settore in crisi. All’interno del raccordo anulare di Roma (la città che ha maggiori problemi di parcheggio) il prezzo medio di un box sotterraneo è intorno ai 20mila euro. In genere i recuperi dalla Tognoli riguardano aree che (compreso il bagno per i disabili) possono ospitare un massimo di una ventina di parcheggi. Insomma, si tratta di un business che vale meno di mezzo milione di euro. Non esattamente roba da «Sacco di Roma». Eppure trattiamo questa materia come se si stesse urbanizzando la laguna di Venezia.

Ps. Nel centro di Milano a duecento metri dal Duomo, esattamente in piazza Cordusio, ci sono tre enormi palazzi praticamente deserti. Un ex quartier generale di Unicredit e le Poste lo sono già. Anche la sede delle Generali in un futuro prossimo potrebbe andare a occupare il suo grattacielo a Citylife. Si tratta di più di 100mila metri quadrati di immobili a disposizione, vuoti. Nel caso di Unicredit ancora affittati. In un Paese normale si progetterebbe un futuro per quest’area gigantesca e centrale. Si coinvolgerebbero grandi investitori internazionali. Si permetterebbe loro di esporre progetti anche diversi dal semplice utilizzo degli spazi come uffici (la morte civile oggi). Ecco, si farebbe tutto ciò. Invece Milano (e l’Italia) preferisce andare appresso alle palle antimoderniste dell’Expo a chilometri zero e no-ogm.

Così facciamo morire le nostre imprese

Così facciamo morire le nostre imprese

Nicola Porro – Il Giornale

L’ultimo caso è certamente quello più clamoroso. Perché riguarda l’Eni, una delle poche multinazionali italiane. Per di più coinvolge il suo attuale numero uno e il predecessore. Insomma il top delle aziende italiane, con il top dei suoi vertici. La vicenda è nota. La Procura di Milano indaga su presunte tangenti che sarebbero state pagate al governo nigeriano per l’esplorazione di un nuovo pozzo. Un caso simile ha riguardato nei mesi scorsi un altro big della manifattura, parapubblica: Finmeccanica. In quel caso fu addirittura arrestato il vertice operativo dell’azienda e aperta una pericolosa, per Finmecca, procedura che avrebbe potuto portare anche al suo commissariamento. L’ipotesi di reato anche in questo caso era la corruzione internazionale. La terza reginetta delle nostre imprese ex monopoliste, e cioè l’Enel, ha una lunga serie di problemi giudiziari legati all’inquinamento che sta coinvolgendo anche i vertici. I suoi ex amministratori sono stati condannati in primo grado a tre anni di carcere.

Le cose non è che vadano molto meglio nel campo privato, anche se, tranne casi clamorosi, si crea minore clamore. Basti pensare all’Ilva, una delle più grandi aziende siderurgiche d’Europa e una delle poche in Italia a reggere la concorrenza, fatta fuori per via giudiziaria. Senza uno straccio di sentenza definitiva. Alla Fiat, dove con l’arrivo di Marchionne hanno deciso di farsi solo gli affari loro, stanno scappando dall’Italia. Solo la Cgil-Fiom l’ha portata davanti al Tribunale del lavoro per un centinaio di cause, i cui esiti sono differenti l’uno dall’altro. Telecom è, grazie al cielo, fuori da questo tourbillon giudiziario (l’incredibile caso con Scaglia si è chiuso solo pochi mesi fa). Ma in compenso il governo e la politica non hanno alcuna intenzione di perdere la presa. Basti pensare alla separazione della rete: un fiume carsico che all’occorrenza esce dal sottosuolo.

Cosa vogliamo dimostrare con questa superficiale e incompleta lista dei guai giudiziari e degli interessi politici sulla nostra corporate Italia? Una cosa semplice. Se nel passato la cultura anti industriale e anti impresa emergeva alla luce del sole, era ideologica, legittima, manifesta e organizzata, oggi tutto ciò esiste ancora, ma è più subdolo. Non c’è più nessuno che apertamente ce l’abbia con l’Eni, ma sono in molti che a casa nostra godono delle sue disgrazie. Oggi Renzi difende i vertici del Cane a sei zampe, ma ieri pretendeva che si inserisse una norma nel suo statuto che decapitava i vertici al solo iniziare di un’indagine. Per fortuna che l’assemblea non l’ha votata contro il parere del governo.

Si dice sempre che in Italia non sarebbe mai potuta nascere la Apple perché la Asl avrebbe fatto chiudere il garage dove fu inventata. La verità è che oggi in Italia non potrebbe nascere neanche l’Eni di Mattei. All’epoca c’era un impasto fatto di politica, media, sindacati e istituzioni che si sentiva classe dirigente e che aveva un progetto per il Paese. E lo difendeva ad ogni costo. Oggi siamo vittime dell’ultimo interesse legittimo e schiavi di ogni ordine costituito. Non c’è un potere, ma piccoli poteri intoccabili. A parole diciamo tutti che vogliamo la ripresa, più Pil e più occupazione. Ma poi soccombiamo a quella sottocultura anti industriale per cui ripresa, Pil e occupazione si possono fare solo per decreto e grazie all’intervento dei funzionari pubblici.

Esageriamo? Ma per carità. Il virus della norma e dell’intervento pubblico e sanzionatorio è ormai diffuso a tutti i livelli. A parte la coraggiosa direttrice generale, Marcella Panucci, la Confindustria, che dovrebbe rappresentare le imprese, soprattutto quelle più grandi, ha paura anche della sua ombra. Nessuno (a parte la solita Panucci) ha fiatato sull’allucinante e pervasivo potere di commissariamento che ha in mano il pm Cantone con la sua Authority anticorruzione. Roba da socialismo reale. E chi ha il coraggio di dire che l’inasprimento del reato di falso in bilancio, che si sta studiando in queste ore, è una follia; che l’autoriciclaggio è invenzione rischiosa per i privati. Chi ha il buon senso di dire che aver reso penalmente rilevante la sola ipotesi di evasione (o elusione, o abuso di diritto) di imposta superiore a 50mila euro in un Paese con la nostra giustizia, vuol dire consegnarsi mani e piedi alla burocrazia fiscale?

Sì sì cari vertici industriali: continuate a parlare di legalità nei vostri convegni. Fate delle belle agenzie di stampa con la vostra indignazione per l’evasione fiscale. Scappate come dei conigli davanti a Finmeccanica o Eni indagate e prima di loro davanti alla Fastweb di Scaglia. Alimentate la vostra invidia verso quel brusco (e sicuramente spregiudicato, pace all’anima sua) Capitano di impresa che era Emilio Riva. E non capite che siamo tutti sulla stessa barca. Fa acqua da tutte le parti. E voi state lì a dettare il regolamento, le norme e le eventuali sanzioni su come evacuarla in caso di falla. Che è già grande come una voragine.

Più poveri e più tassati

Più poveri e più tassati

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana il governo darà via al cosiddetto Sblocca Italia. Nomi altrettanto evocativi sono stati dati a decreti precedenti. Nonostante ciò l’Italia è ferma al palo. Il governo Renzi ha fatto un passo in più rispetto ai predecessori: ha restituito agli italiani (o meglio solo a una certa fascia ben identificata) 10 miliardi di euro, in forma di riduzione fiscale. Non è poco. Eppure il Pil, il nostro reddito, è diminuito.

Purtroppo il motivo è semplice: gli italiani non si fidano più. Cerchiamo di essere un po’ più specifici. Ogni riduzione fiscale dovrebbe generare una maggiore propensione media al consumo. E per questa via creare maggiore prodotto e reddito. Si spende di più, le aziende così vendono e assumono. La riduzione fiscale di Renzi (prevista anche per gli anni prossimi) serve a poco per il Pil e molto per chi comunque la incassa e gode di un extrareddito disponibile. Non alimenta la nostra produzione per due ragioni di fondo.

La prima la spiega il presidente della Confedilizia nelle pagine interne. Le diverse patrimoniali sulla casa ci hanno reso più poveri per duemila miliardi. La seconda è che (come dimostra il dibattito estivo) siamo incerti sul futuro fiscale che ci attende: nuove imposte, varate dai passati governi, ma solo oggi in vigore, contributi vari sulle pensioni, riforma delle regole sulle detrazioni fiscali rendono lo scenario tributario a 12-18 mesi fosco. Ebbene nessuna riduzione fiscale avrà mai un effetto positivo sulla produzione se chi ne gode si sente, al tempo stesso, più povero e in prospettiva più tassato.

Si può uscire da questa impasse ? La prima strada è quella di riscrivere un contratto fiscale con gli italiani (tutti, senza distinzione di censo) dicendo loro che le patrimoniali sugli immobili verranno riportate alla situazione pre 2011. Prendiamo atto che quelle imposte hanno impoverito gli italiani più di quanto abbiano arricchito lo Stato. Si dovrebbe poi concentrare lo sforzo di riduzione fiscale sulle imprese. L’elargizione degli 80 euro a dieci milioni di italiani (come bene aveva previsto nel 1958 Milton Friedman) ha un effetto moltiplicatore sul Pil molto inferiore di quello che avrebbe una riduzione fiscale più forte a un milione di imprese.

Economisti da rottamare

Economisti da rottamare

Nicola Porro – Il Giornale

A un certo punto negli Stati Uniti fu varata una legge che obbligava ad installare i cosiddetti airbag in tutte le auto. Solo una pattuglia di libertari, un po’ pazzi, si dissociò. Uno di loro ebbe l’intuizione definitiva: se proprio non volete incidenti montate sui volanti delle auto, al posto dell’airbag, un coltellino che si conficchi nel petto in caso di urto. Tutti saranno portati a una guida iper prudenziale. Si tratta di un paradosso, ma anche di una provocazione: gli incentivi individuali contano più delle norme.

Sono le idee anticonvenzionali (come quelle di Keynes o Friedman per i loro contemporanei) a generare le svolte. Non il tran tran degli economisti burocrati. Insomma è necessario rottamare il pensiero condiviso degli economisti. Occorre una nuova generazione, nuove intuizioni, ricette clamorose. Nulla di personale. Ma gli ultimi economisti al governo ci hanno raccontato ciò che già sapevamo e che già non aveva funzionato. L’economia italiana muore per tanti motivi e per un solo grande colpevole: l’ingombrante presenza dello Stato. O almeno non abbiamo la prova contraria: e cioè non sappiamo come andrebbe se ci fossero meno leggi, meno regole e meno tasse. Insomma, fatecelo provare.

Abbiamo bisogno di una grande rottamazione culturale delle scuole economiche e burocratiche che si sono affermate in Italia e in Europa. Matteo Renzi ha dimostrato come sia possibile, in pochi mesi, rivoluzionare un partito strutturato e i linguaggi felpati della politica. Ma non è riuscito a fare altrettanto in campo economico. Siamo ancora là con i decimali del Documento di economia e finanza, con le manovre fiscali spot e i decreti di urgenza. Per la verità ha rotto il barboso e inutile tabù della concertazione. Ma non basta. Non ha fatto un centesimo, in economia, di quanto ha realizzato nel suo partito. Pensate un po’: è riuscito a portare Silvio Berlusconi al Nazareno, ma non un suo uomo al ministero dell’Economia.

Occorre più fantasia, più coraggio. Berlusconi nel 1994 lo ebbe. Portò al governo una pattuglia di economisti fuori dagli schemi. Importò il principio: meno tasse, più gettito, più crescita. Non lo realizzò. Ma allora era una novità, oggi una frasetta sdrucita da talk show. Ecco. Non si tratta (per il paese e incidentalmente per il centrodestra) di ritornare al 1994. L’economia mondiale è cambiata. Si tratta di trovare il coraggio di mettere un bambino senza pregiudizi alla corte dell’economia che dica: il re è nudo.

Il Paese soffocato

Il Paese soffocato

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri l’Istat ha certificato che l’Italia è tornata in recessione: la sua ricchezza diminuisce. Negli ultimi tre anni non ci eravamo ancora accorti di esserne usciti. Oggi gli economisti ci spiegheranno perché. Non ascoltateli. La gran parte sono diventati come i becchini, ci spiegano semmai perché il paziente è deceduto a tragedia avvenuta. Bella forza.

Ci permettiamo di fare un elenco micro (economico) per far capire come mai le questioni macro (economiche) non girano per il verso giusto. Tutti si affannano a parlare di numeri (macro), ma il problema è di comportamenti. È del tutto evidente che il buon senso, pensando all’attuale premier, ci sia, ma che per paura del senso comune venga sconfitto. Andiamo per ordine.

Il Pil non cresce perché a quattro sindacalisti si permette di bloccare i bagagli dell’Alitalia, a un violinista e qualche suo socio si consente di fermare le rappresentazioni dell’opera di Roma e alla minoranza dei metalmeccanici è stato consentito di mettere in discussione in tribunale le decisioni di Marchionne sulla Fiat. Chiaro? Siamo un po’ duri e antisindacali? E chissenefrega di questo senso comune. Il buonsenso dice che l’occupazione la creano le imprese e che la parte debole e da tutelare oggi siano loro.

Il Pil non cresce perché un guru della cultura italiana, Setis, scrive su Repubblica che è disgustato dalle file al Louvre; perché un vicepresidente emerito della Corte costituzionale, Maddalena, scrive che i giovani che occupano il Teatro Valle sono dei volenterosi; perché invece di ringraziare uno come Della Valle che ha messo qualche milioncino per pulire il Colosseo lo abbiamo ostacolato in tutit i modi; perché il sindaco Marino ha trovato un paio di milioncini per la festa dell’orgoglio Rom e non un euro bucato per celebrare i 2000 anni del mausoleo di Augusto. Siamo un po’ tranchant? Se aveste un albergo a Roma, pagando una supertassa di soggiorno, e dovendo difendere i vostri clienti dagli assalti alla stazione Termini, la pensereste come noi. Se vi fate un mazzo così e vi dicono che i vostri tavolini a piazza Navona sono illegali, e nel frattempo si dà spazio a bivacchi di evasori totali con borsette di marca ma false, be’ allora il vostro spirito sarebbe simile al nostro.

Il Pil non cresce perché siamo riusciti a indagare Finmeccanica, una delle nostre poche industrie manifatturiere, e poi dopo qualche anno ci siamo accorti aver esagerato. Abbiamo praticamente ucciso, senza ancora una sentenza che sia una, una delle più importanti industrie siderurgiche europee, come l’Ilva. Non trivelliamo l’Adriatico dove c’è un mare di petrolio e 15 miliardi di investimenti privati da fare perché si rovinerebbe il panorama. La Regione Toscana ha di fatto messo per strada 20mila lavoratori delle cave di marmo, le stesse del monte Altissimo di Michelangelo, per fare un parco naturale. Un grande scultore come Giovanni Manganelli ha definito il nostro sfruttamento di quelle aree come un misero graffio su montagne impetuose. Un altro regalo ai nostri concorrenti.

Il Pil non cresce perché dobbiamo aderire all’embargo dell’unico Paese che ha una buna dose di miliardari che ci amano, come la Russia; perché abbiamo spernacchiato l’intesa con la Libia di Gheddafi subendo le prevaricazioni dei francesi e oggi facciamo fatica con i nostri interessi là, mentre siamo inondati di clandestini qui; perché al nostro ministero della Sanità si occupano del colore della pelle della fecondazione eterologa e non della peste suina in Sardegna che ci impedisce di esportare i nostri insaccati in ricchi mercati esteri. Il buonsenso direbbe che la nostra politica estera sia rivolta a fare business, noi pensiamo a utilizzarla per liberare un posticino all’interno del governo per procedere ad un possibile rimpasto.

La lista, incompleta, potrebbe durare molto. E chi attribuisce al solo premier Renzi la colpa della recessione fa un gioco miope. Certo era meglio piazzare i dieci miliardi di sgravi fiscali alle imprese. Ma non sarebbe bastato comunque a raddrizzare il legno storto della nostra economia. Ha ragione il premier a perseguire con forza riforme istituzionali che spuntino i poteri delle regioni e rendano l’esecutivo più forte e il bicameralismo più debole. Ma la vera battaglia per riprendere a crescere è quella del buonsenso. È riprendere a credere che i quattrini e l’occupazione vengono fatti solo dalle imprese e che lo Stato deve fare di tutto per metterle nelle condizioni di competere al meglio. Meno tasse certo, ma è tutto il resto che oggi ci soffoca. Prima l’impresa e poi lo Stato, prima l’individuo e poi il burocrate e la sua norma.

Sull’evasione il fisco dà i numeri

Sull’evasione il fisco dà i numeri

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana, per una volta, lo stanco rito delle interrogazioni parlamentari ci ha regalato un po’ di ciccia. Un onorevole parlamentare ha fatto la seguente domanda: sentiamo parlare molto di lotta all’evasione, ci volete far sapere quanta roba è stata ufficialmente scovata dai vostri uffici? O, meglio, ci dite l’ammontare dei crediti fiscali che il governo vanta nei confronti dei suoi 60 milioni di cittadini? La risposta secca è stata: una montagna. La bellezza di 475 miliardi di euro. Se, per magia, questo debito fiscale fosse pagato dai contribuenti in questo istante, avremo risolto i nostri problemi finanziari con l’Europa, il debito pubblico scenderebbe infatti sotto il 100 per cento del Pil. Può mai essere? Ma certo che no. Il Fisco con noi bara. Il che non sarebbe una novità. Ma quel grande e gigantesco numero ci dice per quale motivo le statistiche sull’evasione (o presunta tale) si debbono prendere con la medesima attenzione con cui si cucinano i polli di Trilussa.

Intanto una prima considerazione sulla follia italiana. Quando si tratta di fare le leggi siamo dei duri e prevediamo sanzioni pazzesche. Tanto sulla carta il gioco è semplice. Poi quando ci si scontra con la realtà arrivano i guai. Su 475 miliardi che dovremmo al fisco, la bellezza di 250 miliardi (cioè più della metà dell’intero importo) è fatto da sanzioni e interessi. Bravi legislatori, fate i duri, tanto poi non vi paga nessuno. Ma andiamo avanti. Un euro di credito fiscale vantato dallo Stato ogni quattro è riferito a società o imprese che sono fallite. Dunque si tratta di carta straccia. Insomma, la montagna ha partorito il topolino.

Ricapitolando, gran parte del debito è fatto da sanzioni e non da imposta evasa e poi un quarto dello stesso è riferito a società fallite che, con ogni probabilità, non solo non pagheranno il fisco ma non hanno pagato manco i loro fornitori e dipendenti. La montagna dovrebbe così scendere a circa 180 miliardi di imposte potenzialmente evase e i cui mancati pagamenti si sono accumulati negli ultimi anni. Anche questa cifra è una balla. Succede, infatti, che dalle nostre parti si paghi prima del processo o meglio prima della sentenza definitiva. Quando vi pizzicano con qualche problema fiscale o conciliate subito, come direbbe il vigile alla Sordi, o sono comunque dolori. Ricorrendo in commissione tributaria viene comunque iscritto a ruolo un terzo del presunto debito fiscale ed entra così in questa mostruosa contabilità. Se si dovesse poi perdere in primo grado (c’è sempre la non remota possibilità che si vinca in appello) l’iscrizione a ruolo sale a due terzi.

Sì lo so è estate, i siete persi, vorreste stare in vacanza. Ma il punto è fondamentale poiché la comunicazione ha la sua importanza. Si dice che gli italiani hanno evaso centinaia di miliardi di euro. Poi si scopre che circa il 50 per cento di queste mirabolanti cifre sono sanzioni. Ci si scorda infine l’attitudine prevaricatrice del Fisco che tende a incassare e presumervi evasori fiscali anche prima di un giusto processo. Et voilà, il gioco è fatto. La morale di questa storia è la solita. Quando il Fisco parla, dà i numeri.