pil

Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Andrea Biondi e Giovanna Mancini – Il Sole 24 Ore

È durata poco l’illusione di essere usciti dalla recessione che da sei anni ormai attanaglia il nostro Paese e che solo nel periodo 2011-2013 ha bruciato 4,1 punti di Pil. Gli ultimi aggiornamenti dei principali indicatori macroeconomici sembrano senza tanti dubbi spegnere l’entusiasmo al quale, fino a poco più di un mese fa, si aggrappavano gli italiani. Tanto è vero che ad agosto l’indice di fiducia delle imprese registrato dall’Istat è sceso a 88,2, contro il 90,8 registrato a luglio. Un pessimismo che riguarda tutti i settori produttivi, ma in particolare il manifatturiero che, dopo tre mesi consecutivi in discesa, ha raggiunto i livelli più bassi da un anno (95,7). E che riflette il calo di fiducia dei consumatori, reso noto l’altroieri, sceso in agosto per il terzo mese consecutivo, da 104,4 a 101,9. Insomma, tutto fuorché una cartina di tornasole di una stagione dell’ottimismo. E infatti, se in tutta Europa l’indice Esi (il «sentiment economico» complessivo) scende a quota 104,6, è l’Italia il Paese più sfiduciato dell’Unione, secondo i dati diffusi dalla Commissione Ue.

Non che manchino gli spiragli di luce, come il dato sulla produzione industriale (+0,9% a giugno su base annua) o quello sulle immatricolazioni di auto (+5,02% su base annua a luglio). Ma mettendo in fila i principali indicatori – e il loro andamento altalenante nei mesi – emerge un quadro ancora troppo fragile e (soprattutto) contraddittorio per parlare di una vera ripresa. A guastare la festa degli ottimisti, ieri sono arrivati i dati relativi alle vendite al dettaglio, che su base annua sono diminuite addirittura del 2,6%, rispedendo sul banco degli imputati il bonus da 80 euro del governo Renzi.

Ma la doccia fredda era arrivata già a inizio estate, con quello 0,2% in meno del Pil registrato dall’Istat nel secondo trimestre dell’anno rispetto al trimestre precedente, e dello 0,3% rispetto all’anno precedente. Un dato non solo inferiore alle attese, ma che ha inoltre costretto analisti e imprese a rileggere tutti gli altri indicatori. Perché se è vero che la produzione industriale a giugno è cresciuta, è anche vero che da novembre dello scorso anno l’andamento di questo indicatore oscilla costantemente tra segno positivo e negativo. E preoccupa il dato sugli ordini dell’industria, riferito a maggio, che rileva un calo del 2,5% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e che ha colpito in particolare il comparto dei macchinari e attrezzature (-13,6%). Inoltre, rispetto al mese precedente, in maggio gli ordinativi totali sono scesi del 2,1%, registrando il calo più pesante (-4,5%) proprio su quei mercati esteri su cui si fonda la speranza di una ripresa da parte delle imprese italiane.

Anche dal fronte export arrivano del resto segnali contraddittori e perciò non facili da interpretare. Al risveglio dei mercati europei, che da inizio anno avevano contribuito in modo decisivo a trainare le vendite all’estero dei prodotti made in Italy, si era aggiunto a maggio anche il recupero dei mercati extra-Ue, che invece negli ultimi mesi avevano fatto registrare segnali negativi, dovuti soprattutto alle svalutazioni, alla crisi di domanda interna e alle turbolenze geopolitiche.

Purtroppo però il mese di giugno (a cui risalgono gli ultimi dati disponibili) ha provveduto a congelare le speranze delle imprese, con una contrazione dell’export extra-Ue addirittura del 4,3% su base mensile, che si traduce in un -2,8% su base annua. Il quadro complessivo delle esportazioni (dati relativi a maggio) è perciò deludente, con una crescita tendenziale di appena lo 0,2% rispetto a maggio del 2013, sintesi dell’incremento delle vendite verso l’Europa (+2,4%) e della diminuzione di quelle verso l’area extra-Ue (-2,3%). Si aggiunga un mercato del lavoro in piena paralisi, con retribuzioni mai così basse (si veda l’articolo in basso) e un numero di disoccupati oltre quota 3,15 milioni, con una disoccupazione giovanile del 43,7% (+4,3% rispetto a giugno 2013).

Tutto il resto è fuffa

Tutto il resto è fuffa

Giorgio Mulé – Panorama

Mettetevi nei panni di Joe, un americano in vacanza a Roma. Negli States essere ricco non è un reato; possedere due case non fa di un cittadino il perfetto obiettivo del fisco; avere messo soldi da pane non lo fa somigliare a un evasore fiscale. Joe è un marziano ai nostri occhi. Atterra a Fiumicino e scopre che l’Italia deve rinviare le sue previsioni di bilancio per ricalcolare il Prodotto interno lordo. Accipicchia, o meglio woooow!, pensa: gli italiani si sono rimessi in moto e stanno superando la crisi. Ecco, dear friend, le cose stanno un po’ diversamente: ce l’ha presente Johnny Stecchino nel bellissimo movie di Robeno Benigni? Beh sì, insomma noi ricalcoleremo il nostro Pil alla luce delle previsioni di Cosa nostra su tre settori: andamento del mercato della droga, della prostituzione e del contrabbando.

Tutto perfettamente illegale. Joe, it’s not a joke, non si scherza affatto: aumenteremo il nostro Pil, avremo pure big benefici nei conti pubblici. Manco fa in tempo a smettere di ciondolare la testa di qua e di là, farfugliando qualcosa che somiglia a un intraducibile «what the fuck…››, che gli capita di leggere la proposta di un signore che conosce bene perché ha conquistato gli States con i megastore Eataly. Mister Oscar Farinetti, renziano della prima ora, è quel che si dice un ambasciatore dell’Italia nel mondo. Già in predicato di fare il ministro, dà la sua ricetta per mettere a posto la spesa previdenziale: «Ci vuole una bastonata: tetto massimo di 3.000 euro netti, bastano e avanzano per vivere» sentenzia. E quelli che prendono di più, cioè i 600mila italiani che hanno versato contributi per 40 anni? La risposta è facile, caro Joe, basterebbe ricordarsi come si traduce in americano «cazzi loro» però va bene anche «what the fuck. ..».

Passata la pagina di economia dove il suo connazionale Bob Wilt, presidente del colosso Alcoa, annuncia la chiusura definitiva dello stabilimento di Portovesme in Sardegna con 455 lavoratori a spasso perché, dear italians, «le ragioni di fondo che rendevano non competitivo l’impianto non sono purtroppo cambiate», il nostro Joe decide che è tempo di lasciarsi alle spalle tanta mestizia e rigenerare lo spirito con una visita alla Casa di Augusto in occasione del bimillenario della morte dell’imperatore. È obbligatorio prenotare, al centralino parlano anche in inglese. Wonderful. Peccato che dopo 10 minuti d’attesa, Joe viene invitato a richiamare «tra qualche giorno» perché la Soprintendenza deve fissare ancora le regole per le visite. D’altronde hanno avuto sono duemila anni per farlo. Ci risiamo col bisbiglio: «What the fuck…» lasciamo Joe al suo disgusto e concentriamoci un momento su di noi.

La realtà dell’Italia è esattamente quella che avete letto, se non peggio. E allora, visto che s’ode di nuovo la rumba degli annunci, sarà il caso di mettere in fila le priorità. Sono due: lavoro e giustizia. Si lasci perdere la fuffa, si eviti l’effetto grigliata mista mettendo sul fuoco provvedimenti dall’indiscusso valore mediatico ma dalla scarsissima possibilità di vedere la luce. L’Italia riparte se si mette mano in profondità in quei due settori con il concorso di tutti perché, come per le riforme istituzionali, rappresentano un terreno comune dove le forze politiche responsabili possono e devono incontrarsi. Lavoro e giustizia hanno priorità assoluta: da lì passano sviluppo, competitività e credibilità, soprattutto nei confronti degli investitori esteri. ll resto, come direbbe Obama, è horseshit.

Oltre il feticcio del 3 per cento

Oltre il feticcio del 3 per cento

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Perché il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero? L’Italia aveva un deficit basso prima della crisi, eppure il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere. Questo dovrebbe farci capire che il problema non è il deficit in sé e per sé. Eppure oggi tutta l’attenzione è su quel numero magico, quasi un feticcio. Non conta quanto è grande il deficit, ma come è composto: e la verità è che gran parte del deficit è prodotto da fattori che non hanno nulla di strategico.

Qui non si tratta di uno Stato che vuole «espandersi» spendendo di più, ma di una reazione automatica a quello che sta succedendo sul versante della crescita. Quando crescita e occupazione stentano, come è il caso dell’Italia negli ultimi vent’anni, il deficit cresce automaticamente a causa del costo di cose come la cassa integrazione e i minori introiti fiscali. La verità, quindi, è che il deficit è il sintomo del problema. Il problema è la crescita bassa e la disoccupazione, che porta per definizione a un aumento del rapporto debito/Pil. Non il contrario, co- me vuole la logica che continua a orientare le misure della trojka e a tenere in ginocchio Paesi prigionieri di un circolo vizioso di assenza di crescita.

Il deficit, pertanto, è una conseguenza automatica della mancanza di crescita. Solo quando l’Eurozona smetterà di aggrapparsi a cifre feticcio come il 3 per cento e sposterà l’attenzione su quelle tipologie di investimenti e riforme in grado di aumentare occupazione, produttività e crescita, si riuscirà a tenere il deficit sotto controllo, e soprattutto a consentire agli Stati di avere qualche speranza di veder crescere il denominatore del rapporto debito/ Pil e non solo il numeratore.

Ma che cosa sappiamo della crescita? È ovvio che avere le giuste condizioni «generali » (meno burocrazia, più flessibilità del mercato del lavoro, meno corruzione ecc.) è indispensabile. Ma senza i necessari investimenti pubblici e privati che incrementano la produttività nel lungo termine, la crescita è semplicemente impossibile. Sfortunatamente i commentatori, sia di destra che di sinistra, continuano a ignorarlo. Sentiamo dire spesso, per esempio, che il miracolo dell’export tedesco è merito delle riforme di Schröder che alla fine degli anni 90 tennero a freno i salari, con l’ovvio corollario che l’Italia e gli altri Paesi della «periferia» dovrebbero anche loro ridurre i salari e accrescere la flessibilità del mercato del lavoro.

Quello di cui non tiene conto questa analisi, però, è che (1) a tenere temporaneamente a freno i salari in Germania fu un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l’unificazione tedesca, che altrimenti avrebbe provocato disoccupazione di massa, specialmente nel Länder occidentali, e (2) che questo accordo fu stipulato in cambio non solo del mantenimento dei livelli occupazionali, ma anche di una riduzione dell’orario di lavoro (35 ore) e di investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione, che creano più posti di lavoro e posti di lavoro migliori in futuro. E sono proprio questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri Paesi come l’Italia sul versante della produttività.

Il vero disastro della «periferia» non è il costo del lavoro, ma la produttività. L’indicatore solitamente usato per la competitività è il costo unitario del lavoro, che può essere diviso in due componenti: (a) il costo del lavoro e (b) la produttività. La cosa evidente è che la differenza più marcata tra Paesi non è tanto nel costo del lavoro (in sé e per sé, specialmente se includiamo i contributi sociali, che in Germania sono più alti), ma nel rapporto con la produttività. L’Italia, per esempio, negli ultimi quindici anni ha avuto una crescita della produttività pari a zero (o addirittura negativa).

E come si ottiene produttività? Pagando meno i lavoratori? No. Si ottiene produttività consentendo ai lavoratori di lavorare in modo più efficiente, con una formazione all’avanguardia, macchine tecnologicamente avanzate, una divisione del lavoro innovativa e rapporti armoniosi tra capitale e lavoro. Si ottiene produttività anche avendo una percezione strategica della direzione in cui si vuole che vada l’economia. Quando la Germania decise di imboccare la strada della grüne strategie ( la strategia verde), sindacati, governo e imprese si sedettero a un tavolo e si mossero in modo concertato per trasformare i modelli di produzione, distribuzione e consumo in tutta l’economia e per disegnare nuove forme di istruzione in grado di preparare tecnici e ingegneri alla «rivoluzione verde». Fu il prodotto di una visione, non di un decreto ministeriale!

È tempo di riconoscere, in modo forte e chiaro, che il vero problema dell’Italia non è che i lavoratori guadagnano troppo, ma che i salari non crescono allo stesso ritmo della produttività, perché quest’ultima risente della stagnazione degli investimenti, sia da parte del settore pubblico che di quello privato, e della costante conflittualità, sia tra partiti politici che tra capitale e lavoro. Le aziende private italiane continuano a spendere meno della media in settori come la ricerca e sviluppo (cruciale per la produttività) e la formazione del capitale umano, e il settore pubblico italiano continua a preferire «sovvenzionare» e «incentivare», invece di investire strategicamente in aree a forte crescita. Si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte «strategica» (non automatica) del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi, riformare i sistemi pensionistici europei in modo da renderli più uniformi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma a meno che queste riforme non siano accompagnate da massicci investimenti (di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall, ossia il 2,5 per cento del Pil dell’Unione europea), con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella «stagnazione secolare». E non è un destino ineluttabile: è una nostra scelta, figlia di una totale mancanza di visione.

Sfiduciati

Sfiduciati

Davide Giacalone – Libero

L’immagine della locomotiva, riferita alla Germania, fa deragliare molti ragionamenti. In qualche caso, negli ultimi anni, oltre a non trascinare nessuno la Germania è stata trainata. Tenerlo presente aiuta a capire i dati sul calo della fiducia (indice Ifo), da parte delle aziende tedesche: è il quarto ribasso consecutivo e, per giunta, ci si aspettava il calo di un punto (a 107 da 108 di luglio), invece è stato di un 1,7 (106,3). Posto ciò, e prima di guardare dentro al problema, meglio non dimenticare che il prodotto interno lordo tedesco è previsto in crescita di un punto e mezzo, alla fine del 2014, avendo perso mezzo punto rispetto alle previsioni di inizio anno. Noi, invece, abbiamo perso di più (0,6-0,7), rispetto alle previsioni del governo, e chiuderemo a zero o a zero più un nulla, in quel caso festeggiando il non avere chiuso in negativo. Così, giusto perché non sfuggano le differenze, ingigantite dai dati del passato prossimo.

Torniamo alla locomotiva. La Germania sarebbe effettivamente tale se i suoi consumi interni trascinassero le esportazioni di altri paesi europei. Ma non è così. Il modello tedesco, negli ultimi anni, s’è retto su tre pilastri: a. riforme del mercato interno, per rilanciare la competitività; b. basso costo per l’accesso ai capitali; c. esportazioni verso aree extra Unione europea (in questo incorporando importanti componenti made in Italy). La prima cosa è un loro merito (ed è una nostra colpa stare ancora qui a chiacchierare anziché adeguarci). La seconda è stata un coltellata alla schiena degli altri europei, noi per primi, in parte responsabili del loro disordine finanziario, in parte inchiodati da come l’euro è stato concepito e fin qui realizzato. La terza è un legittimo successo, salvo che ora il mondo s’è fatto meno ospitale, sicché le tensioni rendono meno floridi i commerci. A questo aggiungete che il nuovo governo, che ha sempre Angela Merkel come cancelliere, ma una composizione politica che ora comprende i socialdemocratici, ha deciso di indebolire il primo pilastro, puntando all’aumento dei salari minimi. Mettete assieme queste cose e vi spiegherete perché le aziende tedesche nutrono qualche preoccupazione.

Quel modello, comunque, non era una locomotiva per l’economia Ue. Noi italiani siamo stati vicini alla caldaia, a spalare carbone e consentire al ciuf-ciuf di non ansimare. Lo abbiamo fatto pagando il denaro assai più dei tedeschi. E lo abbiamo fatto finanziando gli europei in grave crisi e, con questo, alleggerendo le banche tedesche dai non pochi errori (e orrori) commessi. Il frutto di questi squilibri lo si sente nel cappio che il debito pubblico stringe attorno al nostro collo, costandoci il doppio del deficit consentito. E lo si vede anche nella bilancia commerciale tedesca, patologicamente e irregolarmente in avanzo. A far da controprova che la locomotiva era un vagone letto.

Nel corso di questa estate si sono lette tante cose, circa le ricette economiche da adottare. L’ingrediente più diffuso è stato la novità. C’è bisogno di idee nuove, s’è detto e scritto. Le ricette nuove sono sempre interessanti, se non pretendono di venderti un cecio con sentore di tamarindo quale pasto completo e sofisticato. Però la cucina ha una sua tradizione di ragionevolezza, destinata al nutrimento con soddisfazione. Supporre che i banchieri centrali o i mumble-mumble economici possano trasformare i debiti in ricchezza e la nullafacenza in produttività, non è da ottimisti, ma da illusi. Noi italiani abbiamo bisogno di cose semplici, benché non facili: lavorare di più, più numerosi, con meno tangente fiscale, avendo meno mantenuti sulle spalle. Rozzo? Certo, ma anche un panino al salame può esserlo, restando più convincente del citato cecio. In Europa, invece, ci si deve decidere: o si sta tutti ai parametri, nel qual caso i tedeschi paghino per i loro sforamenti; oppure ci si decide a ricordarsi che siamo l’area più ricca e produttiva del mondo, sicché si potrebbe provare ad accompagnare la politica, e la democrazia, alla moneta comune.

Non c’è modo che questi problemi si risolvano da soli. Mentre è da sciocchi supporre che qualcuno li risolva per noi.

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I fatti iniziano a farsi sempre più chiari. Le due anomalie che l’Italia rappresenta, quella di essere l’unico paese dell’eurozona in recessione e quella di incarnare l’unica economia che al terzo anno di tentate riforme non riesce in alcun modo a far ripartire la crescita e il pil, stanno per arrivare al pettine. Mario Draghi ha parlato da Jackson Hole e ha detto chiaramente che senza le riforme che l’Italia rinvia dal 2011, in primis quella per rendere più efficiente il mercato del lavoro, la Bce non potrà fare molto di più di quanto ha già fatto. Un messaggio chiaro a Matteo Renzi che continua a chiedere una flessibilità che nessuno può concedergli a priori. Anche perché il trimestre in corso sarà chiave per l’Italia. Se, anche in conseguenza di una pessima estate climatica e conseguentemente di una fiacca stagione turistica, il pil di luglio-settembre dovesse registrare un nuovo dato negativo, allora la faccenda per Renzi e per il Belpaese si farebbe davvero grave. Non tanto e non solo perché sarebbe già acquisito a quel punto per il 2014 un calo della ricchezza nazionale dello 0,4-0,5%, con tutto quello che significa in termini di occupazione ed entrate fiscali, ma perché l’Italia diventerebbe automaticamente portatrice di una ulteriore anomalia dell’eurozona: l’unica economia a subire l’ennesimo downgrade da parte della agenzie di rating mentre gli altri paesi registrano promozioni nei giudizi. Se, infatti, il pil scendesse ancora nel trimestre in corso per Moody’s&Co.diventerebbe normale capire se il rating dell’Italia possa essere o meno confermato. Un paese in recessione da tre trimestri, con una disoccupazione giovanile monstre e indebolito da una strisciante deflazione è oggettivamente a rischio di downgrade. Ma per l’Italia perdere un notch, questa volta, equivarrebbe a spalancare le porte di Roma all’arrivo della troika.

Lo spartiacque della crisi stavolta corre lungo gli effetti che i dati a consuntivo del pil del terzo trimestre potranno produrre. Un altro quarter a crescita negativa e la secchiata gelata potrebbe investire il governo Renzi e la sua autonomia di manovra.

Del resto, è stato Renzi a precipitarsi nella villa umbra di Draghi per un confronto sulla situazione e per capire che margini di manovra in assenza delle riforme non ne esistono più. Se è presumibile che la troika sia già a Bolzano, allora al Premier non rimane che un’ultima via di fuga dal commissariamento: scongiurare un nuovo trimestre di pil negativo. Ma la confusione nel dibattito politico italiano e l’assenza di un chiaro programma riformista e di un calendario per attuarlo, certamente non aiutano l’Italia a guadagnare punti con le agenzie di rating. E a Renzi di respingere oltre il Brennero la temuta troika.

Più poveri e più tassati

Più poveri e più tassati

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana il governo darà via al cosiddetto Sblocca Italia. Nomi altrettanto evocativi sono stati dati a decreti precedenti. Nonostante ciò l’Italia è ferma al palo. Il governo Renzi ha fatto un passo in più rispetto ai predecessori: ha restituito agli italiani (o meglio solo a una certa fascia ben identificata) 10 miliardi di euro, in forma di riduzione fiscale. Non è poco. Eppure il Pil, il nostro reddito, è diminuito.

Purtroppo il motivo è semplice: gli italiani non si fidano più. Cerchiamo di essere un po’ più specifici. Ogni riduzione fiscale dovrebbe generare una maggiore propensione media al consumo. E per questa via creare maggiore prodotto e reddito. Si spende di più, le aziende così vendono e assumono. La riduzione fiscale di Renzi (prevista anche per gli anni prossimi) serve a poco per il Pil e molto per chi comunque la incassa e gode di un extrareddito disponibile. Non alimenta la nostra produzione per due ragioni di fondo.

La prima la spiega il presidente della Confedilizia nelle pagine interne. Le diverse patrimoniali sulla casa ci hanno reso più poveri per duemila miliardi. La seconda è che (come dimostra il dibattito estivo) siamo incerti sul futuro fiscale che ci attende: nuove imposte, varate dai passati governi, ma solo oggi in vigore, contributi vari sulle pensioni, riforma delle regole sulle detrazioni fiscali rendono lo scenario tributario a 12-18 mesi fosco. Ebbene nessuna riduzione fiscale avrà mai un effetto positivo sulla produzione se chi ne gode si sente, al tempo stesso, più povero e in prospettiva più tassato.

Si può uscire da questa impasse ? La prima strada è quella di riscrivere un contratto fiscale con gli italiani (tutti, senza distinzione di censo) dicendo loro che le patrimoniali sugli immobili verranno riportate alla situazione pre 2011. Prendiamo atto che quelle imposte hanno impoverito gli italiani più di quanto abbiano arricchito lo Stato. Si dovrebbe poi concentrare lo sforzo di riduzione fiscale sulle imprese. L’elargizione degli 80 euro a dieci milioni di italiani (come bene aveva previsto nel 1958 Milton Friedman) ha un effetto moltiplicatore sul Pil molto inferiore di quello che avrebbe una riduzione fiscale più forte a un milione di imprese.

E’ il sommerso l’ammortizzatore sociale del sud

E’ il sommerso l’ammortizzatore sociale del sud

Alfonso Ruffo – Il Sole 24 Ore

Come si spiega che in un territorio vasto e problematico, con il Pil procapite tra i più bassi d’Europa – ai livelli della Grecia quando andò in fiamme per le proteste dei cittadini stremati dalle privazioni – e una povertà relativa che colpisce oltre un quarto delle famiglie impedendo che in questi contesti si possa consumare un pasto decente almeno ogni due giorni, non scoppi la rivoluzione?
Com’è possibile che nel Mezzogiorno, dove si addensano tutte le città con la peggior qualità della vita e la minore possibilità di fare impresa, con tasse locali spinte al massimo per la cattiva gestione delle amministrazioni locali e l’indifferenza di più governi, con un’emigrazione giovanile che sale alle stelle per la mancanza endemica di occupazione, la gente non scenda per strada a fare la guerra civile?
All’indomani della visita lampo a Napoli Reggio Calabria e Palermo del capo del governo Matteo Renzi, impegnato a praticare un’indispensabile quanto difficile iniezione di fiducia a beneficio dei residenti e dell’occhiuta Europa, un’attenta lettura dei numeri che sorreggono l’economia di un terzo degli italiani che occupano il 40% del territorio nazionale producendo appena un quinto della ricchezza totale induce a serie riflessioni. E sì, perché speranze di riscatto a parte gli indicatori volgono tutti al peggio (si prevedono tra l’altro ancora due anni di decrescita con appesantimento dei conti generali) e a nulla valgono sul piano statistico le eccezioni che pure ci sono e cominciano a essere giustamente celebrate. Insomma, dati alla mano le regioni del Sud dovrebbero essere in subbuglio non potendo più sopportare il peso di un rigore che conduce alla fame.
La risposta purtroppo esiste ed è ben conosciuta. Se ne parla nei convegni e se ne discute in consessi ufficiali. Alla fine, però, il contrasto alle sue devastanti conseguenze è messo in coda alle priorità per mancanza di cure efficaci. Gli studiosi accennano con educazione all’Economia Non Osservata. Si riferiscono all’economia sommersa e a quella criminale che producono il doppio effetto di distribuire pronte risorse e d’infettare l’ambiente.
Il fenomeno non riguarda il solo Mezzogiorno ma è qui che si sviluppa con maggiore vigore per diventare una realtà visibile e palpabile. Una vera e propria economia parallela che soddisfa pezzi sempre più grandi di popolazione che altrimenti non avrebbero di come sbarcare il lunario. Il ventaglio delle tipologie è molto largo e va da ipotesi di nascondimento per cosiddetti motivi di sopravvivenza a vere e proprie pratiche illegali.
Il centro studi Srm calcola che sommando le due forme di reddito, il sommerso e il criminale, sfugga alla contabilità ufficiale del Sud ben il 40% della sua ricchezza. In soldoni si tratterebbe di oltre 130 miliardi che sommati ai 317 ufficiali sarebbero in grado di sollevare il reddito del Mezzogiorno all’onorevole livello dei 450 miliardi giustificando il piatto in tavola e la mancata sollevazione in piazza.
Volendo depurare il risultato dall’addendo particolarmente odioso dell’economia criminale (che vale circa l’11 per cento nel Mezzogiorno contro un dato non molto distante nel Centro Nord di quasi il 10 per cento), l’economia sommersa pesa al Sud per un consistente 27 per cento, e quindi molto più della media nazionale del 18 e della media europea del 16, funzionando da ammortizzatore sociale.
La linea di confine tra le due economie nascoste è molto labile. E chi s’immerge per necessità diventa subito un soggetto a sovranità limitata, debole e ricattabile, facilmente preda di appetiti robusti e inconfessabili. Lo Stato è un gendarme da cui guardarsi e il credito bancario un’illusione per mancanza di carte da poter esibire. L’usura è dietro l’angolo. È facile cadere nella rete della tentazione o del bisogno.
Senza parlare delle ripercussioni nefaste sul mercato legale con un effetto di spiazzamento che gli operatori onesti conoscono e cominciano a denunciare. Insomma, se da un lato l’economia non osservata offre risposte che l’economia ufficiale non ha, dall’altro mortifica gli imprenditori modello che rischiano di uscire di scena per concorrenza sleale e si rifiutano d’investire in un ambiente ostile. Questa rubrica non ha soluzioni da offrire (non è il suo mestiere) ma vorrebbe dare un consiglio semplice semplice che possa guidare la mente e la mano di chi ha il potere di cambiare le cose: rendere più facile, molto più facile, la vita di chi si comporta bene e più difficile, molto più difficile, la vita di chi si comporta male. Può sembrare banale ma l’esperienza insegna che accade esattamente il contrario.  

Un Pil di troppo

Un Pil di troppo

Davide Giacalone – Libero

All’inizio se ne parlava con aria cospirativa: con i nuovi criteri per calcolare il prodotto interno lordo risolveremo lo sforamento del deficit. In realtà, come vedremo, il deficit lo allarghiamo. Poi si è passati alla versione criminale: il pil crescerà grazie a puttane e spacciatori. Il rischio è, se mi passate il paradosso, che la criminalità cattiva scacci la buona. Questa faccenda del ricalcolo è piena di trappole ed equivoci. Per capirlo se ne devono vedere tre aspetti: 1. i criteri; 2. le quantità stimabili; 3. gli effetti.

1. Il pil è una somma, diversi dei cui addendi sono stimati. Solitamente l’indice lo si legge in percentuale, intendendosi di crescita o decrescita rispetto al passato. È evidente che più la stima si attiene alla realtà e più quel numero non è campato in aria. È evidente una seconda cosa: se si mettono a paragone pil di diversi paesi, si dovrebbe misurarli tutti allo stesso modo. Invece non accade. Prendiamo la prostituzione (questo non è un dibattito nel merito, ma, giusto per non scantonare, sono favorevole alla sua legalizzazione, mentre sono contrario per quel che riguarda la droga): in Germania è legale, in Italia no; in Germania pagano le tasse, in Italia no. Quando paragoniamo i due pil, quindi, misuriamo cose diverse. Eurostat (l’Istat dell’Unione europea), giustamente, chiede l’introduzione di criteri omogenei, con il che entra nel conto quel che magari, in un determinato Paese, è illecito. Ma c’è un limite. Tanto per capirsi: l’estorsione non entra nel conto mai. Diciamo che l’idea è quella di contabilizzare quel che da qualche parte è consentito, sicché si tratta di criminalità accettata e consensuale (fra le due parti, chi paga e chi incassa). Ciò pone un problema per l’induzione in schiavitù, che è risolto dove la cosa è legalizzata, mentre resta oscuro dove non lo è. Attenzione: dove l’economia sommersa è fatta di fuga dal fisco, quindi di attività lecite, ma in evasione, queste, che hanno un dna sano, non entreranno nel conto. Per questo dico che la criminalità cattiva (droga) scaccia la buona (pescatore che vende sulla banchina, senza scontrino).

2. Nell’immaginare quanto potrà crescere il pil, dati questi criteri, si entra nel cuore del problema. In Germania le prostitute non porteranno nulla, perché già portano, da noi sì. Ma è intuitivo che quel tipo di economia è maggiormente florida laddove c’è più ricchezza. Quindi, puttane a parte, il pil crescerà di più dove è già più alto. È difficile credere che il Paese senza limiti nella circolazione del denaro contante sia quello con meno economia sommersa, semmai il contrario. E quel Paese, con relativa evasione fiscale, è la Germania. Introdurre nel conteggio la spesa per ricerca è cosa buona, ma quella italiana sarà bassa, perché la gran parte, da noi, si fa nei capannoni e nei laboratori di piccole e medie imprese. Introdurre la spesa militare non significa che il pil aumenterà di quanto spendiamo nella difesa, perché, giusto per esempio, quel che paghiamo a Finmeccanica è già contabilizzato, dal lato dell’impresa italiana, quindi crescerà solo di quel che spendiamo comprando all’estero. Non è proprio il massimo e, comunque, non è molto. Alla fine, quindi, scopriremo che il nostro pil cresce meno di quelli con cui ci paragoniamo. Né vale la furbata, ad uso interno, di vendersi l’aumento come una conquista, dato che verranno ricontabilizzati anche gli anni precedenti.

3. Gli effetti sono da ridere. O da piangere. L’anno prossimo la pressione fiscale diminuirà, ma noi pagheremo quanto e più di prima. Magia? No, imbroglio: il pil cresce perché si contabilizza anche (in parte) quel che non è legale, quindi non paga tasse, ciò fa scendere l’indice della pressione sulla ricchezza prodotta, ma quelli che pagano non vedranno ridursi un accidente. C’è di più: i contributi che ciascuno Stato versa al bilancio Ue sono in proporzione al pil, quindi aumentano aumentandolo, ma siccome quel di più che si dovrà versare non sarà accompagnato da gettito fiscale, ne deriva che il deficit ne risente negativamente. L’illusione ottica dura qualche settimana.

Riassumendo: omogenizzare i criteri di contabilità è giusto, ma prima di trarne conclusioni su effetti miracolistica sarebbe bene studiare le carte. Se qualcuno pensava fosse, o si potesse farne una mandrakata, del cavallo più che la febbre ha la follia. Diverso sarebbe se (posto che la ricetta principale consiste nell’abbattimento del debito mediante dismissioni) usassimo il fisco per far emergere l’economia nera che abbiamo (un ipotetico 18%). Ma questo comporta abbassare drasticamente le pretese dello Stato e consentire, come fanno i tedeschi, che ciascuno faccia quel che vuole con i propri soldi (aumentando il gettito iva). Anche leccandosi il pollice. Qui, invece, vedo sguardi languidi verso le lucciole. Ma non per le ragioni tradizionali, quanto per tassare i proventi delle loro fatiche.

I rischi dell’economia illegale nel Pil

I rischi dell’economia illegale nel Pil

Letizia Moratti – Corriere della Sera

La decisione di aggregare al calcolo del Pil (Prodotto interno lordo) una parte dell’economia illegale mette ancor più in evidenza l’inadeguatezza di questo strumento nella definizione del benessere dei cittadini di uno Stato. E’ ormai assodato che né il valore assoluto del Pil né la sua crescita permettano una valutazione efficace di tale benessere e proprio per questo, dagli anni ’90, l’Onu, le Istituzioni Europee, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e diversi Paesi singolarmente hanno promosso strumenti e indicatori alternativi che superassero l’egemonia del Pil e tenessero in considerazione anche aspetti sociali e ambientali della vita in un sistema economico nazionale. La ricchezza di un Paese è infatti data anche dai progetti educativi e di istruzione, dall’attenzione verso il patrimonio artistico e culturale, dalla capacità di promuovere modelli di welfare sostenibili. Una consapevolezza che Robert Kennedy aveva espresso già nel 1968 evidenziando come il Pil misurasse “tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.

Esistono quindi strumenti che permettono oggi di definire la salute economica di uno Stato attraverso parametri positivi che tengano conto della qualità della vita reale dei cittadini in una forma meno aggregata e vincolante del Pil. Introdurre i proventi dell’economia illegale è una scelta che non solo va nella direzione opposta a questi modelli innovativi di valutazione, ma pone anche di fronte ad una serie di riflessioni e problematiche. In primo luogo, certamente, un tema etico ascrivibile alla necessaria moralità nell’economia che già il Papa emerito Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate aveva ribadito. E’ importante riaffermare l’importanza dei comportamenti virtuosi che le istituzioni sono chiamate ad avere nelle scelte economiche che impattano la vita reale delle persone.

Gli effetti di scelte sbagliate possono essere estremamente negativi, basti pensare all’abrogazione del Glass-Steagall Act americano e la costituzione di gruppi bancari in grado di esercitare sia l’attività tradizionale sia l’attività di investment banking. Una scelta, in verità poi rivista dalle istituzioni Usa, che ha favorito la diffusione di una finanza speculativa i cui effetti si sono visti con la crisi del 2008. Esistono però anche altri rischi legati alla scelta di includere l’economia illegale nel Pil. Tra questi, il più evidente e relativo ai perimetri di inclusione – oggi droga, prostituzione e contrabbando, ma domani magari tratta delle donne, contrabbando di organi, sfruttamento del lavoro minorile. Non è chiaro dove sia il limite e se questa scelta possa rappresentare una forma paradossale di incentivo all’economia criminale. Infatti per esempio la Francia (l’lnsee, Istituto nazionale di statistica e studi economici) rifiuta di incorporare nel calcolo del Pil le attività “esercitate sotto costrizione”.

Il Movimento per l’economia positiva fondato da Jacques Attali, di cui faccio parte, è nato dal desiderio di trasformare la crisi attuale in opportunità, modificando la nostra economia e mettendo in discussione i nostri modelli di governo, di produzione e di consumo. Nel Forum internazionale tenutosi in Italia lo scorso giugno, il Movimento ha promosso dieci azioni per una nuova economia positiva nel nostro Paese e tra queste quella per misurare il contributo del Terzo settore al Pil e inserire nella effettiva misura e in modo esaustivo il valore aggiunto del volontariato nel calcolo del Pil che fonti autorevoli stimano in un incremento di 20 miliardi di euro, appena superiore ad un punto percentuale di Pil. Una voce sicuramente più opportuna e virtuosa di quella dell’economia illegale, ma anche un segnale da parte delle Istituzioni, in particolare nei confronti dei giovani che potrebbero dirigersi verso una forma di economia più positiva e socialmente utile di quella proveniente da droga, contrabbando e prostituzione.