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Tasi, chi vince la gara a chi tartassa di più

Tasi, chi vince la gara a chi tartassa di più

Antonio Rossitto – Panorama

In tempi di renzismo dilagante, anche un balzo indietro di un solo anno appare un tuffo nel Mesozoico. Eppure agli italiani, per capire in quale gorgo ci hanno cacciato i nostri governanti, converrebbe tornare al 28 agosto 2013. «L’abolizione dell’Imu sulle prime case avverrà senza nuove tasse» esultava 1’allora premier, Enrico Letta. Il suo vice, Angelino Alfano, gongolava: «Missione compiuta!». Mai più balzelli, dunque. Un anno più tardi, salito Manco Renzi sulla sella di Palazzo Chigi, tutti sanno com’è finita. L’imposta municipale unica è rinata sotto le mentite spoglie della Tasi: formalmente un obolo da versare in relazione alle prestazioni offerte, nella pratica un nuovo salasso totalmente svincolato dai servigi resi dai Comuni.

Quest’anno, secondo le ultime stime dell’Ufficio studi di Confedilizia, i tributi sugli immobili garantiranno alle idrovore statali un gettito compreso tra i 25 ci 28 miliardi di euro. Più dei 23,7 incassati dal governo Monti nel 2012: l’anno nefasto in cui venne introdotta una sorta di patrimoniale sulla casa. L’Imu, dunque: la manovra «Salva Italia», all’articolo 13, dettagliava che la gabella sarebbe stata applicata «in via sperimentale». Ma in Italia, scriveva Ennio Flaiano, «nulla è più definitivo del provvisorio». Per cui, purtroppo, nessuna sorpresa: il 2014 sarà ricordato dai proprietari come il più vessatorio della storia. Tra la sempiterna Imu, che rimane viva e vegeta per le case di lusso e in affitto, e la novella Tasi. I dati elaborati in esclusiva per Panorama dagli esperti di Confedilizia non lasciano incertezze. Degli 80 (su 117) capoluoghi che hanno deliberato in materia, solo sei hanno scelto di applicare l’aliquota base dell’1 per mille. Ancora meno, appena due, hanno deciso di esentare i propri cittadini dal pagamento: Olbia e Ragusa. Al contrario, 58 città su 80 hanno fissato l’aliquota al massimo: 2,5 per mille. Di questi quasi la metà, ben 26, hanno addirittura approvato l’ulteriore maggiorazione dello 0,8 per cento, concessa a chi prevede qualche sgravio per le abitazioni principali, che fa arrivare l’aliquota complessiva al 3,3 per mille. È vero che i Comuni hanno tempo fino a giovedì 18 settembre per pubblicare le delibere approvate sul sito del ministero delle Finanze. Ma il quadro generale sembra ormai ben tratteggiato. E raffigura lo Stato che si prepara a tirare l’ennesimo manrovescio fiscale allo sgomento cittadino.

La prima simulazione del Centro studi di Confedilizia è stata elaborata per Panorama immaginando un contribuente senza figli. Chi vive in una prima casa di categoria A2, con 800 euro di rendita catastale, sarà stangato con 443 euro in 12 città: tra cui Ancona, Parma, Perugia,Salerno e Torino. Per lo sventurato, più in generale, solo in 31 capoluoghi su 80 è prevista qualche forma di detrazione, spesso risibile. Non è un caso. La Tasi, rispetto all’Imu, prevede una gamma di deduzioni ridotta. Quelle per le famiglie, per esempio. Lo dimostra il secondo conteggio di Confedilizia: stesso appartamento ma con due figli a carico. A Bologna il rincaro è del 40 per cento: da 237 a 333 euro. Mentre le deduzioni calano da 300 a 110 euro. A Firenze, amministrata da Renzi fino allo scorso febbraio e ora dal suo fedelissimo Nardella, la mazzata è simile: da 237 a 323 euro, con uno sgravio crollato da 300 a 120 euro. Batoste anche a Milano nonostante il sindaco, Giuliano Pisapia, assicuri che la Tasi non sarà più cara dell’Imu. Per Confedilizia è vero il contrario: il balzello in due anni è salito da 237 a 2% euro. E la riduzione fiscale precipitata da 300 a 40 euro. Ancora peggio, in molte città, va ai proprietari che affittano il proprio appartamento. A Roma, rivela ancora Confedilizia, una categoria A2, con una rendita di 787 euro, nel 2011 scuciva 578 euro di Ici, progenitrice dell’Imu. Quest’anno il totale sale a 1.508 euro: il 161 per cento in più. Analoga scoppola peri torinesi: da 578 a 1.402 euro. Un rialzo del 142 per cento.

La morale della favola è la meno edificante si possa immaginare: negli ultimi tre anni gli italiani hanno pagato almeno 78 miliardi di euro di tasse sul patrimonio immobiliare. Imposte che, ha scritto Luca Ricolfi su Panorama, hanno bloccato l’Italia: «Nel giro di un paio d’anni, il possesso di un immobile ha cambiato natura: lino a ieri era un elemento di sicurezza, oggi per molti è diventato un incubo, un fardello di cui ci si vorrebbe liberare prima possibile». Risultato: il prezzo delle case è crollato. E ha causato, calcola l’economista Paolo Savona, un impoverimento di 2 mila miliardi del patrimonio nazionale. «Nessuno dei nostri governanti, tutti guidati dalla “superbia satanica” di cui parlava Giulio Einaudi, ha tenuto conto dell’ovvio: tassare la ricchezza statica ha azzerato i consumi» spiega Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia. «La casa era una riserva di liquidità veloce e sicura. Comprare un appartamento era la rendita sulla vita: qualsiasi accidente capitava, bastava vendere. Una sicurezza psicologica che permetteva di spendere buona parte di quanto si guadagnava. Adesso vale il contrario: avere una casa è un accidente. E l’Italia, di conseguenza, sta andando a catafascio». Ma al danno si aggiunge pure la beffa. Gli enti locali le stanno escogitando tutte per complicare l’esistenza ai cittadini. Delibere astruse, aliquote differenziate, sgravi incalcolabili. Il capolavoro l’hanno fatto a Ferrara. Dove la detrazione, illumina la delibera approvata all’uopo, «si ricava utilizzando la seguente formula: (€ 200 – (Rendita catastale x 0,117) + 5 Coefficiente 0,1176 determinato 1,05 x 160 x (0,4% – 0,33 %)». E giù una tonante pernacchia: l’ennesima per i malcapitati italiani.

Matteo come Cirino Pomicino

Matteo come Cirino Pomicino

Keyser Söze – Panorama

È diventato il grande imbuto del governo Renzi. Quello che il premier indica come l’appuntamento in cui si risolveranno tutti i problemi e tutti i mali. Si tratta della legge di stabilità. A sentire l’inquilino di Palazzo Chigi la questione dei precari della scuola troverà una soluzione lì. Sempre lì si troveranno anche i soldi per rilanciare le grandi opere e, magari, anche il modo per allargare la platea degli 80 euro, totem per eccellenza del verbo renziano. Il rischio è che la prima legge di stabilità renziana sia scritta secondo i codici democristiani di un tempo, secondo la furbizia del gioco delle tre carte che fu la filosofia del ministro andreottiano per eccellenza, Paolo Cirino Pomicino. Anche lui grande estimatore dell’arte del rinvio. «Renzi discepolo di Pomicino» inorridisce l’azzurro Daniele Capezzone «è un’immagine che si attaglia al momento». Un epilogo che molti danno per scontato. Basta dare un’occhiata allo stato della nostra economia. Delle due l’una: o la legge di stabilità diventa il presupposto di quel lungo elenco di riforme che Renzi finora ha solo enunciato, il che significa un provvedimento severo e impopolare; o si trasforma in un grande minestrone, in cui il prestigiatore di Palazzo Chigi mescola le promesse, i sogni, gli impegni presi in una confusa melassa insapore, che serve solo a confondere ancora gli italiani. Inutile dire che l’ipotesi più probabile sia la seconda.

Tutti i protagonisti della politica, estimatori o meno del premier, su un dato si trovano d’accordo: Renzi non persegue una strategia chiara. «O meglio» si infervora Pier Luigi Bersani «non l’ha proprio». «Le sue proposte» ammette Silvio Berlusconi «sono ben al di sotto della tragica crisi che stiamo vivendo». «Invece di elencare una riforma al giorno» dice Sergio Marchionne «basterebbe che si concentrasse solo su tre: lavoro, certezza del diritto, burocrazia». Ma Renzi è nelle condizioni di farlo? Probabilmente no: l’autunno caldo sottoporrà il Pd al richiamo della foresta del sindacato, della piazza. E l’assenza di una strategia economica e di una formula politica definita renderà difficile anche l’aiuto del Cav: se Berlusconi non accetterà di rappresentare una vera alternativa a Renzi, qualcun altro ci proverà visto che l’establishment italiano è affollato di disoccupati di lusso. Corrado Passera docet. E il premier, come reagirà? Rilancerà sul piano dell’immagine, ma nella sostanza rinvierà ancora. In fondo la scuola democristiana è nel suo Dna.

Presidente, tiri fuori il coraggio

Presidente, tiri fuori il coraggio

Giorgio Mulè – Panorama

E non inizierò adesso con la tiritera che io l’avevo detto, io l’avevo previsto, io vi avevo avvertito. Però stiamo ai fatti. Il 29 agosto eravamo pronti per celebrare la scossa all’ltalia, anzi il big bang secondo i cantori renziani, e invece dalla sala stampa di Palazzo Chigi s’è udito in lontananza un ruttino forse dovuto alla cattiva digestione del cono gelato consumato poco prima per replicare stupidamente all’Economist. Dallo #sbloccaItalia s’è così passati allo #squagliaItalia e allo #sbroccaItalia: dei 40 miliardi annunciati ne sono rimasti appena un paio spalmati in tre anni e chi vivrà vedrà. Peanuts, noccioline sufficienti per un aperitivo striminzito. Per tacere del resto e cioè delle macerie in cui sono state trasformate le «grandi riforme» – scuola e giustizia su tutte – rinviate a data da destinarsi o ridotte a imbarazzanti e monchi disegni di legge. Agosto è finito male e settembre è iniziato pure peggio con l’inutile parata del «passo dopo passo», dei 1.000 giorni e – aridaje – del chi vivrà vedrà. Siccome però ci tocca vivere il 2014, eccoci ancora una volta a pregare il presidente del Consiglio di fare l’unica cosa sensata. Metta al bando i gelatini, trangugi piuttosto un’abbondante dose di filetto di tigre: abbia coraggio. Il coraggio proprio dei leader e degli statisti, l’orgogliosa rivendicazione di un piano serio per far ripartire il Paese.

Se, come ha fatto Renzi, si cita la Germania come modello di riforme sul lavoro, si legga la storia e si applichi quanto fece Gerhard Schröder nel 2003: una rivoluzione vera e bisturi in profondità nei tagli, nella riduzione delle prestazioni sociali, coraggio leonino nelle liberalizzazioni, negli sgravi fiscali, nelle riduzioni delle aliquote sul reddito (il Cancelliere tagliò dal 52 al 42% quella massima, per dire). Schröder pagò tutto questo, fu sommerso da proteste e impopolarità. Ma portò la Germania da vagone di seconda classe a locomotiva dell’Europa. Fu uno statista.

Badare invece al consenso, essere ossessionato come il nostro premier dal timore di perderlo non è serio: significa tradire quegli elettori, e sono stati tantissimi, che gli hanno accordato fiducia. Renzi sa come prendere il toro per le corna; ha opportunamente citato la Germania: dunque tiri fuori le palle e agisca di conseguenza. Metta da parte quel suo metodo, tanto semplice quanto infruttuoso, la cui prevedibilità è ormai diventata persino stucchevole: rivoluzione annunciata con tweet pomposo e demagogico (vedi i casi giustizia e lavoro, tanto per fare due esempi), successivo decretino legge da fumo negli occhi (ferie tribunali e contratti a termine) e consultazione popolare o legge delega per la riforma vera e propria destinata a vedere la luce chissà quando (non dimenticate che ci sono da smaltire ben 699 decreti attuativi accumulati da Monti, Letta e Renzi).

No, non è serio. Al pari del grande imbroglio sulla Tasi, la tassa comunale sulle abitazioni, che il governo fa finta di non vedere. Lo scorso anno non la pagammo. Quest’anno ci tocca versarla: ergo è una nuova tassa. E sarà un salasso. Un esempio? Nella presunta capitale della buona amministrazione, cioè la Firenze che fu di Renzi, il neosindaco Dario Nardella ha fissato l’aliquota per la prima casa al massimo. Per un appartamento di 120 metri quadrati si dovranno pagare 453 euro. Vogliamo continuare con la favoletta che gli 80 euro (per chi li ha presi) servono a rilanciare i consumi?

Non c’è più niente da ridere

Non c’è più niente da ridere

Carlo Puca – Panorama

«Esci da questo twitter, Matteo». La battuta, attribuita al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è sottilissima. Parafrasa il Renzi del 19 febbraio 2014 che, in diretta streaming con Beppe Grillo, pronunciò il celebre «Esci da questo blog, Beppe». Da allora i due, Matteo e Beppe, si sono amabilmente detestati. Padoan no, non è rancoroso. Quando il 25 agosto ha incontrato un Renzi distratto dallo smartphone, la buona educazione gli interessava poco o nulla. Ciononostante, a suo dire, la superfetazione di tweet stava «fomentando aspettative eccessive».

In sei mesi il premier ha promesso (e postato) di tutto e di più. Solo per rimanere all’essenziale: #lavoltabuona, #laSvoltabuona, #80euro, #italiariparte, #gufi, #amicigufi, #inpiazza, #unoxuno, #allafacciadeigufi, #centogiorni, #millegiorni, prodromo al sito internet passodopopasso.italia.it grazie al quale verificare l’attività di governo da qui al maggio 2017 e rispondere «alle accuse di annuncite». La verità è che #millegiorni segna la sua sconfitta nei confronti di Padoan e del suo sponsor principale, il presidente Giorgio Napolitano, solidale anche con il sottosegretario Graziano Delrlo. Insomma, è vero che la troika europea non è (ancora?) arrivata a commissariare Renzi. Però una troika italiota c’è eccome e già fa la guardia al premier.

I dati economici sono drammatici, La fiducia degli italiani scende, il Pil arretra, la deflazione impera, la disoccupazione è una piaga (siamo al 12,6 per cento). L’ottobre sarà caldo per i sindacati e nero per gli italiani, già a settembre alle prese con una tassazione pesantissima (e si vedrà con Tasi e Tari: altro che abolizione dell’Imu). Con la riforma del Senato e la nomina di Federica Mogherini a Lady Pesc la congiuntura cambia zero. La minoranza interna del Pd ha smesso di urlare, ma attende Renzi sulla riva del fiume parlamentare per martoriarne il cadavere (politico, per carità) . Forse il rimpasto di governo di fine ottobre porterà nell’esecutivo qualche ministro «meno leggero e più efficiente» (così Renzi, e nel mirino ci sarebbero anzitutto Federica Guidi, Angelino Alfano e Stefania Giannini), ma la legge di Stabilità si annuncia lacrime e sangue. Mentre, di sicuro, poco o nulla hanno prodotto gli 80 euro. Con i quali, al limite, ci si mangia un gelato al giorno. Nel caso di Renzi, nel cortile di Palazzo Chigi.

Il cono del premier ha cristallizzato la sua insolenza istituzionale, ma fin qui è soltanto questione di stile. È la parte decisionale che più preoccupa la troika italiana. Nei suoi colloqui con il Quirinale, Padoan riporta il surrealismo di taluni Consigli dei ministri, con il premier proponente cambiamenti impossibili, tipo la riduzione per decreto delle prefetture o l’assegnazione delle competenze delle autorità portuali ai Comuni. Ma lo stile di lavoro renziano che Padoan più considera «dilettantesco» riguarda il bilancio dello Stato. Il premier, è noto, ha studiato le carte: «Conosco ogni voce di spesa a memoria» rivendica. Ecco, esattamente come fanno i sindaci, che spostano qualche migliaio di euro dall’illuminazione alle bocciofile, così Renzi intenderebbe spostare risorse da una voce all’altra. Solo che «un conto sono scuole e bocciofile, un altro è toccare le pensioni, assumere insegnanti, chiudere municipalizzate». Per realizzare tutte queste cose «devi prepararti all’impopolarità e 100 giorni non bastano, ne occorrono almeno 1.000» ha ringhiato il ministro il 25 agosto. «E smettiamola di dare addosso alla Germania» ha aggiunto «anzi cavalchiamo le riforme imposte da Gerhard Schroder».

Guarda un po’, il 1° settembre Renzi ha cambiato linea: «La Germania è un nostro modello, non un nostro nemico» bisogna «rendere il nostro mercato del lavoro come quello tedesco». Ora Angela Merkel sorride, Napolitano pure e Padoan sembra Claudio Baglioni mentre pianifica i «mille giorni di te e di me». Ma Renzi è consapevole che questo è tutt’altro che «un piccolo grande amore». Anzi, siccome «la vita è adesso», magari porta il Paese al voto in primavera. Vuoi mettere la gioia (popolare) dell’annunciare rispetto alla noia (impopolare) del fare? 

Tutto il resto è fuffa

Tutto il resto è fuffa

Giorgio Mulé – Panorama

Mettetevi nei panni di Joe, un americano in vacanza a Roma. Negli States essere ricco non è un reato; possedere due case non fa di un cittadino il perfetto obiettivo del fisco; avere messo soldi da pane non lo fa somigliare a un evasore fiscale. Joe è un marziano ai nostri occhi. Atterra a Fiumicino e scopre che l’Italia deve rinviare le sue previsioni di bilancio per ricalcolare il Prodotto interno lordo. Accipicchia, o meglio woooow!, pensa: gli italiani si sono rimessi in moto e stanno superando la crisi. Ecco, dear friend, le cose stanno un po’ diversamente: ce l’ha presente Johnny Stecchino nel bellissimo movie di Robeno Benigni? Beh sì, insomma noi ricalcoleremo il nostro Pil alla luce delle previsioni di Cosa nostra su tre settori: andamento del mercato della droga, della prostituzione e del contrabbando.

Tutto perfettamente illegale. Joe, it’s not a joke, non si scherza affatto: aumenteremo il nostro Pil, avremo pure big benefici nei conti pubblici. Manco fa in tempo a smettere di ciondolare la testa di qua e di là, farfugliando qualcosa che somiglia a un intraducibile «what the fuck…››, che gli capita di leggere la proposta di un signore che conosce bene perché ha conquistato gli States con i megastore Eataly. Mister Oscar Farinetti, renziano della prima ora, è quel che si dice un ambasciatore dell’Italia nel mondo. Già in predicato di fare il ministro, dà la sua ricetta per mettere a posto la spesa previdenziale: «Ci vuole una bastonata: tetto massimo di 3.000 euro netti, bastano e avanzano per vivere» sentenzia. E quelli che prendono di più, cioè i 600mila italiani che hanno versato contributi per 40 anni? La risposta è facile, caro Joe, basterebbe ricordarsi come si traduce in americano «cazzi loro» però va bene anche «what the fuck. ..».

Passata la pagina di economia dove il suo connazionale Bob Wilt, presidente del colosso Alcoa, annuncia la chiusura definitiva dello stabilimento di Portovesme in Sardegna con 455 lavoratori a spasso perché, dear italians, «le ragioni di fondo che rendevano non competitivo l’impianto non sono purtroppo cambiate», il nostro Joe decide che è tempo di lasciarsi alle spalle tanta mestizia e rigenerare lo spirito con una visita alla Casa di Augusto in occasione del bimillenario della morte dell’imperatore. È obbligatorio prenotare, al centralino parlano anche in inglese. Wonderful. Peccato che dopo 10 minuti d’attesa, Joe viene invitato a richiamare «tra qualche giorno» perché la Soprintendenza deve fissare ancora le regole per le visite. D’altronde hanno avuto sono duemila anni per farlo. Ci risiamo col bisbiglio: «What the fuck…» lasciamo Joe al suo disgusto e concentriamoci un momento su di noi.

La realtà dell’Italia è esattamente quella che avete letto, se non peggio. E allora, visto che s’ode di nuovo la rumba degli annunci, sarà il caso di mettere in fila le priorità. Sono due: lavoro e giustizia. Si lasci perdere la fuffa, si eviti l’effetto grigliata mista mettendo sul fuoco provvedimenti dall’indiscusso valore mediatico ma dalla scarsissima possibilità di vedere la luce. L’Italia riparte se si mette mano in profondità in quei due settori con il concorso di tutti perché, come per le riforme istituzionali, rappresentano un terreno comune dove le forze politiche responsabili possono e devono incontrarsi. Lavoro e giustizia hanno priorità assoluta: da lì passano sviluppo, competitività e credibilità, soprattutto nei confronti degli investitori esteri. ll resto, come direbbe Obama, è horseshit.

Date una pensione a Renzi e Poletti

Date una pensione a Renzi e Poletti

Giorgo Mulè – Panorama

Nei piani del governo, quello sulle pensioni doveva essere un blitz: improvviso e, aggiungo io, improvvido. Me lo confidò, lunedì 4 agosto, una mia fonte assai addentro ai segreti ministeriali. Con dovizia di particolari elencò le misure del blitzkrieg fissato per ottobre che prevedeva tra l’altro il varo dell’ennesimo e ipocrita «contributo di solidarietà», la rimodulazione degli assegni calcolati con il metodo retributivo e la revisione delle pensioni di reversibilità. Scrivemmo tutto, ovviamente, e giovedì 7 agosto mandammo in edicola la copertina di Panorama (numero 33) con Matteo Renzi nelle vesti di un vampiro e il titolo: Il prelievo. Nessun giornalone, nei giorni seguenti, approfondì la notizia. Normale, nel provincialismo editoriale italiano. Fin quando domenica 17 agosto il ministro del Lavoro, Guliano Poletti, ha confermato tutto con un’intervista al Corriere della sera. Il resto lo state leggendo in questi giorni (ben svegliati, colleghi) e continuerete a leggerlo nelle prossime settimane.

Sono circa 300 i miliardi che l’Italia paga ai pensionati ogni anno. Per ogni governo si tratta di una categoria bancomat: non c’è manovra, manovrina o manovrona che li abbia risparmiati. Le storture non mancano, per carità, ed è giusto intervenire anche in profondità. Il problema è che bisogna farlo con raziocinio e non a colpi di rapine indiscriminate. Evitando, soprattutto, azioni demagogiche modello Robin Hood come quella in corso: è profondamente sbagliato dipingere il titolare di una pensione da 3.000 euro come un ricco sfondato e quindi meritevole di essere spennato per cedere parte dei suoi soldi a chi ne ha di meno. Perché il pensionato che perderà soldi si sentirà povero e impaurito e spenderà ancora di meno rispetto a oggi mentre l’altro pensionato (già terrorizzato dalla congiuntura attuale e fresco di fregatura dal mancato arrivo degli 80 euro) che ne prenderà poco di più non si accorgerà neppure dell’incremento.

E mentre lor signori discettano di quanto e a chi rapinare, che cosa c’è da aspettarsi se non l’ennesima gelata sui consumi da parte di coloro che con quei 300 miliardi equivalgono al 20 per cento del prodotto interno lordo? Nella platea dei «ricchi» pensionati chi spenderà un euro in più oltre lo stretto necessario? Non ci vuole un economista di Harvard per enunciare questo banale parallelo, lo sanno perfettamente al ministero dell’Economia e pure a quello del Lavoro e lo ha sottolineato un insospettabile come Stefano «chi?» Fassina.

Alla radice di tutto c’è un problema di cultura di governo. Il ministro Poletti è una degnissima persona, un “tecnico” chiamato da Renzi: ma si è nutrito di pane e comunismo (pochissimo il pane) fin da quando aveva le brache corte. Nel defunto Partito comunista ha ricoperto incarichi importanti, è stato custode di quell’ortodossia maledetta nella rossissima Imola negli Anni 80. Che cosa c’è da aspettarsi da un ministro così se non un prelievo dalle pensioni che lui si ostina a chiamare «d’oro»? Inutilmente s’è atteso il colpo d’ala dal sempre assai loquace Renzi, una frasettina tipo: «Suvvia Giuliano, nun di’ bischerate». Macché, muto è stato. Poi, tanto per tenersi sulle generali, ha scritto un tweet che però non smentisce nulla: dice vagamente che i giornalisti a Ferragosto si inventano cose che il governo non ha neppure pensato. Ma a quali cose si riferisce? Tweet da Sibilla cumana.

Comincio a pensare che Renzi, oltreché muto, sia pure sordo. Al premier, che pure dall’orecchio destro, quello delle riforme, sembra recepire qualche segnale, bisogna sturare al più presto l’orecchio sinistro, quello dell’economia: deve avere un tappo che puntualmente gli impedisce di sentire. E, ahinoi, di cogliere la realtà.

Fai presto

Fai presto

Giorgio Mulè – Panorama

Inutile girarci intorno: il 2014 ce lo siamo giocati. I mesi che ci separano dalla fine dell’anno saranno contrassegnati da dati nefasti su tutti i fronti principali dell’economia: prodotto interno lordo, occupazione, consumi. Non si tratta di fare i gufi e anzi, piccola parentesi, sarebbe ora che Matteo Renzi la smettesse di fare lo spiritoso guardando in faccia la realtà perché c’è un Paese in ginocchio.

L’ultima mazzata che certifica lo stato comatoso dell’Italia è il dato sull’andamento dei prezzi: a luglio sono calati ancora innescando quella micidiale spirale che si chiama deflazione. Per capirci, la deflazione è il contrario dell’inflazione: la gente non compra, i prezzi calano e a ruota si mettono in moto una serie di conseguenze che portano meno profitti alle imprese, meno produzione, meno assunzioni, maggiori difficoltà per sostenere gli interessi sul debito. Una catastrofe. Basti ricordare che, a causa della deflazione, il Giappone ha conosciuto una crisi che gli economisti hanno efficacemente battezzato del «Decennio perduto» anche se gli effetti sono stati addirittura più lunghi.

La discesa dei prezzi a luglio si spera che convinca definitivamente il premier che il bonus da 80 euro è servito solo a fargli vincere le elezioni europee: gli effetti concreti sono sottozero, al punto che il fatturato dei saldi del 2014 ha conosciuto un decremento del 4 per cento rispetto al già pessimo 2013. La gente non spende, se ne frega altamente della riforma del Senato anche perché è terrorizzata dalla mazzata autunnale in arrivo sul fronte dei tributi locali con in testa la Tasi. A questo punto, piuttosto che interpretare Braccio di ferro e fare a cazzotti con la Bce di Mario Draghi (e comunque gli finisce male, dovrebbe sapere il premier), il governo che non ha legittimazione popolare faccia un bagno di umiltà. Concordi con le forze politiche responsabili e le categorie produttive del Paese un piano di emergenza: tagli sul serio la spesa pubblica di 50 miliardi in 3 anni (si può fare, si deve fare) e assuma immediatamente l’iniziativa di rilanciare gli investimenti pubblici e privati. Questo non significa battezzare un nuovo provvedimento roboante, tipo lo Sblocca Italia che in realtà sblocca a stento una vite in quanto si limita a spostare soldi da un capitolo all’altro o, peggio, a sancire il via libera a opere che però daranno lavoro tra due o tre anni come l’autostrada Orte-Mestre.

La strada è quella di dare incentivi a imprenditori piccoli, medi e grandi affinché siano realmente spinti a investire i loro soldi. Significa inventarsi misure come una rottamazione dei macchinari industriali, per esempio, che spesso sono obsoleti, dando in cambio benefici fiscali da riconoscere a chi con l’innovazione risparmia energia o digitalizza l’impresa. Non ci vuole molta fantasia, ma senso pratico per rimettere in moto l’Italia. Al bando l’arroganza, presidente Renzi. Non perda tempo con l’articolo 18 (non è aria) e si concentri sul 2015. Inizi subito e vari le misure entro agosto.

Cottarelli non è un passero solitario

Cottarelli non è un passero solitario

Giorgio Mulè – Panorama

Mi uniformerò alla rappresentazione ornitologica della realtà in stile renziano per descrivere Carlo Cottarelli, ennesimo commissario alla revisione della spesa pubblica della storia repubblicana che è sul punto di congedarsi senza aver tagliato quanto avrebbe dovuto e certamente per responsabilità non sue.

Cottarelli, destinatario di un vaffa metaforico da parte del premier, non è certamente un gufo né appartiene a una delle sottospecie indicate dal nostro aulico capo del governo (gufi professori, gufi brontoloni e gufi indovini). Sbaglia però, e pure di grosso, chi lo ritiene un passero solitario che con le sue parole di verità (tanto erano vere che il governo ha dovuto fare una assai ingloriosa marcia indietro) ha avuto il torto di turbare l’armonia che gorgheggia e si espande nella meravigliosa valle italica immaginata da Renzi.

Cottarelli, figura di primo piano del Fondo monetario internazionale, è piuttosto un punto di riferimento per chi guarda e valuta il nostro Paese dall’esterno; ed è (era) insieme una garanzia di mantenimento degli impegni presi. Che, detto in pratica, significa la capacità di intervenire col piccone su quella montagna di sprechi composta da 800 miliardi di spesa pubblica (la metà del nostro prodotto interno lordo) ed evitare un ulteriore incremento del nostro insostenibile debito pubblico. Per questo all’azione del commissario alla spending review guardavano con fiducia le istituzioni europee e gli investitori internazionali nella spasmodica attesa di segnali di svolta. Anche perché Cottarelli era stato chiarissimo fin dopo la sua nomina a ottobre 2013.

Aveva messo da subito in chiaro alcune cosette straordinariamente strategiche tipo che «a metà anno (2014, ndr) deve esserci uno sgonfiamento delle spese e delle tasse»; che «la cosa più importante della spending è il legame tra la riduzione di spesa e la riduzione delle tasse sul lavoro»; e che un punto centrale della sua azione passava «dall’accentramento degli acquisti(della pubblica amministrazione) con la creazione di 35 soggetti invece che i 34 mila attuali». Bene: non uno di questi punti strategici è stato centrato. E, ribadisco, ciò è successo non per una cattiva volontà di Cottarelli, ma per il sabotaggio e la pessima capacità del governo: basti pensare al paradossale blitz con cui proprio l’esecutivo, d’accordo con i comuni, ha rinviato fino a un anno (e poi chi vivrà vedrà) la centralizzazione degli acquisti dopo averla prevista e voluta per decreto appena tre mesi prima!

Chi sta fuori dai nostri confini chiede fatti e invece, ahimè, qui si continuano a sfornare chiacchiere o improvvisazione come nel caso della riforma della pubblica amministrazione gestita dal ministro Marianna Madia. Ma che ce ne importa, ripetono a Palazzo Chigi, avremo la riforma del Senato, che in realtà ha bisogno di ben altri quattro passaggi parlamentari e di un referendum prima di vedere la luce. Peccato che, come questo giornale ripete da mesi, la questione delle questioni non è il Senato ma l’economia reale, la capacità di affrontare di petto il tema della crescita, della disoccupazione e delle tasse che ci soffocano. Il governo aveva a disposizione un funzionario davvero bravo che avrebbe potuto aiutarlo nell’impresa. L’hanno silurato e hanno buttato un altro anno al vento. Ma si può?

Ufficio respingimento investimenti stranieri

Ufficio respingimento investimenti stranieri

Oscar Giannino – Panorama

Più un paese è civile, più le sue leggi dovrebbero essere non retroattive. «La legge non dispone che per l’avvenire» recita l’articolo 11 delle Disposizioni sulla legge in generale premesse al Codice civile. Ma l’Italia tanto civile. Da noi la retroattività delle leggi è ammessa in materia civile, amministrativa e tributaria con l’eccezione del penale, tranne che in favore del reo. Le leggi retroattive intervengono a modificare rapporti economici, civili, amministrativi nel cui ambito cittadini e imprese hanno fatto scelte pluriennali spesso molto impegnative per le proprie finanze. In un mondo in cui i capitali sono molto più liberi e mobili delle persone, più la legge retroattiva, e soprattutto in materie ad alta densità di investimenti, più i capitali diffidano e si volgono altrove.

Era questo il quadro di fronte al governo Renzi quando a metà giugno è intervenuto per decreto legge modificando gli incentivi energetici. Buono il fine: un taglio a regime del 10 per cento della bolletta per le piccole imprese e famiglie, pari a circa 1,5 miliardi. Tra gli strumenti, alcuni anch’essi ottimi: come il taglio agli sconti in bolletta ai dipendenti Enel, San Marino e Vaticano, a Fs e Ntv o il potenziamento dei controlli sui molti, troppi, che beneficiano di sussidi.

Ma il punto dolente sono i 500 milioni attesi dalla rimodulazione incentivi ai “grandi” operatori del fotovoltaico, sopra i 200 kilowatt. Sono circa 8.600 imprese a cui andavano circa 4,1 miliardi di incentivi l’anno sui 6,7 complessivi al settore. Per loro, un’alternativa secca: o l’aiuto si spalma in 24 anni invece di 20, o resta a 20 ma con un taglio dell’8 per cento. Stiamo parlando della parte di solare in cui sono impegnate imprese medio grandi, italiane ed estere, e fondi internazionali. L’Italia è reduce già da 5 diversi “conti energia” dal 2006 in avanti, e dal 2012 si è imboccata la via di una riduzione di aiuti troppo generosi, alla luce della sovraccapacità complessiva elettrica in Italia. Questa volta però il taglio è secco. La protesta di Assorinnovabili è fortissima, a suo giudizio si rischiano dai 10 ai 20mila posti di lavoro. I fondi esteri hanno tuonato su Financial Times e Wall Street Journal. L’ambasciatore britannico Christopher Prentice si è detto preoccupato. Nel Regno Unito in un caso analogo il Tesoro si è trovato esposto a risarcimenti per 130 milioni di sterline. Assorinnovabili ha annunciato ricorsi alla Commissione Ue e alla Corte costituzionale, forte del ricorso analogo presentato dalle imprese spagnole alla Corte di Giustizia Ue.

Macché Destinazione Italia di cui parlava Enrico Letta o le nuove misure per attirare i capitali esteri come annuncia Matteo Renzi. L’affidabilità della parola data dallo Stato è criterio essenziale per vincere la gara degli investimenti esteri. Noi non siamo affidabili. Direte voi: ma allora come si fa, quando gli incentivi dati ai privati sono troppi e si vuole correggere? Bisogna ricordare due cose. La prima è il criterio della proporzione e del tempo, altrimenti si perde in sede giudiziale europea. La seconda è che uno Stato che non mostra alcuna energia a tagliare i propri sovraccosti non è credibile se usa le forbici sugli investimenti privati.

Stupirci diventa sempre più difficile

Stupirci diventa sempre più difficile

Ester Faia* – Panorama

Renzi scopre che non si può fare una riforma al mese in un Paese con un conflitto sociale acuito da anni di esasperazione e stagnazione. Le prospettive di crescita non migliorano. Non ci sono solo i tempi dilatati delle riforme, ma una mancanza di proposte creative. Pensare che 80 euro al mese facciano ripartire la crescita è ingenuo e semplicistico: la propensione al consumo è alta per redditi bassi, ma diventa nulla se non si dà certezza che la misura sia permanente. Vi è poi da considerare che in periodi di recessione/stagnazione il risparmio precauzionale sale e che gli 80 euro andranno a compensare aumenti di tasse come la Tasi. Renzi ha continuato a finanziare i deficit non con tagli di spesa (per ora ci sono proposte di tagli) ma con aumenti di tasse sul risparmio. In un Paese gravato da tasse su imprese, consumo e reddito gli ultimi governi hanno fatto cassa con i risparmiatori (di ricchezza immobiliare e mobiliare). Le ragioni addotte sono tante: è difficile evadere tasse su beni visibili come le case; si tratta di tasse redistributive e così via. Purtroppo sono argomenti fallaci: le molte case abusive non sono tassabili; le tasse sul risparmio sono spesso regressive; la progressività si ottiene aumentando gli scaglioni delle tasse sul reddito. Il lato più oscuro di questi aumenti è che, scoraggiando il risparmio, rischiano di deprimere la crescita. In un Paese dove le protezioni sociali sono inesistenti, risparmio e ricchezza sono spesso l’unico modo per far fronte alle difficoltà. In Grecia per pagare gli aumenti di tasse sugli immobili i disoccupati hanno preso a prestito: il risultato è stato inesigibilità delle tasse e nuove insolvenze. Diventa sempre meno probabile che Renzi ci possa stupire.

 

* professore di Economia monetaria e fiscale alla Goethe University, Francoforte