pil

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri il direttore generale della Banca d’Italia ha detto che la nostra ricchezza nel primo trimestre di quest’anno dovrebbe crescere. Salvatore Rossi ha anche sostenuto che potrebbe essere il primo di una serie di dati positivi che ci potrebbero accompagnare fino al 2016. Meglio di niente. Ma è ancora presto per brindare.

Prima considerazione. Tra il 1995 e il 2007 l’Italia è cresciuta ad un tasso medio dell’1,5 per cento. Poi, dopo la crisi americana dei subprime, il disastro (con una relativa calma nel biennio 2010-2011). Si può dire che dal 2008 al 2014 abbiamo bruciato ricchezza per più di 300 miliardi, tra mancata crescita e la riduzione del Pil vera e propria. Roba da far tremare i polsi. Fortunatamente gli italiani hanno accumulato, forse proprio grazie al debito pubblico, un’enorme ricchezza privata. Che oggi stanno usando per tamponare la crisi. Per recuperare questo salasso dovremmo crescere ad un tasso del 2,5 per cento annuo per i prossimi venti anni. Neanche uno stuntman del gioco d’azzardo ci metterebbe un euro sopra. Insomma è difficile pensare che quel che abbiamo perso si possa recuperare nel medio periodo. I tassi di crescita di cui si parla in Bankitalia (o quelli più ottimistici del governo) sono più vicini all’1 per cento che al 2. E per di più nessuno scommette che ciò possa avvenire ininterrottamente per i prossimi 80 trimestri (cioè i venti anni di cui sopra).

Seconda considerazione. Ci sono delle congiunzioni astrali piuttosto buone a saperle sfruttare. Intanto il cambio euro-dollaro (compresi i cross con il franco svizzero e le molte monete che molleranno tra poco) è sceso a livelli che rende molto competitiva l’industria italiana. E ciò avviene proprio nel momento in cui comprare petrolio (cioè energia per far girare le fabbriche) è particolarmente conveniente. Il combinato disposto di euro svalutato (come una liretta qualsiasi) e petrolio sotto i 50 dollari rappresenta un sogno per chiunque produca nel Belpaese. Nel passato alla svalutazione della nostra moneta corrispondeva un incremento della bolletta energetica. A ciò si aggiunga una tenuta dei prezzi (addirittura si parla di deflazione) che potrebbe essere manovrata per il verso giusto. Ops. Dimenticavamo: mai come in questo periodo i tassi di interesse sono stati ridicolmente bassi.

Sintesi finale. Quel che manca è un catalizzatore. Un lievito per far girare tutto nel verso giusto. Gli ingredienti sono buoni, di prima qualità. E sette anni di recessione (con alti e bassi) hanno spinto in giù la molla della nostra economia, pronta a scattare. Serve fiducia. La parola magica. Fiducia dei consumatori che riprendano a spendere, e fiducia delle imprese che riprendano a investire. Sergio Marchionne ha fatto entrare proprio ieri, a Melfi, 300 nuovi operai. Può essere un primo segnale. La politica, il governo deve alimentare un percorso virtuoso, fatto di regole certe (per investire), meno burocrazia (per lavorare) e meno tasse (per competere). La politica non può far molto perché le fabbriche producano meglio, ma purtroppo ha fatto davvero troppo perché esse si fermino. Quel che ora manca è dunque un elemento impalpabile ma pesantissimo.

Cordata Italia

Cordata Italia

Davide Giacalone – Libero

Arrivare in fondo all’anno è l’occasione per misurarsi con il passato e prendere le misure al futuro reale. Se guardate le previsioni che ci riguardano, relative al prodotto interno lordo 2015, vi accorgete che non hanno senso. Variano troppo, andando da una crescita dello 0,1 a una dello 0,8. La migliore è troppo poco. E allora? Se immaginiamo l’anno che finisce come ad una scalata, ci accorgiamo che alcuni membri della cordata sono riusciti a salire più su, mentre altri sono andati più giù. Il baricentro complessivo s’è abbassato, segno che non solo il corpaccione non tiene il ritmo dei più bravi, ma costituisce un peso morto che scende più velocemente di quanto quelli salgano. Dato che il problema collettivo è quello di riagguantare non la crescita dei cinesi, ma l’arrampicarsi degli italiani che stanno in cima, la prima domanda da porci è: chi sono? Sono quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno stretto i denti, tirandosi su anziché lasciarsi pendolare.

Sono gli italiani che hanno spinto la crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+15% a novembre, dati Istat) e verso il Sud Est asiatico (+19,7). Siamo cresciuti esportando verso i paesi Opec (+ 3,8), come anche in Svizzera (+4). Siamo scesi dove le crisi politiche o economiche hanno lasciato il segno: Russia, Giappone, Mercosur. L’esportazione di prodotti per la cosmesi ha segnato, nel 2014, un +5,5%. In Cina siamo cresciuti meno che nel passato, ma più di quanto siano cresciuti i tedeschi, le cui aziende hanno un accesso al credito più facile e meno costoso. In Cina, poi, abbiamo messo a segno importanti successi nel settore alimentare, rendendo proceduralmente sicura l’esportazione di latte, prosciutti e insaccati. Nel settore navale Fincantieri si consolida protagonista globale. Questo, e altro, non significa che in testa alla cordata sia una passeggiata. Si suda e sbuffa, ma non si molla.

Tre categorie di italiani che lo rendono possibile. Le imprese, che diminuiscono i margini di guadagno, pur di non perdere quote di mercato e clienti. Che migliorano continuamente il prodotto, interpretando correttamente la globalizzazione. I lavoratori, che aumentano impegno, professionalità e flessibilità (si pensi a molti giovani e alle partite Iva, irragionevolmente bastonate), pur di non perdere il lavoro. Le famiglie, che quando possono aumentano il risparmio, sapendo che la sicurezza futura dipende da loro stesse. Non è un’Italia deamicisiana, ma di quello stampo ricorda l’impegno, la serietà e la previdenza.

Questi italiani, attaccati alla roccia e interpreti di un destino antico e nobile, hanno alla vita una corda che lo Stato continua a strattonare verso il basso. Non sono un sostenitore delle teorie anti-Stato (semmai il contrario), ma vedo una scena raccapricciante: cittadini che aumentano sforzi e diminuiscono pretese, zavorrati da uno Stato che accresce le pretese fiscali diminuendo (se possibile) la qualità dei servizi che rende. A cominciare da giustizia e burocrazia. E siccome molti pensano che lo Stato sia la soluzione, e non il problema, ecco che l’andazzo fa da alibi a quanti (troppi) suppongono che la loro condizione di disagio non dipende dal fatto che non producono un accidente, ma dalla eccessiva velocità e cupidigia con cui si muovono quelli che stanno in cima. E’ l’alibi mortale: fermare i veloci, anziché mettere pepe al sedere dei bradipi. Questa massa inerte viene illusa da chi le fa credere che nessuna colpa sia nostra e tutte siano altrui. Si coltiva la corruzione della memoria, facendo credere l’incredibile, ovvero che con una valuta nazionale potremmo svalutare e inflazionare impunemente. Come se questa non fosse proprio la condizione che ci ha ficcati nel toboga del declino. Tale sciocca e colpevole illusione fa credere che si debbano adottare politiche premianti i discendenti anziché gli ascendenti. Tutto qui.

Guardando verso l’alto abbiamo la certezza di un’Italia che può e sa correre, trascinando tutti verso nuove vette. Guardando verso il basso si è presi dalla vertigine di un declino che degenera in degrado, alimentando rabbia e insensata rivalsa. Avendo smarrito il senso politico e cardinale di destra e sinistra, sarebbe saggio adottare un orientamento fatto di alto e basso. Farlo è più facile che dirlo. Non farlo è assai più pericoloso che ignorarlo. Perché la lussuria dell’abisso porta con sé il precipitare nell’imbarbarimento. Se consapevoli, lungo tutta la cordata, non ci farà paura mollare i pesi inutili e dannosi, ma il tenerceli stretti. Come molti continuano a fare.

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

Giuseppe Pennisi – Il Sussidiario.net

Sarebbe ingeneroso commentare il semestre in cui l’Italia ha avuto il compito di presiedere gli organi di governo dell’Unione europea raffrontando le aspettative suscitate dalle promesse dello scorso maggio/giugno con i risultati quali si possono constatare a fine dicembre. Le promesse contengono sempre una buona dose di retorica e si è puntato molto in alto (un’interpretazione  e tensiva di trattati e di accordi inter-governativi in materia di flessibilità) allo scopo di raggiungere  obiettivi più modesti, quali lo scomputo degli investimenti pubblici dal calcolo dei parametri  attinenti al rapporto tra indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e Prodotto interno lordo (Pil). In effetti di concreto si è ottenuto molto poco: lo “scomputo” sarà consentito all’Italia, e ai nostri partner, unicamente per gli investimenti attinenti al quel “piano Juncker” che, come abbiamo scritto, si regge su complicate e strane alchimie e forse non decollerà mai.

Occorre dare atto alla tenacia e all’energia del Presidente del Consiglio, tuttavia, di aver contribuito alle richieste di altri Capi di Stato e di Governo di riportare il tema della crescita nell’agenda europea. Dobbiamo anche dare atto che il semestre ha avuto luogo in un momento particolarmente infausto caratterizzato dal cambiamento della Commissione europea, da un’eurozona additata dal G20 come il grande malato dell’economia mondiale, da una guerra al confine orientale (Ucraina-Russia) e dal Medio Oriente in subbuglio con il sorgere dell’Isis.

La crescita è tornata tra i temi dell’agenda europea, ma non è certo che ne sia l’argomento centrale. Perché l’Italia possa proporre, in seno agli organi Ue, che la crescita abbia un ruolo maggiore deve, innanzitutto, uscire dalla condizione di ultimo della classe, “rimandato e declassato” come ricordato su queste pagine. È necessario ammettere che Governo e Parlamento non hanno dato un bello spettacolo nel completare la Legge di stabilità con il voto di fiducia su un maxiemendamento le cui coperture non sono certe.

Ci sono casi, specialmente se si è stati rimandati agli esami di riparazione, in cui è preferibile qualche settimana di esercizio provvisorio per mettere bene a punto la normativa e presentarsi agli “esaminatori” con un compito ben fatto. Sarebbe disastroso se la prima relazione di cassa, coincidente con la verifica europea del “caso Italia”, mostrasse che siamo stati frettolosi e pasticcioni. Inoltre, le prospettive per il futuro non sono rassicuranti. Abbiamo spesso fatto riferimento alle stime del gruppo del consensus (20 istituti privati econometrici) che, però, hanno una durata di 24 mesi. Rivolgiamoci ad alcune a medio e lungo periodo approvate dai rappresentanti ufficiali del Governo italiano. Le più ottimiste sono quelle della Commissione europea, che mostrano una graduale ripresa sino a raggiungere il tasso di crescita dell’1,1% nell’ipotesi di energiche riforme dei mercati dei prodotti e dei servizi e di un serio programma di privatizzazione. L’Ocse vede un ritorno a un tasso crescita del 2% verso il lontano 2025 , sotto l’ipotesi di politiche ottimali, per poi riprendere a scendere a ragione dell’invecchiamento della popolazione. Per il Fondo monetario internazionale si giungerebbe a un tasso di crescita dell’1,3% (sempre con politiche ottimali) ma subito dopo tornerebbe il declino. L’ufficio studi economici ci vede ansimanti alla ricerca di un tasso di crescita dell’1% l’anno. Se dai grafici e dalle tabelle si passa ai testi, due sono i temi di fondo: la produttività dei fattori e il peso del debito. Sono stati affrontati con l’energia del caso nel corso del semestre? Ce lo chiediamo.

L’impresa al centro

L’impresa al centro

Bruno Villois – La Nazione

Il Centro Studi di Confindustria azzarda una previsione di Pil lievemente positivo per il 2015, con un +0,5%. Stessa ipotesi di ripresa, però, era stata fatta per l’anno in corso e per il precedente. L’analisi parla anche di consumi che risalgono, dono sei anni di crisi, recuperando un mezzo punto percentuale. A breve uscirà anche la previsione di Confcommercio e si vedrà se va anch’essa verso un orizzonte economico con mini squarci di sereno. Di certo qualche segnale di miglioramento è già arrivato quest’anno dalle vendita delle auto con un + 5%, dal calo della cassa integrazione, positivo però solo dal trimestre in corso, e infine dalla ripresa delle trattazioni immobiliari, anche per i livelli medi. Quindi la previsione di Confindustria, che ha nei suoi capisaldi anche gli ordini dell’industria e la fiducia degli imprenditori, potrebbe avere piu fondamenta degli anni precedenti. Con una ripresa di 0,5% succederà ben poco dal punto di vista reale e la disoccupazione continuerà a crescere, sfondando i record attuali. La disoccupazione rappresenta il primo effetto della crisi del nostro sistema imprenditoriale, schiacciato dalla crisi globale e da una debolezza dovuta ad imprese troppo piccole, fortemente indebitate e con serie difficoltà ad investire in modernizzazione e quindi innovazione, ricerca, formazione permanente.

Correggere e migliorare il sistema imprenditoriale nostrano sarà opera complessa. Il governo dovrebbe mettere al centro della sua agenda l’impresa e come sostenerne, attraverso una politica industriale ancor oggi inesistente, il rafforzamento, facilitando fusioni, incorporazioni, quotazioni in Borsa. In assenza di un progetto complessivo che contenga la riduzione delle pressione fiscale, il ridimensionamento e lo snellimento della burocrazia, l’accesso al credito, almeno parzialmente, garantito da Cassa Depositi e Prestiti, sarà molto difficile se non impossibile ridare smalto al nostro Pil. Senza un ‘impresa più forte e quindi maggiormente in grado di competere in ogni dove, non si può realizzare una consistente e duratura ripresa, con un’occupazione stabile e una adeguata redditività in modo da ottenere flussi di cassa fondamentali per poter investire e quindi modernizzarsi e crescere.

Consumi fermi, investimenti a picco

Consumi fermi, investimenti a picco

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

L’Istat conferma: nel terzo trimestre del 2014 il Prodotto interno lordo è rimasto in zona negativa e si è ridotto dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. La foto dettagliata del paese fornita ieri attraverso i conti economici trimestrali è perfino più scura di quanto già non si fosse capito attraverso la stima-flash. In primo luogo, infatti, la riduzione tendenziale del prodotto nei tre mesi compresi fra luglio e settembre 2014 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente è risultata pari allo 0,5% (nella stima flash si parlava di -0,4 per cento). Di conseguenza, ora, la variazione acquisita dell’attività produttiva per l’anno in corso, vale a dire la crescita che si avrebbe ipotizzando un quarto trimestre a incremento nullo, è pari a -0,4 per cento. Ma il fatto è che i dati di ieri mettono in evidenza la particolare debolezza della domanda interna nel nostro paese: rispetto al trimestre precedente, spiega infatti il comunicato dell’istituto, i consumi sono rimasti fermi mentre gli investimenti fissi lordi sono scesi addirittura dell’uno per cento; le esportazioni dal canto loro sono aumentate dello 0,2% mentre le importazioni sono diminuite dello 0,3 per cento.

C’è poi chi fa notare che lo storico traino della ripresa italiana, ovvero le esportazioni, stavolta ha funzionato poco, penalizzato dalla crescita inferiore alle attese di paesi emergenti ed Europa e dalle sanzioni Ue alla Russia: «Manca una stabilizzazione economica perché non c’è l’apporto del driver più importante, l’export, che avrebbe dovuto innescare la ripresa degli investimenti» commenta Riccardo Barbieri, di Mizuho. Quanto ai consumi, nei dati disaggregati è da notare il miglior andamento della spesa delle famiglie (+0,1%) rispetto a quella pubblica (-0,3%). Da un lato il lieve rialzo dei consumi privati beneficia molto probabilmente della introduzione del bonus da 80 euro per i redditi più bassi, dall’altro pesano l’attuazione della spending review e, a livello locale, del patto di stabilità interno.

In pratica i timori sul rischio deflazione espressi ieri dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sono più che giustificati, oltre che per l’Eurozona, per il nostro paese. A proposito di prezzi impliciti, l’Istat rimarca che il deflatore del Pil è diminuito dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il -0,1 per cento congiunturale del Pil realizzato dal nostro paese si confronta infatti con un aumento dello 0,2% della media di Eurolandia mentre il meno 0,5% tendenziale si misura con un +0,8% tendenziale dell’Eurozona. Insomma, è vero che in tutto il continente l’economia, più che crescere, sta ancora strisciando. Però l’Italia durante l’estate era ancora in recessione e solo per 1’ultimo scorcio dell’anno si incominciano a intravvedere segnali di stabilizzazione per l’attività produttiva, che prima o poi dovrebbe beneficiare della forte contrazione in atto nei prezzi petroliferi.

Intanto, però, anche sul lato dell’offerta i dati Istat relativi all’estate mettono in evidenza che la dinamica congiunturale è stata negativa per il valore aggiunto dell’agricoltura (-0,1%), dell’industria in senso stretto (-0,6%) e delle costruzioni (-1,1%) mentre il valore aggiunto dei servizi è rimasto stazionario. In termini tendenziali (terzo trimestre 2014 su terzo 2013) la caduta più forte è il meno 3,5% del settore delle costruzioni, seguito dal -1,1% dell’industria in senso stretto,dal -1,3% dell’agricoltura e dal meno 0,1% per i servizi.«È l’ennesima conferma di una situazione ancora critica per l’economia italiana» commenta l’ufficio studi della Confcommercio. Sebbene la dinamica dell’attività produttiva sia meno negativa rispetto a quanto registrato tra la fine del 2012 ed i primi mesi del 2013 – è la conclusione – non si scorge una sicura via d’uscita dalla recessione ormai triennale».

Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

L’Italia è alle prese con una nuova sfida, ma a Roma e a Milano pare non accorgersene nessuno. Se ne parla in cenacoli come quelli dello Iai, dell’Ispi, della Fondazione Ugo La Malfa, dell’Istituto Bruni Leoni, ma non si è sentita voce istituzionale. Neanche un tweet dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi o dai Ministri preposti (Affari esteri e Sviluppo economico) o da enti sempre sul punto di essere chiusi o riformati, come l’Ice. Proprio a quest’ultimo, la nuova sfida darebbe spunto per una nuova e più forte ragione di vita.

In breve, la globalizzazione che sembrava sgretolarsi dopo la crisi del 2008 è tornata alla grande. Questa è la conclusione a cui giungono Pankaj Ghemawat della Stern School della New York University e Steven Altman della Business School dell’Iese. Hanno compilato il Global Connectedness Index della Dhl sulla base di dati di 140 paesi che rappresentano il 99% del Pil e il 95% della popolazione mondiale. Utilizzano una vasta congerie di indicatori per misurare l’ampiezza e la profondità dell’integrazione internazionale: flussi commerciali, movimenti di capitale, migrazioni, rapidità e diffusione delle informazioni.

Secondo lo studio, dopo un arresto nel 2008-2009, la globalizzazione ha ripreso, più in profondità che in ampiezza. L’eurozona è rimasta un po’ all’angolo (e l’Italia in particolare è tra i fanalini di coda). Soprattutto, dopo una fase della globalizzazione pilotata dal mondo “avanzato” occidentale, adesso le imprese dei grandi paesi occidentali stanno rispondendo stancamente, e con un colpevole ritardo, alla tendenza, con il rischio di trovarsi spiazzate sui mercati più dinamici. Nel 2013, ad esempio, i Paesi in via di sviluppo emergenti hanno rappresentato (con il 36% della popolazione mondiale) il 17% degli utili delle cento maggiori imprese internazionali. L’anno scorso i paesi che hanno “globalizzato” di più (abbattendo barriere) sono quelli dell’America Latina e dei Caraibi. Particolarmente veloce, la globalizzazione delle informazioni, in accelerazione dal 2010.

Tra gli indicatori di integrazione internazionale, mentre i flussi finanziari sono in ripresa, preoccupa il commercio. Nel lontano autunno 2000, nell’ambito della Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) si aprì a Doha un negoziato multilaterale che avrebbe dovuto rimuovere le ultime restanti restrizioni agli scambi internazionali, particolarmente nei comparti dell’agricoltura e dei servizi. Sinora il negoziato non ha portato a nulla di concreto. È nel frattempo scaduta “l’autorizzazione” data dal Congresso americano al Presidente di presentarne i risultati per una ratifica in blocco.

C’è stato un pullulare di accordi bilaterali che hanno reso il commercio internazionale un vero e proprio labirinto. Su proposta della Casa Bianca sono iniziati negoziati per due vaste aree di “partnership” economica e commerciale – attraverso l’Atlantico e il Pacifico. Queste due trattative stanno proseguendo. Purtroppo, l’Italia pare schierata con la Francia in materia di “eccezioni culturali” (un termine nobile per indicare meno nobili protezioni dell’audiovisivo), dimenticando che un commercio più libero è la premessa per un mondo più libero. Speriamo che cambi idea e linea.

Anche e sopratutto perché il 13 novembre, gli Stati Uniti e l’India hanno raggiunto, dopo anni di trattative che bloccavano il negoziato multilaterale, un accordo sul commercio agricolo (in particolare sugli stoccaggi delle derrate alimentare) a cui si lavorava sin dal Kennedy Round degli anni Sessanta del secolo scorso. Non è questa la sede per analizzare i dettagli tecnici di un accordo, i cui lineamenti erano già stati posti alla riunione ministeriale Wto in dicembre 2013 a Bali. Secondo stime dell’ufficio del Rappresentante speciale del Presidente Usa per i negoziati commerciali – se sbloccato questo nodo la trattativa multilaterale si riapre -, l’accordo potrebbe portare a 21 milioni di nuovi occupati e aggiungere mille miliardi di dollari al Pil dell’economia mondiale. I Paesi in via di sviluppo dovrebbero fare uno sforzo in investimenti, anche infrastrutturali, per gli stoccaggi.

Occorre a questo punto chiedersi quale è la posizione del Governo italiano in sede di Unione europea (la Commissione europea negozia per tutti in base al Trattato di Roma) e se siamo pronti a rimuovere la nostra pregiudiziale sulla “eccezione culturale”. Si gradisce risposta.

Il calo del Pil abbatte le future pensioni

Il calo del Pil abbatte le future pensioni

Vitaliano D’Angerio e Matteo Prioschi – Il Sole 24 Ore

Effetto Pil sulle pensioni. Perla prima volta dalla riforma Dini (1995), quanto messo da parte per la pensione non sarà rivalutato. Anzi. Dal “salvadanaio previdenziale” verranno invece tolti dei soldi. Il motivo è tutto in una percentuale: -0,1927 per cento. È il tasso di capitalizzazione 2014 per la rivalutazione dei montanti contributivi che viene calcolato ogni anno dall’Istat sulla base della serie storica del Pil (ultimi 5 anni). Quest’ultimo non cresce dal secondo trimestre 2011 e soprattutto sconta ancora il -5,5% registrato nel 2009. Il 27 ottobre scorso, ministero del Lavoro e Istat hanno inviato a ministero dell’Economia, Inps e Casse di previdenza un documento che sancisce il coefficiente negativo. «Si sottolinea che per la prima volta dall’entrata in vigore della legge sopra citata – si legge nel documento Istat – il coefficiente di rivalutazione risulta inferiore all’unità, a causa della dinamica negativa del Pil nominale nel periodo considerato».

Il «taglio»
La gravità del momento emerge anche dal testo della lettera. Ma che significa nel concreto?
Esempio: i 10mila euro versati fino a oggi nel corso della vita lavorativa andranno moltiplicati per 0,998073. Risultato? 9.980,73 euro. Senza dimenticare che in termini reali, e quindi al netto dell’inflazione, le pensioni contributive avevano già perso potere d’acquisto. «Decurtare una parte del montante contributivo è un fatto scandaloso – dichiara Giuseppe Romano, responsabile ufficio studi Consultique ed esperto di previdenza -. Tanto più che si arriva a tale decisione dopo l’inasprimento fiscale sulla previdenza integrativa».

Vale per tutti
Inoltre va ricordato che l’applicazione del tasso negativo riguarda tutti e non solo coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995, post legge Dini: la riforma Monti-Fornero del 2011 ha infatti stabilito il metodo contributivo pure per le persone che hanno iniziato un’attività lavorativa prima del 1995, in relazione ai contributi versati a partire dal 2012. Per questo motivo, diventa sempre più urgente la “busta arancione” ovvero l’estratto Inps con le stime della pensione attesa dal varo della riforma Dini. Il direttore generale Inps, Mauro Nori, ne ha garantito l’invio entro dicembre nella recente audizione alla commissione bicamerale di vigilanza.

Casse in movimento
Ci sono poi alcune Casse di previdenza che, in virtù della loro autonomia, hanno chiesto ai ministeri competenti di utilizzare un altro tasso di rivalutazione. È il caso dei consulenti del lavoro (Enpacl) e degli ingegneri (Inarcassa). «L’assemblea ha approvato questa modifica – spiega Alessandro Visparelli, presidente Enpacl -. Attendiamo la risposta. Agganceremo la rivalutazione al gettito contributivo complessivo della categoria. È previsto un rendimento minimo dell’1,5%». Stesso discorso per ingegneri e architetti che, dopo il via libera dei ministeri, legheranno la rivalutazione alla variazione media quinquennale del monte redditi degli iscritti. Anche qui vi è un rendimento minimo dell’1,5 per cento. A tale modifica infine vi sta lavorando pure l’Enpap, l’ente di previdenza degli psicologi: «Sì, stiamo pensando anche noi di individuare un diverso tasso di rivalutazione con la garanzia di un rendimento minimo», afferma Federico Zanon, vicepresidente di Enpap.

Fondi pensione e Tfr
Un valore minimo per il tasso di rivalutazione “generale”, invece, per il momento non è previsto da alcuna norma. A fronte del recente andamento dell’economia e delle previsioni per i prossimi anni, sarebbe opportuno un intervento legislativo che escluda la possibilità di applicare un tasso negativo, impedendo così l’erosione del montante accumulato, oppure consenta un’erosione “controllata” che nella peggiore delle ipotesi annulli le rivalutazioni degli anni precedenti ma non intacchi il capitale versato. L’applicazione di un indice negativo a un singolo anno non incide in modo consistente sulla pensione però si deve tener conto che ciò potrebbe ripetersi in futuro e che l’importo complessivo dell’assegno su cui potranno contare i lavoratori potrebbe ridursi ulteriormente quale effetto di due provvedimenti contenuti nel disegno di legge di Stabilità: l’opzione, per tre anni, di incassare subito il Tfr e l’aumento della tassazione sui fondi di previdenza complementare e le Casse dei professionisti.

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Anni di tagli alla spesa pubblica non compensano il calo del Pil. È la rozza sintesi della lunga crisi italiana, che si avvita su se stessa nel titanico sforzo di rientrare nei fatidici “parametri europei”. Solo la risalita del Pil potrebbe invertire le tendenza. Ma se il Pil non risale? Noi inesperti di economia ci permettiamo di domandarsi dove sta scritto che la produzione di beni e di ricchezza sia soggetta sempre e comunque a riprendere la sua corsa verso “le magnifiche sorti e progressive”. Nella Ginestra Leopardi usò quella fortunata espressione come amaro dileggio del cieco ottimismo umano. Liquidarlo come gufo – specie oggi che Leopardi è diventato ‘quasi pop’ anche grazie al bel film di Martone – non è un’operazione agevole.

Si vorrebbe tutti essere speranzosi e di buon umore, ma il sospetto che l’uscita dalla crisi si fondi su una sorta di ‘pensiero magico’, secondo il quale se oggi piove domani è automatico che ci sia il sole, è piuttosto forte. Nel frattempo, sempre da inesperti che si inchinano all’alto magistero di chi sa bene come funzionano le cose, qualcuno a Strasburgo o nelle varie capitali europee si sta chiedendo che fare se perfino in Germania il buon vecchio Pil si rifiuta, come un somaro recalcitrante, di rimettersi in moto. Esiste un piano B?

Le vere risposte che l’Italia doveva dare a Bruxelles

Le vere risposte che l’Italia doveva dare a Bruxelles

Massimo Blasoni – Formiche

Martedì è arrivato lo scontato “via libera” europeo alla manovra italiana: un dato atteso ma non banale perché costringe il nostro governo ad uno sforzo ulteriore per far calare il deficit strutturale dello 0,3% del Pil. In parole povere si tratta di reperire ulteriori 4,5 miliardi di euro che saranno in larga parte garantiti dal fondo nato per abbattere la pressione fiscale. Lo stesso ministro Padoan ha ammesso come si tratti tutto sommato del “male minore” e di una mossa che benché finisca per indebolire l’effetto espansivo della manovra, ci rimette in linea con i desiderata europei.
In questi anni la nostra adesione all’Unione ci ha garantito stabilità, un mercato libero e un progresso sociale e civile innegabile. Dal 2011 in poi, però, l’Eurozona ha iniziato a palesare alcuni suoi limiti politici: posti davanti alla sfida della Grande Crisi, forse anche peggiore di quella del ’29, gli organismi comunitari non sono stati capaci di liberarsi da una visione burocratica e tecnicista, rimanendo impigliati in numeri, percentuali, meccanismi probabilmente superati dal tempo straordinario che stiamo vivendo.
Continua su “Formiche”
La scommessa con Bruxelles e il giro di boa

La scommessa con Bruxelles e il giro di boa

Oscar Giannino – Il Messaggero

La legge di stabilità varata ieri dal governo è una sfida: all’Europa, ai mercati e, in chiave interna, soprattutto alle imprese italiane. È una sfida che in Parlamento non avrà vita facile, come si è visto già dal singolo voto di margine con cui è stata approvata la nota di variazione del Def. Ma per Renzi è la sfida complessiva del suo governo. Vedremo presto se l’Europa – la vecchia commissione Barroso, la nuova Juncker – accetteranno il criterio avanzato da Renzi e Padoan. Quanto ai mercati, è un’incognita vera, come si è visto dalla traumatica giornata di ieri. Per le imprese, al contrario, l’occasione c’e. Ma bisogna stare attenti a non sopravvalutarla.

Il problema con l’Europa è che la sospensione unilaterale adottata dall’Italia della riduzione del deficit per mezzo punto annuo, e di un ulteriore margine di quasi 2 punti di Pil per ridurre il debito pubblico – che continuerà ad aumentare – si fonda su un criterio statistico di identificazione dell’ouput gap, cioè del divario tra andamento reale del Pil e quello potenziale, effetto della perdurante recessione italiana. Il criterio condiviso sin qui tecnicamente in Europa ci metteva al riparo da interventi su un deficit 2014 che sara superiore al 3%, ma non da quelli richiestici nel 2015. Com’è ovvio, il problema non è tecnico, ma politico. La scommessa di Renzi e Padoan è che la Francia sta peggio di noi, visto che noi rinviamo al 2017 l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo mentre la Francia fino al 2017 non scende sotto il 3%. Ma il problema resta. Se l’Europa ci farà obiezioni dure non a caso il governo si tiene a disposizione un fondo di riserva quantificato in 3,4 miliardi di euro nella legge di stabilità varata ieri. Ma la scelta forte è di rinviare il ritorno a manovre incisive antideficit al 2016-2018, mentre nel 2015 ben 11 miliardi dei 36 di spesa della manovra sono finanziati in deficit. Se non basterà neanche il fondo di riserva, Renzi e Padoan terranno duro: pronti adire che l’Europa – e naturalmente la Germania, dipende tutto da lei – sbagliano, e l’Italia no. A costo di farne un cavallo di battaglia elettorale, drenando il terreno sotto i piedi degli anti euro, da Grillo alla Lega al resto della destra.

La scommessa sull’Italia è di un ritorno delle imprese ad assumere e a investire. Per questo la manovra è cresciuta nei giorni, e domenica scorsa Renzi ha convinto Padoan della necessità di aggiungere ai poco meno di 10 miliardi necessari a confermare – senza estendere – il bonus 80 euro, anche i 5 miliardi di totale abbattimento della componente Irap che tassa gli occupati (e che le imprese pagano anche quando sono in perdita), e i quasi 2 miliardi necessari per l’azzeramento dei contributi per tre anni ai nuovi assunti a tempo indeterminato. Qui il rischio c’e, insieme alla grande occasione.

L’abbattimento dell’Irap è la misura più saggiamente pro-crescita adottata da anni a questa parte. Aiuta le imprese ad alta densità di occupati, dalle banche alle multiutilities pubbliche ai grandi gruppi, ma non è detto che la ripresa dei margini che consente (per alcuni di un paio di punti percentuali, per altri fino al 4-6%) davvero si traduca subito in investimenti e assunzioni. Come nel caso degli 80 euro ai lavoratori dipendenti (e del Tfr che ora i lavoratori dipendenti privati, non pubblici, potranno ora chiedere in busta, garantito dallo Stato e dall’Inps e anticipato dalle banche), per larga parte ricostituirà margini pesantemente erosi, più che alimentare nuovi consumi. La differenza vera può farla solo un quadro diverso della domanda interna ed estera, ogni entrambe per ragioni diverse differentemente sofferenti. La scelta di reiterare il maxi incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato rischia il bis del flop già realizzato col decreto Letta-Giovannini, ma è il prezzo da pagare al fatto che il governo sia di sinistra, e dunque creda di decidere lui al posto delle imprese quali contratti siano preferibili.

I 18 miliardi di meno tasse, a cui il governo tiene molto, dimenticano di sottrarre i 3,6 miliardi di entrate aggiuntive da risparmiatori, previdenza integrativa meno agevolata e fondazioni bancarie, il miliardo previsto dalle slot machine, i 3,8 miliardi contabilizzati ex ante dall’evasione fiscale (a proposito: ma l’impegno di restituire parte del gettito da evasione ai contribuenti invece di usarlo per pagare spesa di Stato, quando lo manteniamo?). Ma dall’altra parte il governo prevede anche 800 milioni di sgravi alle piccole partite Iva, e mezzo miliardo di aumento delle detrazioni alle famiglie, per i carichi familiari numerosi. Ed è un bene.

Su alcune poste rilevanti della cosiddetta spending review – che purtroppo non è quella di Cottarelli – c’e ancora molto da capire. Mentre i 4 miliardi di risparmi dei ministeri sono credibili, e altrettanto i 3 da procedure centralizzate sugli acquisti, i 6 da Regioni, Comuni e Province sommati sono invece tutti da verificare. Sulla riduzione drastica delle partecipate locali e sulla riduzione dei Comuni, promesse quest’estate nella legge di stabilità, al momento sembra non esserci nulla. E il rischio molto forte è di un deficit 2015 non solo fuori linea rispetto agli impegni europei, ma oltre il 3% che il premier tanto invece smentisce.

I mercati sono sopravvalutati, ha detto ieri il ministro Padoan. Sorprendendo molti, perché non tocca a un ministro dirlo. I mercati ieri hanno ricordato a tutti che basterà una sorpresa negativa sugli stress test bancari, una debolezza greca, una sorpresa negativa italiana, perché il rallentamento della crescita tedesco e americano, sommato a quello cinese e brasiliano, alla crisi mediorientale e a quella russo-ucraina, rifacciano innalzare il premio al rischio del debito dei paesi eurodeboli. Non solo l’Italia può ritrovarsi a quota 300 di spread in men che non si dica. Ma, soprattutto, Draghi e la Bce a differenza del 2012 e 2013 hanno oggi le polveri bagnate. Padoan e Renzi queste cose le sanno benissimo, eppure hanno deciso di rischiare forte. Forti del fatto che sono soli in campo, attualmente, nella politica italiana.