privatizzazioni

Tra privatizzazioni e mano pubblica

Tra privatizzazioni e mano pubblica

Oscar Giannino – Il Messaggero

È importante la conferma venuta ieri dal ministro Padoan al Messaggero del programma di quotazioni pubbliche. Nel 2015 il governo collocherà sul mercato il 40% di Poste e Ferrovie, e il 49% di Enav. Per evitare sussidi incrociati sarebbe meglio per Poste e Ferrovie prima separare le attività di servizio universale da quelle gestite in concorrenza con privati. Ma in ogni caso è un bene quotarle pur senza cederne all’inizio il controllo. La disciplina e il premio ai risultati che vengono dai mercati finanziari rappresenta comunque un passo avanti rispetto all’opacità gestionale della mano pubblica (basti vedere l’efficienza guadagnata da Eni ed Enel quotati, rispetto a quando non lo erano). Due osservazioni sono però essenziali. La prima su una cosa che manca al suo elenco. La seconda su una cosa che invece si appresta a fare.

Alla lista di dismissioni di Padoan mancava un pezzo che la settimana scorsa Renzi ha annunciato: la decisione di metter mano alle quasi 10mila controllate e partecipate pubbliche di primo livello di Comuni e Regioni. Ad aprile scorso, tutto il lavoro di ricognizione e classificazione svolto da Cottarelli, nonché le sue proposte concrete già scritte per intervenire, sono rimasti nei cassetti. Sappiamo tutto quel che c’e da sapere. Che solo un terzo di esse sono nei 5 settori tradizionali delle utilities locali – elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporto – e che di loro oltre i due terzi sono sotto una soglia minima di fatturato che le possa rendere efficienti. Sappiamo quante complessivamente sono in perdita e di quanto, e si tratta di miliardi. L’indagine in corso a Roma, dove con Atac e Ama si concentrano 2 delle municipalizzate storicamente più produttrici di debito e clientelismo, ha spinto palazzo Chigi a dire che ora è il momento giusto per rompere gli indugi. Il governo si muova, allora. Come speriamo che già nella legge di stabilità vengano approvate proposte come quella avanzata da Linda Lanzillotta, che vincola le risorse per il risanamento di Roma Capitale alla cessione, secondo alcuni criteri di garanzia, delle partecipate a cominciare da quelle in perdita.

Anche perché tra pochi giorni ci troveremo di fronte a un intervento del governo che non è di privatizzazione, ma di rinazionalizzazione: dell’Ilva a Taranto. Il commissario Gnudi ha detto un’elementare verità: “nessun privato rileverebbe ora l’Ilva, sequestrata dai magistrati”. È impossibile a chiunque non sia dietro l’egida dello Stato avanzare oggi un piano industriale per quella che era la più grande acciaieria a ciclo continuo d’Europa. I pm hanno nel tempo esercitato la facoltà di espropriare il patrimonio sociale, la liquidità dell’azienda, gli input di produzione, i prodotti finiti, anche il patrimonio dei soci privati fuori dal gruppo. E ora si tratta anche di espropriare il restante titolo di nuda proprietà, dei Riva e degli Amenduni. Il modo in cui Renzi e Padoan interverranno sull’Ilva è essenziale: a seconda di come la rinazionalizzazione verrà decisa, rischia di compromettere la fiducia verso l’Italia invece di consolidarla. Ci sono dunque tre condizioni.

Primo: deve trattarsi di un intervento a tempo, in vista del risanamento ambientale e della restituzione poi del controllo dell’Ilva a privati. Non basterà dirlo a voce, bisogna dirlo in un cronoprogramma scritto nello stesso decreto. Beneduce, il grandissimo manager pubblico che pur da socialista riformista collaborò con Mussolini e s’inventò l’Iri nel 1933, disse in lungo e in largo che era solo a tempo, la nazionalizzazione delle industrie compromesse dalla crisi e finite ad affondare le stesse banche che le partecipavano. E che l’Iri, restituitele al mercato, sarebbe stato a quel punto liquidato. Ma Beneduce morì, e l’Iri è durato 69 anni, fino al 2010, giungendo a sfiorare il mezzo milione di dipendenti. Evitiamo di ripetere l’errore.

Secondo: proprio nell’acciaio lo Stato si è mostrato un pessimo gestore. La Finsider, che realizzò l’attuale Ilva di Taranto, perse oltre 20mila miliardi di lire nei 15 anni pre-privatizzazione. L’Iri alla fine fu travolto proprio per i debiti contratti nell’acciaio. Lo Stato non può credere di avere oggi manager capaci di interpretare il difficile mercato mondiale dell’acciaio, spostatosi tutto verso il Far East asiatico, meglio dei grandi gruppi privati che con l’acciaio si misurano ogni giorno.

Terzo: la mano pubblica a tempo deve servire a fare della bonifica delle cokerie e del parco minerario un banco di prova europeo, visto che in Germania e Polonia esistono impianti con caratteristiche analoghe (ma non espropriati…). Uscire dal ciclo continuo con altiforni, per produrre acciaio con syngas o preridotto, stride con l’interesse di un paese manifatturiero come il nostro, ed è incompatibile con gli 11mila dipendenti di Taranto e con le migliaia nell’indotto. Saremmo l’unico paese al mondo in cui le modalità produttive vengono decise da un pm in sede di indagine preliminare. Lo Stato deve riaccompagnare l’Ilva a produttività e utili che esprimeva. Tenendo la guardia alta, perché il rischio è che si riscateni chi pensa che lo Stato deve tornare a fare anche i panettoni.

Ragioni e incubi tedeschi

Ragioni e incubi tedeschi

Davide Giacalone – Libero

C’è un problema tedesco, in Europa. Ma ci sono anche paesi con i conti e le politiche in disordine, che pensano di potersela cavare dando la colpa alla Germania. Ci sono cittadini europei che temono di essere fregati, ritrovandosi a pagare debiti contratti da altri. E ci sono loro concittadini che temono di finire sottomessi a una (altrui) logica di potenza nazionale. E’ normale che queste paure suscitino reazione elettorali colorite, per quanto inutili. Non è normale che molti politici e governanti sfuggano al misurarsi con questi problemi, preferendo strizzare l’occhio agli elettori presi dal panico. Per questo trovo molto interessanti le tesi esposte da Jeans Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, la Bundesbank, in una intervista a Repubblica. Sono parole serie. Che vanno prese sul serio. Dico subito che le condivido nella quasi totalità, ma con un distinguo decisivo, su un punto fulcro del presente e del futuro europeo.

Riassumo, per punti, il pensiero di Weidmann, chiosando in parentesi. 1. Per recuperare competitività è del tutto inutile immaginare il ritorno a monete nazionali, puntando sulla loro svalutazione, perché i benefici da quella indotti sono passeggeri e instabili (giusto, senza contare i malefici e tenendo presente che la Banca centrale europea sta conducendo una politica di graduale deprezzamento dell’euro). 2. La strada saggia consiste nell’abbattere le barriere per l’accesso al lavoro (che significa meno garanzie) e nel favorire le privatizzazioni (quindi meno Stato nel mercato). 3. Il tasso d’inflazione deve salire, ma non c’è motivo di affrettarsi, secondo i calcoli Bundesbank crescerà, di poco, a fine 2016 (giusto che salga, ma la fretta c’è, perché in deflazione il peso dei debiti cresce, fino a soffocare). 4. E’ sbagliato paragonare l’Ue ad aree monetarie come gli Stati Uniti o il Giappone, perché quelle sono entità politiche unitarie, mentre noi siamo 18 stati con politiche indipendenti, debiti diversi e diversi rating (vero, ci torno subito). 5. Lo sviluppo demografico europeo, ovvero la contrazione delle nascite, suggerisce di non spostare nel futuro il peso del debito (giusto). 6. Quando i debiti sono alti non si deve reclamare spesa pubblica anticongiunturale basata sull’aumento del debito, perché questo aumenta il male anziché curarlo, semmai si deve modificare la struttura della spesa pubblica, indirizzandola allo sviluppo anziché al trasferimento (leggi spreco) di ricchezza (giusto).

E qui veniamo a due aspetti delicati. Due tasti politicamente decisivi. Il primo si ricollega al punto 4.: siccome l’Ue non è uno Stato unitario, o federale, delle due l’una: o ci muoviamo in quella direzione, cedendo ciascuno sovranità fiscale; oppure non c’è alternativa al rispetto dei vincoli previsti dai trattati. Ha ragione. Ed è questo il pericoloso errore commesso da alcuni governi europei, il nostro compreso: l’avere puntato sull’elasticità nell’interpretazione dei vincoli anziché nel porre subito il tema della cessione di sovranità. Con il risultato che non avendo ottenuto nulla sul primo aspetto si finisce con il perdere sovranità propria, perché troppo indebitati, senza accedere a una comune. I francesi hanno compiuto questa scelta (sbagliata) consapevolmente, perché soggiogati da quel che resta della perduta grandeur (ma fra quel che resta c’è l’arma atomica). Noi abbiamo perso l’occasione del semestre italiano, per nulla. C’è, però, una seconda faccia della medaglia: noi (con altri) eccediamo nel debito, ma posto che anche quello tedesco è oltre i parametri consentiti, e che è cresciuto più del nostro, il loro surplus commerciale è a sua volta una grave violazione. Se parametri devono essere che siano, ma per tutti. Quell’avanzo (enorme) è continua sottrazione e concentrazione di ricchezza. Intollerabile quanto la crescita del debito.

E se il debito crescente induce il timore che si voglia farlo pagare ad altri (senza dimenticare che abbiamo già pagato per aiutare le banche tedesche e francesi), il surplus permanente, unito al vantaggio di tassi d’interesse bassissimi, quando non negativi, induce la paura che qualcuno covi il ricorrente incubo della potenza nazionale, puntando anche all’indebolimento dei competitori, asfissiati dal credito e dal fisco. Una logica di dominio che ha già ripetutamente prodotto la sua sola possibile conseguenza: la rovina. Questo è il nodo decisivo. Entrambe i timori hanno fondamento. Entrambe devono essere fugati. Ma non uno prima dell’altro, perché ne deriverebbe uno squilibrio ingestibile. Per questo le parole di Weidmann sono importanti e largamente condivisibili. Per questo è insensato supporre di condurre un presunto scontro filo o anti-tedesco. Ma sempre per questo quel nodo va affrontato, nei suoi due aspetti. Chi provasse a fare il furbo sarebbe pazzo.

Acqua cara

Acqua cara

Davide Giacalone – Libero

Nessuno ha voglia di dire agli italiani che se a Torino devono pagare l’acqua che non hanno consumato, se si devono preparare a due anni di aumenti del 10% delle tariffe, ciò ha anche a che vedere con il referendum sull’acqua del 2011. Allora stravinse l’idea che dovesse restarne pubblica la gestione. Questo è il risultato. Allora si fece una grande campagna contro la vendita dell’acqua ai privati, cosa che, naturalmente, era fuori dal mondo. Nessuno ha mai supposto di privatizzarla, ma di privatizzarne la gestione. A sostenere la gestione privata rimanemmo in pochini, mentre l’onda del luogocomunismo spaventò gli stessi, Partito democratico in testa, che pure avevano positivamente operato in quel senso. Il centrodestra si squagliò, com’è suo costume quando si tratta di reclamare il voto su delle cose e delle idee, anziché su sigle e nomi. Così prese corpo l’insanabile contraddizione: da una parte sembra che tutti detestino le gestioni e le nomine politiche, dall’altra si volle che l’acqua restasse nelle mani della politica e dei nominati.

Le società variamente pubbliche che gestiscono l’acqua sono 1.600. Uno sproposito. Si dovrebbe chiuderle quasi tutte. Di queste 350 hanno ottenuto l’aumento delle tariffe: +3,9% nel 2014 e + 4,8 nel 2015. Così l’inflazione non la crea la crescita della ricchezza, ma la sua decrescita a favore delle tariffe amministrate. Le 350 che faranno crescere la bolletta, con un maggiore esborso medio di 130 euro annui a famiglia, sono le più grosse, quindi quelle che servono il maggior numero di clienti. La domanda è: le altre 1.250 società hanno rinunciato all’aumento? No, è che non hanno neanche presentato i dati minimi di bilancio. Non si sa quanto investono, quindi non si può disporre l’aumento delle tariffe. 1.250 società, variamente pubbliche, non hanno compiuto adempimenti elementari che, se si trattasse di privati, in ogni altro settore, provocherebbero l’arrivo della Finanza.

Torniamo alle 350: perché chiedono un aumento? Perché dicono di dovere fare investimenti nella rete. Dicono, cioè, esattamente quel che scrissi all’epoca del referendum: mentre l’impresa privata, che giustamente mira al profitto, fa investimenti per aumentare la redditività della rete, quella pubblica i soldi degli investimenti li chiederà ai cittadini. Mentre nel concedere a privati la gestione della rete di distribuzione si deve stabilire, in partenza, quali saranno gli investimenti che sono tenuti a fare e quale sarà il quadro tariffario in cui dovranno muoversi, quando si passa alle società pubbliche la musica cambia, perché sono amministrate dai compagnucci degli amministratori politici, quindi se hanno bisogno di soldi chiedono che siano presi dalle tasche dei clienti. Se, come è successo a Torino, i clienti si mettono a risparmiare, consumando meno acqua, scatta l’applicazione del minimo, sicché pagheranno anche quella che non scialacquarono.

All’Autorità per l’energia, il gas e l’acqua dicono: era necessario aumentare le tariffe, perché sono decenni che non s’investe nelle reti. Ma perché questo non lo si disse agli elettori, nel 2011? Era chiaro che così sarebbe andata a finire. Tanto chiaro che lo scrivemmo. Tutta questa gnagnera dei “beni comuni” e delle cose che devono restare in mano al pubblico, quindi alla politica e ai partiti, perché così si evita 1’avidità dei privati, serve solo a far da alibi all’insaziabile bisogno della macchina pubblica di ciucciar via quattrini dalle tasche dei cittadini. Che, in questo caso, sebbene raggirati, se la sono anche cercata. Non potendo tornare indietro (non prima del 2016) almeno si proceda al disboscamento delle società e alla stipula di convenzioni che obblighino agli investimenti, pena la perseguibilità degli amministratori. Sarebbe già qualche cosa.

L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Il Documento di Economia e Finanza (modificato in seguito a scambi di veduti con le autorità europee) è all’esame delle Camere. C’è stata, sulla stampa e nel dibattito pubblico, molta attenzione sugli aspetti macro-economici e una certa disattenzione su liberalizzazioni e privatizzazioni. In effetti da anni il programma che le prevede sembra bloccato. Il Governo Monti non riuscì a privatizzare neanche il Touring Club, pur avendoci provato: le Camere vennero sciolte e si andò al voto prima che l’iter parlamentare venisse espletato.
Un programma a breve termine (12-18 mesi) per l’Italia è stato delineato nel discorso dell’allora presidente del Consiglio Letta alle Camere, nel quale si precisava che nel 2014 la cessione di quote societarie avrebbe dovuto far entrare nelle Casse dello Stato una cifra complessiva tra i 10 e i 12 miliardi di euro. Le prime dismissioni avrebbero riguardato una partecipazione di controllo di Poste Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei Ministri) a cui avrebbero fatto seguito quelle di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) nonché di quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed Eni. A queste indicazioni, occorre aggiungere la privatizzazione per almeno 500 milioni l’anno di patrimonio immobiliare. Secondo un’analisi effettuata dall’Università Bocconi), l’ipotesi di ricavi dalla cessione di quote societarie dello Stato può potenzialmente raggiungere i 90 miliardi di euro (ovviamente su un arco pluriennale); ciò non tiene conto di circa 6000 Spa, Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un numero analogo di enti locali.
Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno tracciato un percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni più ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo. Dopo tre anni di virtuale stasi nel programma di privatizzazioni si stava creando il clima e ponendo le basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico – quanto meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia delle proprietà immobiliari. La caduta del Governo Letta ha provocato una frenata se non un vero e proprio arresto del programma.
Nel Def si prevede la cessione delle quote di minoranza in Poste Italiane, Enav e l’intera cessione della quota di SHT, holding di controllo della società operativa STMicroelectronics. Gli advisors sono al lavoro. È presto per effettuare stime. In una prima versione, si sarebbero dovute cedere anche quote di Enel e di Eni – come dichiarato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze – ma lo stesso presidente del Consiglio ha precisato in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ che, per il momento, non se parla: Enel ed Eni apportano utili considerevoli alla pubblica amministrazione e i mercati sono tali che si potrebbe pensare ad una ‘svendita’. A mio avviso, anche il modesto programma delineato prende l’avvia da un’ottica ristretta ove non errata: fare cassa per ridurre lo stock di debito pubblico. Un obiettivo lodevole ma occorrerebbe uno schema molto più vasto (almeno 3-400 miliardi) di quanto preconizzato. Inoltre, lo scopo primario dovrebbe essere quello di ridurre la sfera pubblica e i lacci che comporta per l’economia italiana.
È uscito in questi giorni un saggio di un giovane professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma III. Si chiama Cosimo Magazzino e si è dato un compito difficile: studiare – non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi – il nesso tra le dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro, “Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International Journal of Empirical Finance (pp.38-54) e ha suscitato notevole interesse presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’Ocse ed il Fondo monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto, studiano le nostre politiche ed i nostri conti. La conclusione è che in Italia non c’è una relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale, negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato l’aumento del prodotto nazionale.
Occorre tenerne conto ed aprire un dibattito, non passarlo sotto silenzio come si è fatto con l’Appello Politico agli Italiani dell’Osservatorio Internazionale Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato alcuni mesi fa dall’Editore Cantagallo. Pochi conoscono questo Osservatorio, intitolato all’expresidente del Pontificio Consiglio Justitia et Pax. Un’alta personalità ecclesiastica vietnamita che non lasciò i suoi fedeli alla caduta di Saigon e venne imprigionato in isolamento per diversi anni (nella sua cella un altoparlante suonava musica marziale 24 ore su 24). San Giovanni XXIII lo volle al suo fianco quando venne finalmente liberato perché contribuisse alla pace ed alla giustizia nelle aree più lontane del mondo. Il dicastero da lui diretto produsse, tra l’altro, il Catechismo sulla Dottrina Sociale della Chiesa. L’Osservatorio, composto da personalità di alto livello, ha redatto l’Appello perché vede nell’Italia un Paese smarrito, con un popolo alla ricerca di speranza. Le sue proposte sono articolate. Il volume (86 pagine) inizia con la visione di un popolo che ritorna a credere in sé stesso e delinea un nuovo patto costituzionale sostanziale. Contiene naturalmente proposte puntuali di politica istituzionale ed economica: da una legge elettorale per evitare un eccessivo premio di maggioranza a una riforma della giustizia che dia certezze a libertà di educazione, da un nuovo patto di solidarietà e di produzione a una politica di privatizzazioni che prenda l’avvio con quella della Rai.
Privatizzare la Rai vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Quello dell’età anagrafica: quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: il pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento superasse certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano, tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il “Partito Rai” vorrebbe tornare a tempi leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora si potrebbero adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali, come già avviene con successo nel settore del cinema.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato dei beni e dei servizi. Se un tempo la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata come monopolio tecnico da forze politiche non democratiche, il passaggio dall’analogico al digitale terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha ribadito lo stesso Romano Prodi in un convegno a Bologna nel corso del quale ha ricordato i tentativi fatti nel 1997, falliti a ragione dell’opposizione del “Partito Rai”. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale, esiste una radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance ben differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.
Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Francesco Forte – Il Giornale

Susanna Camusso, nell’adunata a Roma della Cgli cui partecipa l’anima dura del Pd ha minacciato lo sciopero generale sula legge di Stabilità, come se con questo sistema di potessero creare posti di lavoro e crescita del Pil. Al contrario, Davide Serra, finanziere renziano della prima ora, nella convention della Leopolda cui partecipa l’anima populista- versione british – del Pd, ha chiesto la limitazione del diritto di sciopero dei servizi pubblici. Citando Alitalia e trasporti pubblici, ha detto che una impresa estera che li ha visti perde la voglia di investire in Italia.

La proposta di Serra, alla Leopolda, è stata accolta con imbarazzo, ovattato dal garbo che è nello stile della convention, nel garage che evoca i creativi di internet della Silicon Valley. Nella tesi del Serra c’è del vero. L’attuale regolamentazione dello sciopero di pubblici servizi è cucita su misura della Cgil e dei lavoratori del pubblico impiego, garantiti dai soldi del contribuente. Infatti, si può annunciare lo sciopero nel pubblico servizio, creando la disdetta di viaggi, appuntamenti, udienze, con gravi danni al servizio e al suo pubblico e poi revocarlo all’ultimo minuto, beffando datori di lavoro e pubblico. Si possono concentrare questi scioperi prima dei giorni festivi settimanali e di Natale, Pasqua e altre festività, in modo da creare «ponti lunghi» a beneficio degli scioperanti e danni speciali per il pubblico. Ma ciò è secondario.

Il punto centrale è che quando i servizi pubblici sono privatizzati, con aziende quotate in borsa e senza pubbliche sovvenzioni, i contratti di lavoro aziendali prevalgono su quelli nazionali e sono orientati alla produttività e le imprese possono ricorrere a part-time, lavoro flessibile cosiddetto precario e a partite Iva e lo sciopero nei servizi pubblici lo si fa solo in casi estremi e delimitati. Ciò perché il lavoratore, allora, è al servizio del pubblico, anziché viceversa. Solo così il suo posto di lavoro regge e la sua retribuzione è basata sul risultato di mercato. Non si tratta tanto di limitare lo sciopero dei pubblici servizi quanto di privatizzare i servizi pubblici, dalle ferrovie, alle poste, alle migliaia di imprese di comuni e regioni e di recidere i legami fra politica e imprese e banche. Ma questa spending review e le privatizzazioni nella legge di Stabilità dei leopoldiani non ci sono.

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Federico Fubini – Affari & Finanza

Un’occhiata all’indietro dà l’idea della strada che ci siamo lasciati alle spalle. Se le privatizzazioni di cui si parla oggi fossero state fatte prima della crisi finanziaria, sarebbe andata come segue: dalla vendita del 5% dell’Eni lo Stato avrebbe ricavato circa cinque miliardi di allora, cioè in termini reali tenuto conto dell’inflazione – più di quando si spera di raccogliere oggi vendendo il 5% sia di Eni stessa che di Enel. E una cessione di una quota del genere della società elettrica avrebbe prodotto due miliardi in più. Se non altro, forse la crisi del debito avrebbe agguantato l’Italia più tardi e sarebbe durata meno. Com’è noto la storia non si fa con i «se», neanche quella finanziaria. Ma guardare da dove veniamo, stimare l’enorme perdita di valore delle imprese a controllo pubblico in questi anni (esempio: nel 2006 Finmeccanica valeva il doppio di oggi) può aiutare ad affrontare il bivio al quale siamo di fronte. Vero è che il messaggio contenuto nelle occasioni perdute del passato resta ambivalente. Può dare ragione a Pier Carlo Padoan, quando il ministro dell’Economia sostiene che bisogna andare avanti senza soste con le cessioni di società e beni pubblici per arginare il debito. Ma può rafforzare anche la posizione di Matteo Renzi, che vuole prima far crescere il valore delle imprese ai livelli di quale anno fa e solo dopo venderne le quote. L’impressione è che per ora il premier abbia stoppato il proprio ministro più autorevole, proprio quando questi pensava di avere già il suo via libera.

Questa settimana i due continueranno a parlarne. Padoan dirà a Renzi che i ricavi da privatizzazioni di Eni e Enel, gli unici possibili in tempi brevi, servono quest’anno per non far saltare le metriche di contenimento del debito. Insisterà perché il piano non slitti. Probabilmente prospetterà al premier un compromesso: fra le banche d’affari di Londra c’è già la fila per proporre al governo varie tecniche di ingegneria finanziaria in modo da portare al Tesoro gli incassi da cessioni subito (come vuole Padoan) ma vendere le quote dopo (come dice Renzi). Si può lavorare con dei bond convertibili in azioni dei due grandi gruppi. Si può effettuare una vendita a termine. Di certo, sono tutti sistemi con i quali i banchieri della City incaricati dell’operazione finirebbero per guadagnare due volte a spese del contribuente: ricche commissioni al primo passaggio, quello dell’anticipo di cassa, e poi al secondo con la vendita vera e propria delle quote. Si può dunque essere scusati se si viene assaliti da un sospetto: quando le situazioni diventano così ingarbugliate, è perché nel Paese resta un’ambiguità di fondo. Non si è mai fatta chiarezza sull’uso migliore del patrimonio pubblico o sulla presenza dello Stato nei soli grandi gruppi rimasti. Non si riesce a decidere se la vogliamo o no, e perché. Si va avanti a fari spenti, un po’ a tentoni: il modo migliore per restare incagliati.  

Privatizzazioni col trucco

Privatizzazioni col trucco

Davide Giacalone – Libero

Parte malissimo, se riparte da Eni ed Enel, il programma governativo delle privatizzazioni. Parte malissimo perché parte con un falso: quelle non sono privatizzazioni, ma vendite. In quelle due società la mano pubblica ancora ha il controllo, con quote che si aggirano sul 30%, il resto è già in portafogli privati che agiscono in Borsa. Quindi nessuna privatizzazione, nessuna apertura di mercato, nessuna sollecitazione alla competizione. Solo e soltanto una vendita. Ed è questa la ragione per cui ancora spero che non abbiano la faccia tosta di spacciare questa operazione per quello che non è, debuttando nel peggiore dei modi.

Vendere un ulteriore 5% di Eni ed Enel dovrebbe portare nelle casse dello Stato una cifra nell’intorno di 5 miliardi. La metà di quanto previsto, per l’anno in corso, da operazioni di questo tipo o da vere e proprie privatizzazioni. Ed è anche il valore dell’operazione a destare i peggiori sospetti: come verranno impiegati i proventi della vendita? E’ un punto fondamentale, perché va benissimo alienare patrimonio per ridurre e possibilmente abbattere il debito, mentre non va affatto bene usarli per compensare il deficit, che, detto in modo diverso, significa usarli per non dovere fare altri debiti. Sono due cose opposte: la prima può non essere esaltante, ma è virtuosa, perché si prende quel che è di tutti e lo si usa per alleggerire tutti dal debito pubblico; la seconda e viziosa, perché si vende quel che è di tutti al fine di finanziare la spesa che porta benefici solo ad alcuni.

Né ci saranno benefici di mercato, visto che si modificano le leggi sul controllo delle società quotate in modo da assicurarne il dominio a chi non ha più i soldi per poterlo acquistare o detenere. Attribuendo il voto plurimo a chi detiene da più tempo le azioni lo Stato legislatore assegna un valore superiore allo Stato azionista, sicché questo modo di procedere è l’opposto di quel che caratterizzerebbe delle vere privatizzazioni. Senza contare che nel caso di Eni ed Enel ci sono paletti statutari che escludono la perdita di controllo. Immorale della favola: attenzione, perché così ci si ritrova meno ricchi, sempre pazzescamente indebitati e con lo Stato che continua ad amministrare il feudo.

Queste non sono privatizzazioni, né basterebbe lo fossero per considerarle automaticamente buone. Si guardi a RaiWay, la società pubblica degli impianti Rai: vogliono quotarla, quindi privatizzarla, al solo scopo di avere i soldi per coprire i buchi che la Rai continua a fare, il tutto mantenendo ampiamente il controllo statale della società. Soldi presi al mercato per poi buttarli nella fornace clientelare, lasciando che nel mercato agiscano strutture da socialismo non reale, ma letale.

O si guardi al collettivismo municipale, che come tutti i collettivismi genera privilegi per una ristretta minoranza di buropolitici: anziché accorpare e vendere si pensa di quotare sempre di più, allargando lo zoo di animali misti, nei quali la parte municipale domina e quella di mercato soccombe a logiche che la avvelenano.

Privatizzazione, invece, sarebbe la vendita di Poste Italiane, perché totalmente in mano pubblica. Come lo sarebbe quella della Rai. La prima è in programma, alla seconda non pensano proprio, per continuare a sognare verdi pascoli. Solo che quando metti mano alla privatizzazione di Poste scopri che non puoi quotare società il cui bilancio ancora si compone di aiuti pubblici e sovvenzioni di servizi altrimenti in perdita. Perché privatizzare non significa consentire a privati di fare i soci di minoranza (o senza poteri) dello Stato, ma far scemare la presenza dello Stato nel mercato, rendendolo più libero e più aperto alla concorrenza, nonché coerente con le regole della competizione fra eguali. Significa cambiare le società, non solo la composizione della proprietà. Scopri, allora, l’evidente: non puoi portare nel mercato un dinosauro dello statalismo. Allora si deve cambiarlo, il che, però, fatalmente allontana la privatizzazione.

Poco male, in condizioni normali: ci vorrà più tempo, ma ne verrà fuori un risultato migliore. Non siamo, però, in condizioni normali. Abbiamo confermato che chiuderemo il bilancio senza venir meno agli impegni presi, ma i tagli alla spesa non ci sono. Semmai ci sono i suoi aumenti. Ecco, allora, che per far quadrare i conti si vende. Travestendo, per giunta, la vendita da privatizzazione. Spero che al ministero dell’Economia prevalga la serietà e il rispetto di sé, non prestandosi a raggiri che umiliano. Senza neanche risolvere i problemi.

La cessione di Eni-Enel e i paletti antiscalata

La cessione di Eni-Enel e i paletti antiscalata

Andrea Ducci – Corriere della Sera

Vendere, incassare circa 5 miliardi di euro e mantenere la presa pubblica sul controllo delle società di Smto. La cessione di un consistente pacchetto di azioni di Eni (il 4,34%) ed Enel (il 5%) da parte del ministero dell’Economia, al di là dell’immagine di un Paese che fa cassa vendendo un pezzo dei gioielli della corona, non espone le due aziende a rischi di scalate. La privatizzazione a cui sta lavorando il ministero di via XX Settembre prefigura, del resto, la discesa da parte dell’azionista pubblico al di sotto della fatidica soglia del 30% del capitale, ossia la quota azionaria che preclude la possibilità di rastrellamenti ostili e forestieri per conquistarne il controllo. A meno che non sia lanciata una cosiddetta offerta pubblica di acquisto (Opa). Regola che tuttavia non vale per Eni ed Enel, poiché gli statuti delle due società contengono una clausola di garanzia a tutela dell’azionista pubblico. 

Una misura, insomma, che ne blinda il controllo. A prevederla è una legge del 1994, predisposta alla vigilia delle grandi privatizzazioni di Stato. Il dispositivo è semplice e stabilisce che i titolari di quote azionarie esercitano il loro diritto di voto fino al 3% del capitale posseduto. In pratica ogni azione eccedente la soglia del 3% viene «sterilizzata» e non consente di esercitare votazioni in assemblea. Il limite può essere aggirato modificando lo statuto con una delibera assembleare che rappresenti almeno il 75% del capitale Un obiettivo che però resta un miraggio se il ministero dell’Economia mantiene una quota superiore al 25%. 

Un’operazione di privatizzazione in corso prevede che i pacchetti Eni ed Enel in mano allo Stato siano venduti entro l’autunno. E una volta avvenuta la cessione ai fondi istituzionali, vale ricordare che al ministero resterà una quota del 26,24% di Enel e del 25,76% di Eni (detenuto attraverso Cassa Depositi e Prestiti). In queste ore, agli osservatori più critici e alle speculazioni politiche che lamentano l’ennesimo arretramento in asset strategici per il sistema Paese, è stato fatto osservare che per Eni esiste un’ulteriore clausola di salvaguardia degli interessi nazionali. Si tratta dei golden power inseriti al secondo comma dell’articolo 6 dello statuto. In sintesi, grazie a una legge del 2003 al ministero dell’Economia e al ministero dello Sviluppo economico sono riservati alcuni «poteri speciali», a presidio e tutela di Eni. In tutto sono quattro i golden power e permettono allo Stato di opporsi sia all’assunzione di pacchetti rilevanti sia alla formazione di patti o accordi che raccolgano oltre il 3% del capitale. Il terzo potere riservato all’azionista pubblico è il veto a delibere di scioglimento, trasferimento della sede all’estero, fusione e scissione. L’ultimo grimaldello antiscalata è rappresentato dalla nomina di un amministratore senza diritto di voto all’interno del board. 

Gli statuti di Eni ed Enel non hanno finora adottato l’ulteriore facoltà del voto plurimo. Il meccanismo cioè che prevede di maggiorare il diritto di voto, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione detenuta. L’introduzione del voto plurimo, sovvertendo il principio anglosassone del one share one vote, consente a un azionista di valere in sede di votazione più del capitale effettivamente detenuto. In soldoni con il voto plurimo lo Stato potrebbe controllare poco più del 25% dei voti possedendo una quota di capitale del 12,5%. Tradotto significa che potrebbe riservarsi di vendere un’altra bella fetta di Eni, Enel, Finmeccanica, ma pure delle quotande Poste, Enav e Sace senza mollare la presa.

Privatizzazioni, via al piano Enel-Eni

Privatizzazioni, via al piano Enel-Eni

Celestina Dominelli – Il Sole 24 Ore

Il governo accende ufficialmente i motori per la cessione di ulteriori quote di Enel ed Eni con l’obiettivo di far ripartire il piano di privatizzazioni e centrare così i 10 miliardi di euro di proventi per quest’anno messi nero su bianco nel Documento di economia e finanza. Ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha presieduto una riunione, a cui ha preso parte anche il capo della segreteria tecnica del Mef, Fabrizio Pagani, in modo da accelerare il percorso su cui sono puntati i fari di Bruxelles. Il piatto forte, come detto, è il ridimensionamento della presenza dello Stato nei due “gioielli” di famiglia, Enel ed Eni, di cui saranno ceduti, rispettivamente, il 5% e il 4.34% ancora in mano al Tesoro (il restante 25,76% fa capo a Cdp).

Secondo la tabella di marcia messa a punto ieri dal vertice all’Economia, le quote dovrebbero arrivare sul mercato tra la fine di ottobre e gli inizi di dicembre. Ovviamente non appaiate anche perché entrambe le operazioni andranno adeguatamente supportate per assicurare il massimo ritorno possibile. Ai piani alti di Via XX Settembre si respira un cauto ottimismo: Piazza Affari e tornata a virare in positivo negli ultimi giorni e questo lascia ben presagire per il futuro anche se un occhio resta puntato sugli sviluppi internazionali che potrebbero far girare i mercati. Dalle due cessioni il governo conta di ricavare non meno di 5 miliardi di euro. Agli attuali corsi di Borsa un 5% dell’Enel – che ha ripreso a salire sul Ftse Mib grazie all’accelerazione al piano di dismissioni voluta dal nuovo numero uno, Francesco Starace – vale 2-2,5 miliardi di euro, mentre la vendita del 4,34% della quota detenuta in Eni potrebbe portare nelle casse dello Stato circa 3 miliardi. Un gruzzoletto che, unito ai 3 miliardi di euro assicurati dal rimborso anticipato dei Monti bond sottoscritti dal Tesoro a favore del Monte dei Paschi di Siena, consentirebbero al governo di avvicinarsi fortemente al traguardo individuato nel Def.

Nella riunione di ieri, poi, si è anche deciso di affiancare a queste cessioni, entro la fine dell’anno, il trasferimento della quota detenuta in STMicroelectronics (13,8°/0) che sarebbe girata al Fondo strategico italiano, il braccio operativo della Cdp, per un incasso valutato sui 7oo-8oo milioni di euro. Mentre sarebbero ormai destinate a slittare al 2015 le Ipo diPoste, Sace ed Enave non sarebbe per ora alle viste nemmeno una ulteriore discesa dello Stato nel capitale di Finmeccanica (il Tesoro è al 30,2%), dove il neo amministratore delegato Mauro Moretti sta portando avanti un piano di ristrutturazione che servirà a rimettere definitivamente in sesto il gruppo di Piazza Monte Grappa.

Tornando invece al tassello clou, l’Economia non ha ancora proceduto formalmente ad affidare i mandati alle banche d’affari, ma la scelta dovrebbe cadere sugli istituti che lavorano da tempo al fianco del ministero. Quanto alla modalità con cui verranno cedute, secondo quanto emerso dal confronto di ieri, l’opzione numero uno e quella di un accelerated bookbuilding, una delle strade scelte anche dall’Eni ai tempi dello scorporo di Snam e dalla stessa Cassa nella vendita dei titoli eccedenti il 30% del Cane a sei zampe, messa in campo proprio per recuperare le risorse necessarie a rilevare il 30% della spa dei gasdotti dall’Eni. Un collocamento che sara destinato agli investitori istituzionali: non solo gli italiani, ma anche gli americani – che Padoan ha avuto modo di incontrare nella sua ultima missione a Washington – e i soliti fondi sovrani che non hanno mai nascosto l’interesse a salire nel capitale di alcune “big” italiane. Senza dimenticare i cinesi che hanno acceso da tempo i riflettori sull’equity della penisola: dalla People’s Bank of China, già presente in Eni ed Enel, a State Grid Corporation of China, che ha appena rilevato il 35% di Cdp Reti e vuole fare altro shopping in Europa.

Il governo intende però anche lanciare un segnale forte, già nello sblocca Italia che arriverà domani al Cdm, sul fronte delle partecipate degli enti locali mappate dal commissario della spending review, Carlo Cottarelli. Con molta probabilità, infatti, nel decreto dovrebbe entrare una norma che consente ai Comuni di usare i proventi da dismissioni fuori dal Patto di stabilità. Una mossa che porrebbe sbloccare, già entro l’anno, alcune partite da tempo ferme al palo come l’annunciata privatizzazione, a Torino, della Gtt, la società di trasporto pubblico. «Quello delle partecipate degli enti locali – spiega al Sole24Ore Andrea Mazziotti, capogruppo di Scelta Civica alla Camera – è un tema molto difficile, ma Renzi deve scardinarlo scontentando la parte del Pd che sostiene questo fronte». E proprio Sc si è fatta portatrice di una proposta di legge che punta a ottenere significativi risparmi di spesa dalla razionalizzazione delle ex municipalizzate e che è già stata inviata al premier e al ministro Padoan. L’obiettivo? Fare in modo che alcune delle misure suggerite, a cominciare dall’obbligo di dismettere le partecipazioni in società non quotate inferiori al 10% trovino spazio già nello sblocca Italia.