previdenza

Renzi sul tetto previdenziale che scotta

Renzi sul tetto previdenziale che scotta

Giuseppe Pennisi – Formiche

Le pensioni scottano. Specialmente in questi giorni in cui il Consiglio dei Ministri deve decidere che risposta dare alla sentenza della Corte Costituzionale sulla perequazione, a quella sui contributi di solidarietà attesa per giugno ed alla marea di ricorsi che si annunciano. In passato, anche gli avversari, hanno riconosciuto al Presidente del Consiglio una grande capacità di trasformare momenti di crisi in opportunità. Adesso, la “crisi previdenziale” gli offre un’occasione d’oro. I suoi solerti collaboratori hanno certamente portato alla sua attenzione il saggio di Karen Anderson e Michael Kadeing “European Integration and Pension Policy Changes: Variable Patterms of Europeanization in Italy, the Netherlands and Belgium” uscito nelVol 563 N.2 (ppa.231-253) del British Journal of Infustrial Relations.

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Renzi non può pensionare la previdenza

Renzi non può pensionare la previdenza

Edoardo Petti – Formiche

L’orizzonte del regime previdenziale italiano appare più che mai ricco di incognite. A complicare un panorama che dal 1992 ha conosciuto ben sei riforme sono la bocciatura ad opera della Corte Costituzionale del blocco dell’adeguamento all’inflazione per le pensioni lorde superiori a tre volte il livello minimo, e la proposta di rendere flessibile l’abbandono del lavoro vincolato a una sensibile penalizzazione finanziaria rilanciata dal presidente dell’INPS Tito Boeri.

Temi che sono stati analizzati in un convegno promosso presso il CNEL dal Centro Studi ImpresaLavoro guidato da Massimo Blasoni.

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Le pensioni di domani tra Stato e privato

Le pensioni di domani tra Stato e privato

Carlo Lottieri – La Provincia di Como

La recente sentenza della Corte costituzionale, che ha ripristinato gli aumenti per le pensioni superiori ai 1.400 euro, ha riportato la questione previdenziale al centro dell’attenzione e sta di nuovo obbligando a porre mano all’intero sistema delle pensioni: troppo costoso e basato su logiche difficilmente giustificabili sulla base di criteri di giustizia.

Nell’immediato, il governo sarà costretto a trovare risorse che permettano di soddisfare (almeno in parte) le richieste della Consulta. Questo però non basta. Più in generale è bene comprendere che il passaggio che ebbe luogo una ventina di anni fa dal sistema detto “retributivo” a quello “contributivo” non è in grado di garantirci un futuro, dal momento che non si è usciti da quello schema che vede i lavoratori attuali pagare la pensione dei lavoratori del passato, ormai anziani. Per giunta la demografia ci condanna, dato che l’età della vita si è allungata proprio mentre crollava l’indice di fertilità. Lo scenario futuro vede pochi giovani che dovranno mantenere tantissimi anziani.

La gestione pubblica delle pensioni è stata costruita operando una collettivizzazione dei risparmi destinati a sorreggere la nostra terza età. I lavoratori sono stati costretti a destinare le loro risorse all’Inps e a istituti simili, che non hanno accantonato e investito tali capitali, ma li hanno usati per soddisfare le esigenze dei pensionati presenti e anche per altre esigenze “sociali”. Ora però i conti della previdenza non tornano e sono necessarie misure drastiche, che si aggiungano alle varie riforme degli ultimi anni.

Al tempo stesso, se l’economia non si mette in moto è impossibile che vi siano risorse per garantire una vita decente alla popolazione anziana, ma con questi prelievi fiscali e previdenziali è difficile che si possa avere una qualche ripresa.

Entro tale quadro molti si rendono conto dell’esigenza di passare da un sistema previdenziale “politicizzato” (pubblico, statale) a uno basato sulla responsabilità di singoli in grado di controllare direttamente i loro accantonamenti. È questo in particolare il tema dei fondi privati e della previdenza complementare.

Non è un caso, però, che oggi soltanto una minoranza dei lavoratori (meno di un terzo) stia costruendo una pensione complementare: un po’ perché l’insieme del prelievo fiscale e contributivo è già molto alto, e quindi i giovani non hanno risorse da destinare a una pensione ulteriore, ma anche perché c’è poca fiducia. Il modo in cui negli scorsi anni il legislatore è intervenuto a modificare le regole fiscali in materia di previdenza privata oppure ha annullato l’autonomia delle varie mutue professionali ha insegnato che in questo ambito regna un arbitrio che non promette molto di buono.

Pure in tema di pensioni, insomma, c’è bisogno di più diritto e meno politica. In altri termini è necessario che vi siano regole precise, semplici, di lunga durata, sottratte alla volubilità di governi e legislatori. Questo è importante non soltanto per aiutare l’economia a rimettersi in moto, ma anche per favorire quella fiducia che è necessaria a far crescere una previdenza nuova e direttamente nelle mani dei lavoratori.

Un’altra tegola incombe: a rischio il ‘contributo’ chiesto dal governo Letta

Un’altra tegola incombe: a rischio il ‘contributo’ chiesto dal governo Letta

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Quando a dicembre 2011 era in preparazione il ‘Salva-Italia’, con relativo blocco della perequazione sulle pensioni, furono non pochi esperti ad avvertire che si rischiava una sentenza (totale o parziale) negativa da parte della Corte Costituzionale, che già ben due volte in passato ha censurato i ‘contributi di solidarietà’ sugli assegni previdenziali, a partire da quello deciso dal governo Berlusconi. Ora che la bocciatura è arrivata, ecco che già all’orizzonte se ne profila una seconda. E nel mirino c’è di nuovo un contributo di solidarietà, quello ‘riproposto’ nel 2013 da Letta. Il verdetto starebbe per arrivare in giugno e produrrebbe un ulteriore costo aggiuntivo, per circa 2-3 miliardi. Anche se una tesi (peraltro condivisa da pochi giuristi) sostiene che, al contrario, questa volta il contributo sarebbe giudicato ‘legittimo’, in quanto i fondi resterebbero dentro il pianeta Inps (gli incassi sono destinati a favorire le pensioni dei più deboli).

Ad essersi espresse, in punto di diritto, sono le Corti dei Conti della Calabria, del Lazio, dell’Emilia-Romagna, del Veneto (nonché di altre Regioni). A fronte di ricorsi a loro rivolti da associazioni di pensionati, hanno replicato che si tratta di misure già dichiarate incostituzionali da parte della Consulta: violerebbero ben 8 articoli (3, 4, 35, 38, 53, 81, 96 e 137) della Costituzione. Non solo, la Corte dei Conti aggiunge che le misure contrastano anche con 5 articoli della Convenzione europea sui Diritti dell’uomo e che in materia la Corte di Strasburgo ha già ‘sentenziato’ nel 2013. Il nodo di fondo è che un’’imposta’ – perché tale è da fatto un contributo – sui soli pensionati è discriminatoria. In caso di difficoltà a far quadrare i conti, sarebbe logica e legittima soltanto un’addizionale, temporanea e progressiva, che colpisse tutti i redditi. Come fatto in numerosi Paesi Ocse. Peraltro il tema della previdenza si va sempre più ‘europeizzando’. Nella Ue è infatti in fase di avanzata redazione una ‘direttiva’ per uniformare in qualche modo i sistemi previdenziali e rendere più agevole la libera circolazione dei lavoratori (ora la totalizzazione dei versamenti in vari Paesi Ue è basata su una rete di accordi bilaterali). Una nuova condanna dalla Consulta renderebbe ancor più difficile, per l’Italia, incidere ‘politicamente’ sui contenuti di questa direttiva.

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Walter Passerini – La Stampa

Puntuale come una sagra paesana, ogni fine agosto si celebra il tormentone delle pensioni, fatto apposta per demotivare il ritorno al lavoro e il rientro dalle vacanze. Le sembianze quest’anno vanno sotto il nome di prelievo di solidarietà, su cui si cimentano ministri, politici, contabili, liberisti, sovietologi e alchimisti vari. Alla insostenibile leggerezza degli assegni (l’importo medio annuo è di 11 mila euro lordi) si accompagna l’insopportabile leggerezza di Catoni e Censori che si divertono a gettare alcol sul fuoco, aumentando l’incertezza degli italiani e il loro umor cupo. Sulle pensioni non si scherza, simboleggiano e sostanziano non solo la capacità di avere un reddito, ma anche il patto di coesione sociale su cui si fondano le comunità e il patto di fiducia sui diritti acquisiti e sul futuro. Non può essere unicamente economico e contabile, quindi, il parametro su cui impostare la riapertura del cantiere pensioni, ad alcune condizioni.

La prima è che non si può fare cassa con la previdenza: le pensioni non sono né un bancomat né una slot machine. Gli eventuali risparmi della spesa previdenziale devono restare nel sistema previdenziale stesso. La seconda è che le pensioni non sono un campo di battaglia in cui consumare vendette: le storture ci sono, le ingiustizie pure (vedi i vitalizi di politici e parlamentari), e Robin Hood non è più in attività. Il rischio è illudere le masse che togliendo ai super-ricchi possano goderne i poveri. I Paperoni che guadagnano più di 20 mila euro lordi al mese sono 540, mentre sopra 3 mila al mese lordi ci sono 505 mila pensionati, che valgono 38 miliardi l’anno: poca cosa se li si vuole tassare al 10% con un prelievo di solidarietà. Il paniere si restringerebbe ulteriormente alzando l’asticella a più di 5 mila euro lordi al mese, che riguarda 140 mila individui, il cui sacrificio sarebbe ancora più inconsistente. I rimedi sinora proposti avrebbero un significato più simbolico che concreto. Nessuno ha oggi una ricetta del tutto convincente, anche perché per accontentare i contabili si abbassa l’asticella e l’alta tensione diventa micidiale. Cinque possibili le strade su cui far convergere opinione pubblica ed esperti, se si vuole dettare l’agenda ai politici. La prima è la costituzionalità, più ancora dell’efficacia, dell’eventuale prelievo di solidarietà. Già due recenti sentenze della Corte Costituzionale lo hanno bocciato. Sarebbe necessario un Fondo previdenziale, i cui proventi dovrebbero restare nel sistema pensionistico stesso.

La seconda è il valore delle pensioni. Il sistema contributivo riduce di un terzo il reddito medio percepito e rischia di creare una generazione di poveri. Oggi ci sono 13 milioni di pensioni retributive e solo 360 mila pensioni contributive, a cui vanno aggiunti 1,1 milioni di pensioni miste. Ma nel prossimo futuro il rapporto si rovescerà, creando potenziali bombe sociali nei sistemi di welfare.

La terza strada è il diritto all’informazione. Mentre il sistema retributivo legava con un coefficiente la pensione a stipendi e anni lavorati, oggi e domani la pensione dipenderà dai contributi effettivamente versati. Il cambiamento produrrà effetti depressivi sui redditi più bassi e insostenibili paradossi: chi vorrà lavorare oltre i 69-70 anni avrà una pensione superiore al 100% degli stipendi percepiti; i giovani e le donne, con una vita contributiva discontinua, si vedranno decurtare il reddito del 30%.

Per questo, ed è la quarta strada, si rende necessaria la busta arancione, un sistema di comunicazione che permetta ai cittadini di conoscere l’ammontare dei propri contributi e la simulazione del futuro assegno pensionistico. Cittadino informato, cittadino salvato? Forse nemmeno questo basterebbe, se non venisse affiancato, ed è la quinta strada, da un robusto rafforzamento della previdenza integrativa, più collettiva che individuale, per integrare un assegno pubblico che si preannuncia modesto. La questione previdenziale va legata alla questione del lavoro. Non si risolve trattenendo al lavoro più a lungo le persone, ma aumentando le entrate di nuovi lavoratori e di nuova linfa contributiva. E’ solo la creazione di nuovo lavoro che garantirà la sostenibilità del sistema pensionistico nel futuro.