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L’ultimo bluff europeo del governo Renzi

L’ultimo bluff europeo del governo Renzi

Daniele Capezzone – Panorama

Purtroppo, a dispetto delle parole di autoincoraggiamento e autoconsolazione di Matteo Renzi, in Europa le cosa non cambiano affatto per l’Italia. Dopo la sequenza di incontri e vertici, conclusi dall’Ecofin dell’8 luglio, il quadro delle regole di austerità (parole e cortine fumogene a parte) è assolutamente invariato, così come permane la richiesta per l’Italia di «sforzi aggiuntivi» già per l’anno in corso: il che, tradotto in prosa, vuol dire rischio concreto di una manovra correttiva da 9-10 miliardi. Ma, perfino al di là del rischio-manovra, quel che conta in negativo è il permanere di tutto ciò che ha fatto male a noi e all’Europa: resta il Patto si stabilità, resta il 3 per cento, resta il Fiscal compact, restano tutti i vincoli esistenti che hanno prodotto la drammatica gabbia di austerità che ha contribuito ad affossare l’economia del Continente. Poi ci si può aggrappare a qualche parolina, a qualche espediente verbale nei documenti finali dei vertici, come il riferimento al cosiddetto «miglior uso della flessibilità esistente»: ma una parola buona in un documento non si nega a nessuno, da che mondo è mondo. Al massimo, alla fine della fiera, l’Italia potrà per esempio ottenere lo scorporo dai calcoli di qualche «zero virgola» di investimenti, ma stiamo parlando di aspetti marginali che non cambiano il quadro di fondo. Se infatti si resta nel quadro delle regole esistenti, il rischio di asfissia e di mancanza di ossigeno è assolutamente concreto, e non sarà una miniconcessione (ammesso che arrivi) a scongiurarlo. Quel che conta, politicamente, è che anche il governo Renzi accetta di sottomettersi politicamente alla volontà di Berlino e Bruxelles. E infatti Renzi e Pier Carlo Padoan devono ammettere che tutto sarà affidato a come la nuova commissione Ue (e in particolare il successore di Olli Rehn) interpreterà le cose.

Servirebbe, invece, una strategia del tutto alternativa. Se non saremo capaci, come nel mio piccolo suggerisco da tempo (si veda il mio saggio “Per la rivincita: software liberale per tornare in partita), di sfondare autonomamente il limite del 3 per cento per un piano di consistenti tagli fiscali, per un vero e proprio choc fiscale positivo, ovviamente accompagnato da riforme e corrispondenti tagli di spesa, allora vorrà dire che l’Italia avrà deciso di autoconsegnarsi a un destino di non-crescita e di subalternità. E questo è a maggior ragione vero se vogliamo tornare alla crescita, tema su cui il governo Renzi andrà incontro a cocenti delusioni. Al suo arrivo, il governo Renzi previde per il 2014 una crescita dello 0,8 per cento. L’Istat ha fatto scendere la previsione allo 0,6, l’Ocse allo 0,5, la Confindustria addirittura allo 0,2. Nel frattempo sono arrivati i dati reali, relativi al primo trimestre 2013, che ci hanno portato addirittura sottozero, cioè a meno 0,1 per cento. Se questa è l’aria che tira, se poi Renzi conferma le sue scelte fiscali (sulla casa, sul risparmio…), e se poi restano anche i vincoli europei, come pensiamo di poter tornare a una crescita decente?

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Marco Cobianchi – Panorama

Secondo gli esperti un eccesso di informazioni può provocare ipertensione, vertigini, ansia, inappetenza. Le stesse sindromi dalle quali è affetto Carlo Cottarelli, commissario straordinario alla spending review, l’uomo chiamato a contribuire con un taglio alla spesa di almeno 14 miliardi di euro nella prossima imminente stesura della legge di stabilità 2015. Ebbene Cottarelli, si diceva, passa diverse ore al giorno sul sito del Siope, un software inventato e gestito dalla Banca d’Italia che raccoglie tutte le spese di tutti gli enti pubblici giorno per giorno. Bum! Il sogno di ogni italiano si è avverato: controllare quotidianamente come le amministrazioni pubbliche spendono i soldi delle sue tasse. L’ipertensione è garantita, ma la soddisfazione raggiunge il climax. Basta cliccare a caso e il web scodella tutte le uscite di quel giorno. Proviamo.

Il 12 marzo 2014 il premier annuncia la vendita su eBay delle auto blu, peraltro un flop con poco più di 20 vetture passate ai privati. Il giorno dopo lo Stato ha speso 5.170 euro in carburanti saliti a 6.200 il giorno dopo. Poco? A marzo in benzina se ne sono andati 4,2 milioni di euro. Sempre il 14 marzo lavanderia e pulizia sono costati 536mila euro, le armi leggere 65mila euro, i mobili per ufficio 180mila, la cancelleria 163mila e (tenersi forte) il vestiario addirittura 12,2 milioni.

Continuiamo, anche se l’ipertensione sale. Uno dei pezzi forti della spesa pubblica sono le consulenze. Secondo la Uil i professionisti dei quali si avvale lo Stato sono 545mila. Lo ha detto il 16 dicembre 2013 e, proprio quel giorno, se ne vanno 9.700 euro in consulenze giuridiche, 125mila per consulenze tecnico-scientifiche, 1,1 milioni in consulenze informatiche e 767mila in «altre consulenze». Il giorno dopo per consulenze giuridiche sono stati pagati 130mila euro, 228mila per quelle tecniche, 4 milioni per quelle informatiche e 1,1 milioni per «altre consulenze». Sempre quel 16 marzo 2013 Matteo Renzi dà del «buffone» a Beppe Grillo perché il leader del Movimento 5 Stelle non vuole votare le riforme istituzionali e intanto dalle casse dello Stato escono 9,2 miliardi tra cui: 40,8 milioni per aerei da guerra, 22 milioni per navi da guerra, 1,6 milioni per mezzi terrestri da guerra, 562mila per armi pesanti e 877mila per armi leggere. Sembrerebbe che l’Italia si stesse preparando a un’invasione e invece tutti i giorni lo Stato spende queste cifre in armi. Per esempio: il 2 maggio 2013, mentre Berlusconi e Renzi litigano sull’Imu, lo Stato paga 5,1 milioni per la manutenzione delle caserme oltre a 3 milioni per contenziosi verso i fornitori e perfino 103 euro per «Iscrizione ordine professionale», che dovrebbe pagare chi si iscrive, non lo Stato.

Ma il bello deve ancora venire. Vogliamo parlare dei sussidi alle imprese? Il 16 agosto 2013 debutta il redditometro che permette di incrociare le spese di ogni italiano e scovare gli evasori, ed esattamente quel giorno lo Stato versa alle imprese 5 milioni in sussidi, altri 2,4 due giorni dopo, 1,8 arrivano il 22 agosto e così via per tutti i giorni dell’anno, di tutti gli anni. Il totale è impressionante: nel 2013 i sussidi andati alle imprese sono stati 15,7 miliardi, e per fortuna che non c’erano i 25 milioni versati l’anno prima alla società Grandi stazioni che è controllata al 60 per cento dalle Fs ma il 40 è di soci privati (Benetton, Pirelli e Caltagirone).

Basta aggirarsi per qualche minuto per scoprire spese incredibili. Il 23 agosto l’allora ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni avverte che non ci sono i soldi per abolire l’Imu e proprio quel giorno lo Stato non solo spende 1 milione per i fabbricati militari ma soprattutto 128mila euro per «animali» che ci sono costati più di 1 milione in tutto il 2013 e sempre l’anno scorso un altro milione se n’è andato in «strumenti musicali»; 104 milioni in «vestiario»; 1,6 in assistenza «psicologica, sociale e religiosa»; 197 milioni in affitti; 51 milioni in bollette dei cellulari; 409 in pulizia e lavanderia; 127 milioni in traslochi e, soprattutto, 418 milioni sono serviti a pagare i premi del gioco del Lotto. Poi ci sono le bollette: uno si aspetta che la più alta sia quella per la fornitura di elettricità e invece è quella per l’acqua: 3,4 miliardi di euro nel 2013.

Tagli? Quali tagli? Risparmi? Quali risparmi? Stando al Siope, il Quirinale è costato esattamente la stessa cifra – 228,2 milioni l’anno – dal 2009 al 2013. E tale rimarrà fino al 2016 perché il presidente Napolitano ha rifiutato un adeguamento all’inflazione da 10 milioni di euro. Come dire, un risparmio percepito.

Meglio scendere dal Colle. Il 14 aprile di quest’anno il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio annuncia che quando sarà il momento di nominare i dirigenti delle aziende pubbliche il governo punterà alla parità tra uomini e donne e, proprio quel giorno, lo Stato stacca un assegno da 422mila euro per affitti di immobili. L’8 aprile Matteo Renzi presenta il Def (che prevede una crescita dello 0,8 per cento nel 2014: pura fiction) e quel giorno lo Stato paga 347mila euro in benzina, trasferisce 33 milioni alla presidenza del Consiglio (cioè a Renzi stesso) e compra 3,6 milioni in francobolli. Il 17 febbraio del 2012 l’Istat rivela che in 9 mesi si sono persi 90mila posti di lavoro e quel giorno lo Stato spende 44mila euro in «accessori per uffici». Il primo giugno 2012 il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, dice che in Italia le tasse sono troppo alte e mente lo dice lo Stato versa 316 milioni alle imprese pubbliche. Il 29 marzo del 2013 si scopre che le fatture non pagate dallo Stato alle imprese private valgono 90 miliardi e intanto 2,5 milioni se ne vanno in traslochi dei dipendenti statali, 900mila in affitti e 27 milioni alle «unioni di Comuni».

Ma più dei carri armati, del vestiario e delle bollette, ciò che pesa sul bilancio pubblico è l’Europa, i cui versamenti seguono un crescendo rossiniano: 15,4 miliardi nel 2008, 15,8 nel 2009, 15,5 miliardi nel 2010, 16,7 miliardi nel 2011, 16,4 miliardi nel 2012 e (record) 17,6 miliardi nel 2013. Per avere un’idea di cosa si sta parlando basta dire che sempre nel 2013 i trasferimenti alle famiglie sono stati appena 2,5 miliardi. E il 2012? Anno da incorniciare: oltre alle spese (diciamo) normali, abbiamo pagato 5,7 miliardi per garantire la «stabilità finanziaria dell’area euro» e 1,1 miliardi per salvare la Grecia ma abbiamo anche speso 93 milioni a favore dei «soggetti danneggiati da complicanze dovute a vaccinazioni obbligatorie ed emotrasfusioni» e 66 milioni per lo smantellamento di sommergibili nucleari, mentre per altri 82 milioni «non si dispone di sufficienti informazioni». Tradotto: nessuno sa dove siano finiti.

Poi ci sono le spese dei Comuni e qui c’è da perdersi, anzi, da svenire, soprattutto se si pensa che nell’era di Internet il Comune che si autopromuove il più moderno d’Italia, Milano, è riuscito in sei anni a raddoppiare le spese postali, passate da 14 milioni nel 2008 a 31 nel 2013. Certo, le spese per convegni sono passate da 22,2 a 3 milioni ma la spesa pro capite per i consumi intermedi (quelli che servono a far funzionare la macchina pubblica) sono, a Milano, non solo più alti della media delle grandi città italiane, 1.300 euro rispetto a 955, ma anche di Roma (1.089), Napoli (1.088) e Palermo (587). Poi c’è il capitolo tasse. Chi vive nei grandi Comuni paga mediamente 750 euro ma i milanesi versano 785 euro, i torinesi 766, i romani 729, i catanesi 655 e i fiorentini 847. A proposito: tra il 2009 e il 2013 Firenze è stata una delle pochissime città che ha aumentato il proprio budget, passato da 746 a 840 milioni. Il premier che ora vorrebbe tagliare la spesa pubblica è quello che a Firenze ha aumentato le spese correnti da 485 a 593 milioni riuscendo anche nell’impresa di triplicare le uscite per liti giudiziarie, che sono passate 493mila del 2009 a 1,4 milioni nel 2013 mente le sentenze avverse al Comune sono costate 866mila euro dagli 8.600 del 2009: sono centuplicate. Nel 2013 Renzi ha anche speso 3mila euro per animali, 165mila euro per vestiario e oltre 4 milioni in francobolli (oltre 5,5 milioni di lettere ai 350mila fiorentini?). Stando alle fatture pagate, i dipendenti pubblici di Bologna sono i più eleganti d’Italia: 430mila euro, anche se il budget è calato da 641 a 590 milioni. Un bilancio ridicolo di fronte a uscite per l’incredibile cifra di 6,3 miliardi di Roma, che nel 2013 ha speso 98 milioni in consulenze; 11 milioni in convegni, 56 milioni di francobolli (erano 11 nel 2012) e 115 milioni in affitti (107 nel 2012).

Probabilmente Cottarelli sarà iperteso, ansioso e inappetente e soffrirà di vertigini. Perché si è reso che per tagliare la spesa pubblica non bastano le forbici. Ci vuole una motosega.

Settembre sarà subito da brivido

Settembre sarà subito da brivido

Gustavo Piga – Panorama

Godiamoci questo agosto non pensiamo al rientro, perché a settembre saremo immersi in un dibattito dagli esiti imprevedibili sul come consolidare i conti pubblici di circa 30 miliardi nel 2015, via aumento di tasse e tagli di spesa, chiesto dall’Europa. In attesa che Renzi riesca a ottenere una moratoria sull’ottuso Fiscal compact, appoggiato anche dal referendum contro l’austerità per il quale stiamo raccogliendo le firme in tutta Italia, è d’obbligo chiedersi cosa si sta facendo per ridurre il tremendo impatto che potrebbe avere la manovra di cui sopra. Saprà il governo identificare in pochi mesi gli sprechi dentro la spesa ed evitare tagli di appalti a casaccio che uccidono imprese e occupazione? Filtrano poche informazioni. Alcune inducono a sperare, altre preoccupano. Tra le prime è la crescente collaborazione tra le istituzioni rilevanti per la spending review. Ne è prova la fusione tra Autorità Anticorruzione e Autorità per la vigilanza su contratti pubblici per migliorare le sinergie ispettive su una materia, gli appalti pubblici, che genera il 15 per cento del pil. Ma anche la lettera congiunta di Cantone e Cottarelli a 200 stazioni appaltanti che parrebbero non aver osservato l’obbligo di acquistare presso la Consip. Tra le seconde, spicca la decisione di dare rilievo decisionale al massimo a 35 stazioni appaltanti. Se è un bene ridurne il numero (sono decine di migliaia), preoccupa una scelta che rischia di far crescere la dimensione media delle gare escludendo il tessuto delle piccole imprese. Significherebbe non solo perdere i risparmi derivanti dal minor numero di stazioni appaltanti a causa della minore concorrenza, ma aggiungervi una minore competitività come Sistema Paese.

L’inutile addio al Registro imprese

L’inutile addio al Registro imprese

Sergio Luciano – Panorama

La Madia lo fa, la Guidi non lo sa. Ma Renzi sì. Si parla del Registro imprese, che un disegno di legge delega allo studio della presidenza del Consiglio su proposta del ministero per la Semplificazione e per la Pubblica amministrazione (gestione Marianna Madia) intende sottrarre alle Camere di Commercio, cui è oggi attribuito da una legge del ’93, e trasferirlo al Mise, il ministero per lo Sviluppo economico (gestione Federica Guidi). Al Mise spetta già la vigilanza del sistema camerale ma per ora nessuno sa nulla di ufficiale su questo trasloco del registro. Surreale, ma c’è di più. Il cosiddetto “Decreto P.A.” si è già occupato del Registro imprese per disporre il dimezzamento, da subito, della tassa annuale che oggi le imprese pagano alla Camera di Commercio. E così il presidente dell’Unioncamere Ferruccio Dardanello si è presentato l’8 luglio alla commissione Affari costituzionali della Camera per chiedere una gradualizzazione del taglio al diritto annuale. Già: ma nel frattempo Palazzo Chigi lavora per sottrarre del tutto il Registro alle Camere, altro che dimezzare la tassa. Un po’ di caos tra Palazzi, insomma. E a favore di chi? Chi, cioè, si avvantaggerebbe del trasferimento del Registro? Al Mise non sarebbero attrezzati per sbrigarsela da soli: non hanno strutture informatiche né reti sul territorio idonee. Un appaltatore esterno scelto a gara? Ovvio. Ma una prospettiva del genere scatena le dietrologie. E c’è chi parla di una cordata confindustriale desiderosa di spolpare l’osso delle Camere di Commercio, scippandogli i flussi di cassa del Registro. Un complotto alla Spectre, ma con una sceneggiatura alla Brancaleone: per ora, soprattutto, uno dei sintomi dello iato che c’è tra l’attivismo del governo e la capacità realizzativa dei suoi esponenti…