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Rapporto Debito/Pil: sui nostri conti pesano i 60 miliardi di contributi dati all’Europa per la stabilità finanziaria degli altri Paesi

Rapporto Debito/Pil: sui nostri conti pesano i 60 miliardi di contributi dati all’Europa per la stabilità finanziaria degli altri Paesi

NOTA

L’Italia è contributore netto degli strumenti di stabilità finanziaria europei per ben 60 miliardi di euro. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Bankitalia. Negli ultimi 4 anni, infatti, il nostro Paese ha contribuito con 60 miliardi di euro alla creazione e all’avvio dell’EFSF (European Financial Stabilty Facilty) e dell’ESM (European Stability Mechanism): tutte iniziative di cui l’Italia non ha mai usufruito, pur essendo uno dei principali soggetti contributori.
In termini concreti questo ha un impatto rilevante sui nostri conti pubblici: al netto di quei contributi, infatti, il nostro Paese avrebbe oggi un debito di 60 miliardi più basso, con ovvie conseguenze per la finanza pubblica. Innanzitutto un miglior rapporto tra Debito e Pil, che passerebbe dal 131.6% al 127.9% e in secondo luogo un miglioramento del rapporto tra Deficit e Pil che si assesterebbe al 2.9% allontanandosi dalla soglia limite del 3%.
Non si tratta di un mero esercizio contabile perché gli investitori e gli osservatori internazionali guardano il dato numerico del nostro debito e dei suoi rapporti con il Prodotto Interno Lordo e non analizzano la “bontà” di quel debito e la natura che lo ha generato. Senza considerare che, volendo lasciare invariato l’equilibrio tra disavanzo e prodotto interno lordo, si libererebbero 2,16 miliardi di risorse disponibili derivanti da minore spesa per interessi da destinare ad altre finalità.
«Oggi l’Europa è chiamata a validare i nostri conti pubblici – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ma sarebbe altrettanto importante che, al rigore necessario, si applicasse una buona dose di buonsenso: non si può ignorare il fatto che l’Italia, con un debito pubblico consistente e una ripresa difficile da agganciare, stia contribuendo più che proporzionalmente rispetto alle sue possibilità a strumenti di solidarietà economica tra Paesi da cui non ricava nessun beneficio».

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Rassegna Stampa:
Libero
Il Pil “oscuro” vale 52 miliardi

Il Pil “oscuro” vale 52 miliardi

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

C’è un Pil buono, che misura gli investimenti virtuosi in Ricerca e Sviluppo. Nei dieci big europei vale 206 miliardi di euro e consente di raggranellare l’1,8% in più di ricchezza nazionale. Ma c’è anche un Pil cattivo, stimato in circa 52 miliardi, che per la prima volta considera le attività illegali: droga, prostituzione e contrabbando di alcol e sigarette. Con un contributo alla crescita dello 0,44 per cento. Da settembre le due facce della medaglia sono state incluse nel calcolo della ricchezza nazionale, con l’entrata in vigore delle nuove regole di contabilità europee del Sec 2010, sulla scia della revisione degli standard internazionali. Una boccata di ossigeno per i conti pubblici in tempi difficili, con l’obiettivo di una maggiore comparabilità dei dati. In attesa della prima comunicazione di Eurostat sul nuovo Pil prevista per venerdì 17 ottobre, Il Sole 24 Ore ha compiuto un viaggio virtuale tra gli Istituti nazionali di statistica delle 10 maggiori economie europee.

La palma per gli investimenti in R&S va alla Svezia: qui le spese per l’innovazione fanno crescere il Pil del 3,7%. Al polo opposto la Polonia, dove ci si deve accontentare di un magro 0,6 per cento. In termini assoluti primeggia però la Germania, con 54,7 miliardi di spinta dall’hi-tech, seguita dalla Francia. L’Italia è al quarto posto, con 20,5 miliardi, con un guadagno dell’1,3 per cento. «Sulla contabilizzazione delle spese di R&S – spiega Gian Paolo Oneto, direttore centrale della contabilità nazionale dell’Istat – la comparabilità tra i Paesi Ue è completa. È invece più difficile riuscire a intercettare la portata economica delle attività illegali, anche perché ognuno ha le proprie specificità di status legale di alcune di esse. Il ruolo di Eurostat sarà decisivo per arrivare a una maggiore convergenza dei sistemi di misurazione». Le stime fornite dai vari Paesi presentano infatti ordini di grandezza ancora difficili da comparare.

La forbice va dallo 0,9% del Pil di Italia e Spagna allo 0,1% di Francia e Germania. Roma e Madrid seguono alla lettera le regole di Sec 2010, mentre Parigi e Berlino si fermano al mercato degli stupefacenti. Così in Italia, dove le attività fuorilegge valgono 15,5 miliardi, la commercializzazione della droga vale da sola 10,5 miliardi, mentre la prostituzione pesa sui nuovi conti per 3,5 miliardi, e il contrabbando contribuisce per 300 milioni. In Spagna l’economia illegale frutta 9,4 miliardi all’anno e il commercio di droga, tra hashish, cocaina, eroina, ecstasy, amfetamine e Lsd, vale da solo mezzo punto di Pil. «Per quanto ci riguarda – spiega Oneto – il lavoro più complesso ha riguardato le stime sulla prostituzione: al contrario del mercato della droga dove ci sono forme di contrasto estremamente organizzate, qui abbiamo meno informazioni e abbiamo proceduto con le stime dal lato dell’offerta, ovvero del numero di prestazioni e dei prezzi medi. I dati forniti dalle associazioni private di assistenza che si occupano di questi fenomeni hanno avuto un ruolo importante». In termini assoluti al secondo posto dopo l’Italia c’è la Gran Bretagna con un impatto di 10,7 miliardi.

In Francia, come sottolinea Eric Dubois, direttore delle analisi economiche dell’Insee, il mercato degli stupefacenti vale circa 2 miliardi. Nel Paese, invece, la prostituzione è legale, ma non lo sfruttamento. «I ricavi derivanti dalla prostituzione esercitata in un contesto legale ma non dichiarati – precisa Dubois – sono già inclusi nel Pil da tempo e confluiscono nelle stime sul sommerso. Riteniamo invece che la prostituzione clandestina non debba essere considerata nel calcolo perché coinvolge in genere immigrati clandestini che operano in reti criminali». Anche in Germania, sottolineano dall’Ufficio di statistica, la prostituzione non è proibita e le stime sull’impatto di questo mercato sono già incluse nel Pil, mentre il contrabbando di alcol e sigarette «non ha un impatto economico dati i prezzi relativamente bassi». Resta il mercato della droga che vale 1,52 miliardi. In Olanda a trainare il Pil “cattivo” è il valore aggiunto del mercato della cannabis che “regala” 1 miliardo di ricchezza in più su un tolale di 2,6 miliardi derivanti dalle attività illegali. Qui l’eroina pesa il triplo dell’ecstasy: 317 contro 103 milioni.

Non era espressamente richiesto dal Sec 2010, ma alcuni Uffici di statistica, come quelli italiano e francese, hanno approfittato della revisione per aggiornare le stime sull’economia sommersa. Roma ha aggiornato al ribasso la previsione: da una forbice finora compresa tra il 16,3 e il 17,5% all’11,5%, che resta comunque il livello più alto tra i dieci Paesi considerati. In Francia, invece, la zona d’ombra rappresenta il 3,4% del Pil e frutta un bottino di 68,1 miliardi. In Belgio l’economia nascosta è stata inclusa per la prima volta nel calcolo della ricchezza nazionale e vale 696 milioni, lo 0,2%, la percentuale più bassa dei top 10. In Germania, Olanda e Spagna, il dato viene stimato ma resta top secret. Qui la strada per l’armonizzazione delle regole resta in salita.

L’atlante mondiale delle economie: l’Italia scende dalla “top 10”

L’atlante mondiale delle economie: l’Italia scende dalla “top 10”

Danilo Taino – Corriere della Sera

È difficile per chi ha superato i 30 anni. Dobbiamo però ridisegnare nelle nostre menti l’atlante de mondo economico. Ieri, il Fondo monetario internazionale ha pubblicato una mappa interattiva (google.com/publicdata) dalla quale si ricava che l’ordine mondiale misurato in termini di Prodotto interno lordo (Pil) a parità di potere d’acquisto sarà, alla fine del 2014, questo: prima economia, la Cina con 17.632 dl dollari; seconda, quella degli Stati Uniti, 17.416 terza l’indiana, 7.277 miliardi. Seguono Giappone, Germania, Russia, Brasile, Francia, Indonesia, Regno Unito. All’ undicesimo posto il Messico, con 2.143 miliardi e al dodicesimo l’Italia, 2.066 miliardi di dollari.

Questa classifica è una novità, non paragonabile agli anni passati. Pil a parità di potere d’acquisto significa che si stabilisce un basket di prodotti e servizi e si guarda quante unità di una certa valuta servono per comprarlo, in ogni Paese; poi si registra quanti dollari servono per comprare il basket e sulla base del rapporto tra i due si corregge il Pil nominale. È una misura discutibile come tutte ma realistica: racconta a quanti beni e servizi corrisponde un singolo Pil.

L’Italia è insomma fuori dalle prime dieci economie. Qualcuno (per esempio il Financial Times) ha anche immaginato un G7 di Paesi emergenti: ha scoperto che un gruppo formato da Cina, India. Russia, Brasile, Indonesia, Messico, Turchia avrebbe un Pil più alto di quello del G7 tradizionale formato da Usa, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada: 37.800 miliardi contro 34.500.

Nel tunnel a lungo

Nel tunnel a lungo

Giuseppe Turani – La Nazione

Ci attendono quattro anni di navigazione difficile. Se qualcuno aveva pensato a un certo slancio dell’economia italiana e a un netto miglioramento dei suoi numeri, si sbagliava. Le ultime cifre fornite dagli esperti del Fondo monetario internazionale sono una doccia gelata. Quest’anno l’Italia andrà indietro dello 0,2 per cento (quindi terzo anno di recessione). La disoccupazione arriverà al suo massimo del 12,6 er cento. Il nostro debito pubblico salirà, rispetto al Pil, dal 132,5 del 2013 al 136,7. E questo è probabilmente il dato più preoccupante: in un solo anno il rapporto defici/Pil peggiora di 4,2 punti. E le cose non sono destinate a migliorare tanto in fretta. Nel 2015, infatti, il Fondo monetario prevede che il rapporto defici/Pil scenda solo al 136,4. Per vedere una discesa consistente, con un rapporto al 125,6, bisognerà aspettare il 2019. Nel 2015, infine, la crescita italiana sara dello 0,8 per cento.

Questi numeri hanno anche una loro qualità. E questa consiste nel fatto che è in corso un rallentamento dell’economia mondiale: al punto che è lo stesso Fondo monetario a parlare, per quanto riguarda l’Europa, di un aumento dei rischi di recessione, di deflazione e di stagnazione. E fa paura la previsione che fino a 2019 l’inflazione in Europa rimarrà al di sotto del 2 per cento: in ogni istante, quindi, ci sarà la possibilità di piombare nella deflazione.

La conclusione alla quale si arriva, purtroppo, è che i prossimi quattro anni, che saranno di bassa crescita andranno anche vissuti con il fiato in gola, con lo spettro della possibile deflazione dietro l’angolo Questo scenario cattivo dipende solo in parte da noi: siamo davanti a una frenata dell’economia mondiale contro la quale possiamo fare ben poco, anzi niente. L’unica cosa certa è che dopo sette anni di crisi ne abbiamo davanti altri quattro pericolosi. Per questo sarebbe opportuno accelerare quelle riforme di struttura che tutti ci stanno chiedendo. La Bce di Draghi, che il Fondo monetario elogia, fa quello che può (positiva è giudicata l’idea degli Abs), ma sono i singoli paesi che devono andare avanti con il processo di cambiamento. Se si fa questo, non è impossibile migliorare l’andamento dell’economia.

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Dopo sei anni di recessione e quattro di durissimi aggiustamenti dei bilanci, la Grecia ha presentato ieri una finanziaria che conferma una stima di crescita dello 0,6% per quest’anno e addirittura del 2,9 % per il 2015. Soprattutto, in virtù delle correzioni dei conti degli ultimi anni, il ministro delle Finanze Gikos Hardouvelis è certo di raggiungere quasi il pareggio di bilancio l’anno prossimo (un disavanzo dello 0,2%) – il primo da oltre quattro decenni. E il vero indicatore dello stato di salute delle finanze pubbliche, l’avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito), schizzerà nel 2014 al 2 e l’anno prossimo addirittura al 2,9%.

Cifre che per il governo Samaras significano che l’uscita dal programma di salvataggio Ue-Fmi potrebbe essere anticipato di oltre un anno, alla fine del 2014 invece che all’inizio del 2016. Un impegno che libererebbe Atene dalla morsa della troika Fmi-Bce-Ue ma che potrebbe costare ai greci anche 12 miliardi circa di aiuti. Il Tesoro ha intenzione, stando alla finanziaria, di emettere un’obbligazione a dieci e una a sette anni il mese prossimo, oltre ad un bond a breve (26 settimane). La scorsa settimana, dopo che la Bce ha annunciato l’avvio di un vasto programma di acquisti di titoli cartolarizzati Abs che includerà anche quelli con rating bassi, se provenienti da Paesi sotto programma come la Grecia e Cipro, i rendimenti sui bond sovrani greci sono crollati. Atene è tornata sul mercato, dopo quattro anni di assenza, all’inizio di quest’anno con un’obbligazione a sette anni.

«Il Paese sta entrando in un lungo periodo di crescita sostenibile e avanzi primari di bilancio, che daranno una spinta all’occupazione, taglieranno la disoccupazione e aumenteranno la qualità della vita a molti cittadini» ha dichiarato ieri il viceministro alle Finanze, Christos Staikourias, aggiungendo che «questo è il risultato di sacrifici senza precedenti. Faremo in modo che non siano stati vani». La disoccupazione raggiungerà quest’anno ancora cifre spaventose – il 24,5% – ed è prevista in calo l’anno prossimo al 22,5. Ma con l’aria da crisi di governo che tira ormai da mesi ad Atene, il governo Samaras ha incluso nella manovra anche una robusta riduzione delle tasse sul combustibile da riscaldamento – il 30% – e un taglio dell’imposta cosiddetta «di solidarietà» sopra i 12mila euro. Da oggi la finanziaria sarà discussa in Parlamento, venerdì è previsto il voto di fiducia ma Samaras può contare su soli quattro parlamentari di scarto rispetto all’opposizione.

Una partita sul filo del rasoio aggravata da uno scenario ancora più complesso che rischia di materializzarsi all’inizio dell’anno prossimo, quando sono previste le elezioni presidenziali. Samaras avrà enormi difficoltà a mettere insieme i 180 deputati su 300 che servono per eleggere il presidente della Repubblica. Se dovesse fallire nell’intento, la legge prevede elezioni anticipate. E i sondaggi attuali danno Syriza, il partito dell’eurodeputato Alexis Tsipras, in netto vantaggio sui conservatori: la forbice tra la sinistra radicale e Nea demokratia varia dai 2,5 agli 8 punti. Abbastanza per vincere e conquistare il generoso premio di maggioranza greco di 50 deputati, ma non abbastanza per governare da solo.

Contabilizzare le attività illecite?

Contabilizzare le attività illecite?

Mario Lettieri e Paolo Raimondi – La Gazzetta del Mezzogiorno

Nel 2014 gli Stati membri dell’Unione Europea apporteranno cambiamenti importanti nei metodi di contabilità nazionale per la definizione del Prodotto interno lordo (Pil) e del Reddito nazionale lordo. Non si tratta di un’opzione ma dell’attuazione di una direttiva dell’Onu. Gli Usa l’hanno adottata nel 2013. Adesso tocca all’Europa. Di conseguenza i parametri di Maastricht saranno profondamente modificati, anzitutto i rapporti decifit/Pil e debito/Pil utilizzati, come è noto, per definire la situazione della finanza pubblica dei singoli Paesi. I mercati ovviamente ne tengono conto per decidere i loro comportamenti finanziari. Ad esempio, lo spread naturalmente riflette anche il livello di tali rapporti. Le organizzazioni internazionali e sovranazionali di controllo oggi li valutano per imporre politiche restrittive o commisurare sanzioni nei confronti di chi li viola. In Europa il Reddito nazionale lordo è utilizzato per determinare il contributo di ciascun Paese al bilancio dell’Unione.

È da decenni che si parla della necessità di migliorare il sistema di contabilità nazionale in quanto i metodi utilizzati sono notoriamente insoddisfacenti. Il parametro del Pil infatti fu “inventato” nel lontano 1934 ed è stato un utile riferimento anche se ritenuto altamente impreciso finanche dai suoi promotori. Il problema della riforma oggi è l’introduzione di proposte intelligenti e necessarie e di altre purtroppo davvero improponibili anche sul piano etico. Ad esempio, le spese in Ricerca e Sviluppo, fino ad oggi considerate come costi intermedi, verranno conteggiate come spese di investimento perché contribuiscono, come capitale intangibile, alla crescita della capacita produttiva. Ciò comporterà un impatto positivo sulla domanda aggregata e quindi sul Pil. Però anche le spese per gli armamenti saranno contabilizzate come spese di investimento! E qui incomincia la “perversione” del nuovo metodo contabile. Con il Pil si misura non solo la forza economica di un Paese ma anche la sua serietà e la sua affidabilità. Ne consegue che le dittature militari, che preparano una guerra di aggressione, diventano, con i numeri delle loro economie, degli esempi virtuosi da imitare!

La nuova riforma perciò supera tutti i limiti della decenza laddove introduce nel nuovo calcolo del Prodotto interno lordo anche le attività illegali. Di fatto la nuova direttiva indica esplicitamente che “le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: il traffico di sostanze stupefacenti, la prostituzione ed il contrabbando”. Sarà addirittura l’Eurostat a stabilire le linee guida della metodologia di stima. Tutto ciò è giustificato “in ottemperanza al principio secondo il quale le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico”. È proprio l’avverbio “indipendentemente” che contiene il virus piu distruttivo per la società ed il benessere dei suoi cittadini. Allora anche la rapina diventa un’attività economica, “indipendentemente” dal fatto che distrugge l’ordine sociale e uccide. Anche una guerra di aggressione diventa un evento economico di grande profitto, “indipendentemente” dal fatto che comporta distruzioni, genocidi e fame. È una vera e propria aberrazione. Anche se vi fosse l’esigenza di conoscere l’ammontare delle singole e di tutte le transazioni finanziarie, non sarebbe comunque giustificato il vulnus allo status giuridico. Ma che le attività illegali entrino di diritto a far parte del Pil che poi determina alcuni parametri che influiscono sulla vita dei Paesi e di intere popolazioni è inaccettabile.

È in atto una enorme campagna mediatica per dimostrare la bontà delle nuove regole. Si sottolinea in particolare che tutti i governi europei ne beneficeranno in quanto i parametri di Maastricht verrebbero ridefiniti a loro favore. Se il Pil aumenta allora si guadagnano dei margini sul famoso 3% relativo al rapporto deficit/Pil. Anche il rapporto Pil/debito pubblico migliorerebbe. Pazzesco! Il Trattato di Maastricht diventa così il verbo intoccabile. Invece di cambiarlo si pensa di produrre dei dati “falsi” per aggirarne gli effetti più negativi. Eppure è noto che anche il magico 3% non ha alcuna base scientifica. Fu definito arbitrariamente da un giovane impiegato del governo francese nel 1981 su richiesta del presidente Francois Mitterand che, sembra, necessitasse di mettere freno alle astronomiche promesse di spesa pubblica fatte durante la campagna elettorale.

Se le spese di R&S fossero giustamente conteggiate il Pil aumenterebbe del 5 % in Svezia, del 3% in Germania e Francia e di poco più dell’1% in Italia. Ma che fare con le attività illegali notoriamente difficili da quantificare? Se si prendessero i dati della Banca d’Italia sull’economia illegale, allora il nostro Pil dovrebbe aumentare dell’11%. E secondo l’Istat, nel 2010 l’intera economia sommersa “valeva” circa il 17% del Pil. Riteniamo che la crisi economica che investe i Paesi dell’Ue non si risolva così: il rimedio ci sembra peggiore del male. Ogni ripresa economica non può prescindere dalla legalità a tutti i livelli e ha bisogno di ben altro rispetto al “trucco contabile” proposto.

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

Il Giornale

Nuova batosta in arrivo. I conti non tornano. E così per il pareggio di bilancio nel 2017 il governo ha previsto la clausola di salvaguardia da introdurre nella legge di stabilità che ipotizza l’aumento dell’Iva. Che cosa significa? «Una perdita di Pil pari a 0,7 punti percentuali a fine periodo dovuta a una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3 punti percentuali e un aumento del deflatore del Pil di pari importo», recita la Nota di aggiornamento al Def trasmessa dal governo al Parlamento. La legge di stabilità, riporta il documento, «conterrà una clausola di salvaguardia automatica con la quale il governo si impegna ad assicurare la correzione necessaria a garantire il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio a partire dal 2017». In particolare, «è ipotizzata una clausola sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette per garantire il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine per un ammontare di 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi e 21,4 miliardi nel 2017 e nel 2018».

Insomma, la stangata sui consumi è assicurata. Ed è subito rivolta tra le associazioni di categoria, da Confcommercio a Confesercenti. «Un eventuale nuovo inasprimento della pressione fiscale, già a livelli da record mondiale, attraverso l’ennesimo aumento delle aliquote Iva e delle imposte indirette, acuirebbe la crisi strutturale che caratterizza il sistema Italia», ha affermato il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. «In Italia è stato commesso l’errore di aumentare la pressione fiscale in un contesto già depresso. I margini delle imprese – ha sottolineato – sono al limite della sopravvivenza, i redditi e la ricchezza delle famiglie hanno subito una riduzione di entità senza precedenti nella nostra storia economica». «Mantenere il raggiungimento del pareggio di bilancio è un obbligo – ha aggiunto Sangalli -, ma è altrettanto evidente che per raggiungere questo obiettivo la via da seguire è tagliare la spesa pubblica improduttiva, visto che ci sono circa 80-100 miliardi di spesa ritenuti aggredibili».

Il ricorso alla clausola di salvaguardia è stato bocciato senza mezzi termini anche dalla Confesercenti. «Sarebbe una mossa sbagliata, non è questa la strada», ha detto il presidente Marco Venturi, che ricorda come la categoria si sia già lamentata per i due precedenti aumenti dell’Iva al 21% e al 22%. «In una situazione di crisi, con i consumi che vanno male e il commercio in fortissima difficoltà, se l’Iva dovesse aumentare, le famiglie sarebbero indotte a stringere ancora di più i cordoni della spesa. E se non ci sono i consumi si potrebbe verificare un’ulteriore frenata della crescita». Occorre piuttosto, secondo Venturi, «creare condizioni di fiducia, altrimenti si rischiano ripercussioni anche sul mercato del lavoro e dell’occupazione». Quanto alla possibile disponibilità del Tfr in busta paga Venturi commenta «non so a cosa possa servire se non a pagare più Iva».

Fortemente critici anche gli esponenti di Forza Italia e Ncd. «La clausola sull’Iva salvaguarda la Ue, salvaguarda il governo, ma non le tasche dei cittadini», ha scritto su Twitter il deputato di Fi Luca Squeri. Sulla stessa lunghezza d’onda Raffaello Vignali, responsabile Sviluppo economico del Ncd: «L’Ue smetta di guardare solo ai bilanci pubblici. L’ipotesi di una clausola di salvaguardia da inserire nel Def resta un’eventualità preoccupante, un clamoroso autogol per il Paese».

Gli ultimi dati economici certificano che l’Italia è sull’orlo del baratro

Gli ultimi dati economici certificano che l’Italia è sull’orlo del baratro

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Il bollettino è di quelli firmato Cadorna. L’economia italiana prosegue la sua ritirata dalle posizioni avanzate conquistate in decenni di crescita. Terzo trimestre consecutivo con il pil in contrazione; terzo mese con l’andamento dei prezzi in deflazione; nuovo record della disoccupazione giovanile ora al 44,2%; produzione industriale ancora in calo a settembre dello 0,2%; credito bancario in ulteriore contrazione come certificato da Bankitalia.

Nonostante l’Italia abbia un governo con una solida maggioranza parlamentare e una giovane leadership politica di centrosinistra di impostazione riformista e di stampo europeo, incarnata dal premier Matteo Renzi, le aspettative di consumatori, imprenditori e investitori non girano. Restano sul quadrante negativo del barometro senza concedere, almeno questo è il principale messaggio che viene trasmesso, nessuna apertura di credito agli sforzi e all’azione del governo di Roma.
Perché Renzi non riesce, nonostante il suo rilanciare continuo su tematiche importanti come il superamento dell’art.18, a invertire le aspettative italiane? La risposta non è, ovviamente, facile. È come se i vari protagonisti della vita economica ritenessero, quanto fatto o proposto, come «superato», come un programma di riforme importante ma non ancora adeguato al rilancio italiano. Un aspetto che fa emergere gli effetti negativi di medio termine dei governi emergenziali, tecnici o presidenziali che dir si voglia. Non avendo fatto proprio questi esecutivi tutte le riforme che i mercati si aspettavano ed avendo sbagliato a ripetizione gli annunci sull’uscita dalla crisi (Mario Monti già vedeva la luce in fondo al tunnel all’inizio del 2012), ora il tasso di scetticismo medio verso l’Italia ha raggiunto livelli originali.

Non basta più annunciare gli interventi sul mercato del lavoro o sulla riforma della giustizia civile per ottenere un inversione nelle aspettative economiche: Renzi deve davvero realizzare un primo grado del processo civile che dura al massimo 12 mesi ed eliminare definitivamente l’art.18 e fare allo stesso tempo tanto di più se vuole incidere per davvero sulle attitudini di consumo e investimento. Serve una cura alla Margaret Thatcher, nonostante il Premier non ami essere associato all’immagine della migliore politica riformatrice del secondo dopoguerra europeo che, di sicuro, non era culturalmente di sinistra. Ma, per invertire il trend e rilanciare l’economia italiana, Renzi deve andare a fondo nei meccanismi di funzionamento del Bel Paese con la stessa profondità con la quale la Lady di ferro scese nelle antieconomiche miniere gallesi. Non sono più possibili compromessi, non c’è più tempo guadagnabile perché al prossimo ribasso del rating, in mancanza di un’inversione delle aspettative, i Btp diventeranno spazzatura e la Troika realtà a Roma.

Il governo gioca d’azzardo sul disastro dei conti

Il governo gioca d’azzardo sul disastro dei conti

Renato Brunetta – Il Giornale

Prima presa d’atto di un disastro da tempo annunciato e per troppo tempo esorcizzato nella speranza di un improbabile miracolo. È il quadro che emerge dalla nota di aggiornamento del DEF, nei suoi dati essenziali. Per le ulteriori specifiche, che hanno comunque un valore rilevante, dovremo aspettare il varo definitivo del documento. Al momento top secret. Ma quello che è stato approvato dal Consiglio dei ministri di ieri è sufficiente per tracciare un quadro a tinte fosche dell’economia – e della società – italiana. Che fa naufragare ogni ottimismo di maniera.

Cominciamo dal dato della crescita, anzi della de-crescita. All’inizio della sua avventura (aprile 2014) Matteo Renzi aveva previsto, per l’anno in corso, un aumento del PIL dello 0,8%. Se le nuove previsioni saranno confermate, chiuderemo con una caduta dello 0,3%. E quindi una differenza rispetto al dato iniziale dell’1,1%. Dobbiamo dare atto a Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, di aver resistito alla tentazione di giocare con le cifre. Almeno per il 2014, dove il rischio di un’immediata smentita era molto più forte. La nuova previsione approssima quella dell’OCSE, che indicava per il 2014 una caduta dello 0,4%.

Con la stessa franchezza, tuttavia, diciamo che non ci convince l’ipotesi che per il prossimo anno, il 2015, l’economia italiana, in assenza di un forte cambiamento della politica economica, possa crescere dello 0,6%. Bene che vada, il semplice abbrivio porterà ad un valore che è pari alla metà, con la conseguenza di spingere il deficit, che nelle previsioni già balla pericolosamente sul baratro del 2,9%, oltre la soglia canonica prevista dalle regole di Maastricht. Risultato poco invidiabile: visto che è dal 2012 (Governo Monti) che non riusciamo ad abbassare quella febbre. Sintomo vistoso delle contraddizioni strutturali – soprattutto la bassa produttività – dell’economia italiana. Finora ci ha salvato la rivalutazione contabile del PIL che ha ridotto di 0,2 punti di PIL quel valore. Ma si tratta di un evento irripetibile.

La dimostrazione di quest’assunto è nelle previsioni circa l’andamento del debito, che in rapporto al PIL è previsto scendere da un’iniziale 134,9% del PIL al 131,6%. Con una flessione di oltre 3 punti. Un’evidente stonatura, che ha solo una giustificazione contabile. In percentuale il debito scende, ma solo come effetto della revisione statistica del PIL. Non per merito della politica economica del governo. Tutt’altro. Le nuove regole europee (Sec 2010) hanno regalato a tutti i Paesi una rivalutazione dei precedenti valori, includendo nei nuovi calcoli tra l’altro le attività illegali (dalla prostituzione al traffico di droga), che per l’Italia è stata pari al 3,8%. In valore assoluto qualcosa come 58 miliardi. C’è poi da aggiungere che con riferimento al debito pubblico, pur nel quadro ottimistico appena tracciato, è previsto l’ennesimo aumento: dal 131,6% nel 2014 al 133,4% nel 2015.

Qualche settimana fa Wolfgang Munchau, dalle colonne del Financial Times, prospettava l’ipotesi di una inevitabile crescita del rapporto debito/PIL italiano al 150%: l’anticamera del suo default, con conseguenze drammatiche sulla stessa tenuta dell’euro. Le proiezioni realistiche di quel rapporto indicano che quel rischio non è da sottovalutare. Dovrebbero spingere il Governo ad accelerare sul fronte delle privatizzazioni, secondo quanto previsto dalla legge di stabilità varata dal Governo Letta, in cui si prevedevano interventi per 10 miliardi all’anno, per l’intero triennio. Di quel programma è stato realizzato solo una minima parte: più o meno un decimo. Alla fine dell’anno mancano pochi mesi e forse qualcosa si può ancora fare. Ma occorre recuperare, rapidamente, il tempo perduto.

Perché è così importante soffermarsi sul problema del debito? Le regole europee impongono ai Paesi, condizionati dal peso eccessivo di quel fardello, procedure di rientro, che sono misurate dall’andamento del deficit strutturale di bilancio. Quest’ultimo dovrebbe essere compreso tra lo zero e meno 0,5. Per il 2014 il DEF aveva previsto una soglia dello 0,6, contestata dalla Commissione europea, secondo la quale quel valore era pari allo 0,8 per cento. Ancora maggiore lo scarto nelle previsioni per il 2015: 0,1 da parte del Governo e 0,9 da parte della Commissione. In simili circostanze, i Trattati prevedono un aggiustamento pari allo 0,5 % del PIL (circa 8 miliardi di manovra).

Il Consiglio dei Ministri ha invece fatto orecchie da mercante, prevedendo esplicitamente un “rallentamento nel percorso di avvicinamento”. L’aggiustamento sarà solo dello 0,1 per cento. Ipotizzando (i conti senza l’oste), altresì, l’ulteriore rinvio di un anno (non più il 2016 come originariamente previsto, ma il 2017) nel conseguimento dell’obiettivo di medio termine. Una nuova scommessa, all’insegna del moral hazard. Profezia fin troppo facile, almeno a giudicare dalle reazioni immediate del portavoce del Commissario agli affari economici dell’Ue, Jyrki Katainen, il grande falco che vigila sugli adempimenti dei trattati. Che l’Italia rispetti le raccomandazioni della Commissione, dove non c’era traccia dell’assenso al rinvio del pareggio del bilancio per il 2016. Figuriamoci se il “rallentamento del percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine” al 2017 (un anno ancora dopo) – come recita pudicamente il comunicato di Palazzo Chigi – potrà fargli cambiare idea.

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

La Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014, approvata dal Consiglio dei Ministri del 30 settembre, è stata diffusa in sintesi (nove pagine essenzialmente di diapositive per la illustrazione alla stampa) il primo ottobre e posta (nel suo testo integrale di circa 135 pagine) sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Occorre dare atto che il documento non solo è presentato in modo pregevole ma aiuta il lettore differenziando graficamente le misure ‘in itinere’ da quelle che rappresentano un ‘focus’ per le decisioni di politica economica. La Nota sarà in gran misura la base della legge di stabilità e questo commento riguarda due suoi aspetti:
a) l’analisi della situazione attuale con pertinenti previsioni a medio termine;
b) le indicazioni di politica economica che se ne possono ricavare.
L’analisi della situazione attuale corrisponde, in linea di massima, a quella delle principali organizzazioni internazionali (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, OCSE), dei 20 principali istituti internazionali privati di previsioni macro-economiche e dei maggiori istituti di ricerca italiani (Cer, Irs, Prometeia) operanti in questo campo. In estrema sintesi, siamo al sesto anno di una recessione contrassegnata da leggere indicazioni di ripresa spesso seguite da nuovi tassi di crescita negativa. Un dato che caratterizza l’intera eurozona, anche se presenta aspetti più severi della media in Italia a ragione della fragilità di un tessuto imprenditoriale costituito in gran misura da piccole e medie imprese con elevato tasso di autofinanziamento e difficile accesso al credito.
In materia di analisi del quadro attuale, la critica principale è che non si sottolinea adeguatamente come la situazione dell’eurozona, e in particolare quella dell’Italia, dipenda in larga misura dalla politica economica e monetaria americana. Un fenomeno analogo si è verificato alla fine degli anni Novanta, ai tempi di quella che è stata chiamata ‘la crisi asiatica’. Da allora, i Paesi asiatici si sono, almeno in parte, svincolati dalla politica economica americana applicando politiche di cambio flessibili. All’interno dell’eurozona questo non è né fattibile né concepibile. Tuttavia, in generale l’eurozona potrà leggermente avvantaggiarsi dal leggero riallineamento del cambio tra euro e dollaro. Questo sortirà però effetti asimmetrici tra i vari Paesi dell’area dell’euro a ragione delle differenze in composizione merceologica e direzioni degli scambi totali (importazioni ed esportazioni).
L’Italia, in breve, avrà vantaggio modesti a ragione di un orientamento dell’interscambio fortemente orientato sugli altri Paesi dell’eurozona. La dipendenza dalla politica economica e monetaria americana comporta, comunque, un elemento di incertezza sulle scelte di politica economica europea, e in particolare italiana, di cui la Nota avrebbe avuto tenere maggiore conto delineando una risposta flessibile all’andamento del quadro internazionale (in specie al non inverosimile aumento, nei prossimi mesi, dei tassi d’interesse a medio e lungo termine negli Stati Uniti) e all’accentuarsi di riduzione dei prezzi nel resto dell’eurozona così come all’associato timore di una deflazione che aggravi ulteriormente la situazione dell’economia reale.
Dove la Nota delude è nella parte propositiva poiché non delinea né una strategia differente da quella degli ultimi tre anni (che con un aggravamento della pressione tributaria e contributiva ha accentuato le determinanti interne della recessione e dei segnali di deflazione in Italia) né una tattica che tenga conto degli elementi di incertezza provenienti dal resto del mondo (specialmente dagli Stati Uniti) sino al 30 settembre e da ieri primo ottobre anche dall’interno dell’eurozona (con la decisione della Francia di non considerarsi vincolata al limite del 3% del Pil per l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni. Non solo. Le principali misure per la crescita sembrano essere un’estensione a una più vasta platea del ‘voucher’ o ‘bonus’ di 30 euro in busta paga da aumentare, per il settore privato, con un ipoteco versamento di parte del Tfr al fine di favorire una crescita dei consumi. Sino ad ora, le analisi anche econometriche rilevano che il ‘voucher’ o ‘bonus’ non ha avuto alcun effetto apprezzabile. L’operazione, peraltro non precisata, relativa al Tfr avrebbe implicazioni disastrose soprattutto per le piccole e medie imprese nonché sulla previdenza integrativa, e i suoi ipotetici impatti sulla domanda aggregata sono quanto meno dubbi.
È urgente delineare una strategia alternativa. Essa deve essere caratterizzata su quello che può essere chiamato ‘uno sgabello’ a tre pilastri:
– una riduzione della pressione fiscale sul lavoro (Iperf) e sull’impresa (Irap) di circa 40 miliardi da attuarsi già nel 2015;
– una riduzione della spesa iniziando dai 20 miliardi individuati dal commissario alla Spending Review Carlo Cottarelli e dalla sua équipe (che includeva la Ragioneria generale dello Stato) nella recente operazione di ‘revisione della spesa’;
– un rilancio degli investimenti pubblici e privati come individuato con grande chiarezza nel rapporto di Chatham House Building Growth in Europe Innovative Financing for Infrastructure datato settembre 2014 , tenendo conto che esiste notevole liquidità, specialmente presso le famiglie, alla ricerca di investimenti di lungo periodo.
Una strategia di questa natura porterebbe a superare, almeno temporaneamente, il vincolo relativo all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni rispetto al Pil ma avrebbe il vantaggio di riattivare la crescita, facendone diventare l’investimento il suo motore, e di avere un buon grado di flessibilità per rispondere a evoluzioni della politica economica e della situazione americana.