privatizzazioni

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Federico Fubini – La Repubblica

Non c’è più tempo e il ministero dell’Economia si sta preparando a muovere in autunno. Fra la seconda metà di settembre e fine novembre, nel momento più adatto in base alle condizioni di mercato, le privatizzazioni entreranno nel vivo. Questa almeno è la tabella di marcia sulla quale stanno lavorando i tecnici del Tesoro. Si punta a partire con ciò che resta dei gioielli della corona, Eni e Enel, senza reti di sicurezza intrecciate grazie all’arte dell’ingegneria finanziaria pur di mantenere il controllo legale delle due società.

Nel Paese dell’Iri, dell’Efim e delle oltre diecimila partecipate di questi anni, per la prima volta un governo italiano è pronto a scendere sotto le soglie dello “Stato padrone” delle società più strategiche. Di entrambe oggi il governo detiene in modo diretto o indiretto appena più del 30%, la quota che permette in linea di diritto di controllare l’assemblea degli azionisti. Entro i prossimi tre mesi, però, dovrebbe andare in vendita il 5% sia di Eni che di Enel, per ricavi da circa 5 miliardi da reclutare a contenimento del debito pubblico.

Non sarà un passo a cuor leggero per le strutture di Via XX Settembre, eredi di una tradizione quasi secolare di controllo pubblico delle imprese. Se ci si sta arrivando, è perché la mano di carte in mano al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non dà molta scelta. È passato più di un anno da quando il suo predecessore, Fabrizio Saccomanni, iniziò a mettere in cantiere un nuovo programma di privatizzazioni per contrastare il continuo aumento del debito. E sono passati sei mesi da quando Padoan stesso ha stilato una tabella di marcia anche più ambiziosa, che prevede vendite di attività per dieci miliardi l’anno da adesso fino al 2017. Di questi progetti sono stati riempiti molti documenti del governo, inclusi quelli mandati a Bruxelles. Ma dai primi annunci di oltre un anno fa, il Tesoro è riuscito a incassare appena 350 milioni da Cassa depositi e prestiti per la cessione parziale di Fincantieri: il piano originario sulla società di costruzioni navali aveva previsto entrate per 600 milioni.

Per adesso è mancata soprattutto la qualità degli attivi da mettere sul mercato. Il piatto forte quest’anno avrebbe dovuto essere Poste Italiane, di cui il Tesoro intendeva iniziare a cedere il 40%. Ma Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, questa primavera ha scoperto di aver rilevato dal predecessore Massimo Sarmi un’azienda tutt’altro che in condizioni di essere quotata in Borsa. Le attività postali tradizionali viaggiano in una perdita fin qui in qualche modo resa meno visibile dai buoni risultati del Banco Posta. Nei settori più promettenti, soprattutto la spedizione di pacchi, le Poste in Italia hanno una quota di mercato molto inferiore alle omologhe ex monopoliste degli altri Paesi europei. E con i tassi d’interesse ai minimi, anche il Banco Posta fatica a garantire la redditività degli anni passati. Quotare in Borsa l’azienda adesso avrebbe comportato il rischio di un flop.

Caio ha chiesto tempo al governo per ristrutturare l’azienda e ora al Tesoro si conta sul fatto che nel 2015 si possa procedere alla cessione del primo 40% delle azioni. Gli introiti sperati dovrebbero arrivare a quattro o cinque miliardi. In seguito, se tutto andrà per il meglio, lo Stato dovrebbe gradualmente continuare a scendere nel capitale del gruppo di Caio e portare nuovi fondi a contenimento del debito pubblico.

Simile il processo previsto per Enav. L’Ente di navigazione aerea non è in condizioni di attrarre investitori privati oggi, ma si conta che lo sia tra un anno per ricavi da circa un miliardo. Per Sace invece i calendari del ministero dell’Economia sembrano prevedere tempi ancora più lunghi.

Di qui la decisione di accelerare su Eni e Enel, per schierare ricavi a contrasto dell’aumento del debito già da quest’anno. Della società elettrica, che capitalizza circa 31 miliardi di euro, il ministero dell’Economia ha il 31,2% e scenderebbe al 26%. Del gruppo dell’energia, che vale circa 66 miliardi, ha il 3,9% e la Cassa depositi e prestiti (del Tesoro all’80%) controlla un altro 26,3%. La sfida da ora in poi per lo Stato sarà continuare a esercitare il controllo di fatto anche senza il vincolo legale nell’assemblea degli azionisti: un passo in Italia impensabile per gran parte degli ultimi 80 anni, da circa metà dell’era fascista.

Municipalizzate, il bene pubblico lo fa il privato

Municipalizzate, il bene pubblico lo fa il privato

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il disastro delle Municipalizzate si conosceva. I numeri venuti fuori dallo studio del commissario alla spending review Cottarelli sono però peggiori del peggior incubo. Il sogno delle nostre Regioni, delle nostre Province, dei nostri Comuni di farsi le loro piccole Iri presenta un conto che non possiamo più permetterci. Questa è allora la volta buona per sciogliere l’equivoco su chi deve garantire i servizi essenziali: l’alibi perfetto con cui il pubblico si è messo a fare l’imprenditore pur non avendone le competenze. Il motivo è chiaro: controllando le aziende dei trasporti, dei rifiuti, degli acquedotti e dell’energia la politica ha costruito clientele con cui ha campato per decenni. Gestione clientelare ed efficienza sono però inconciliabili. E il risultato è questa immensa dispersione di risorse. Adesso le solite anime belle obietteranno che certi servizi devono restare pubblici. Abbiamo visto come è andata con il referendum sull’acqua. Se però continuiamo a seguire queste sirene qui tra un po’ non resterà più nulla né di queste aziende pubbliche, né degli enti locali che le controllano e neppure di uno Stato sommerso dai debiti. La migliore garanzia per assicurarci questi servizi, facendoli diventare persino più efficienti, è dunque l’affidamento ai privati. In un mercato regolato da norme e che imponga a chi espleterà i servizi di garantire uno standard adeguato sia dove è più facile guadagnare sia dove lo è di meno. Il successo del privato può essere il successo del pubblico. Chi insiste con una certa demagogia fa il gioco di chi ci sta strozzando di debiti. Anche suoi.

La sindrome del 51 per cento

La sindrome del 51 per cento

Alessandro De Nicola – La Repubblica

È di lunedì la notizia che nel pacchetto di provvedimenti contenuto nel Decreto Sblocca Italia, all’ordine del giorno del consiglio dei ministri del 29 agosto, troverà posto una norma che consentirà la quotazione di RayWay. La società è proprietaria degli impianti di trasmissione del segnale televisivo, ha un fatturato di 220 milioni di euro, ma in ogni caso il socio pubblico non potrà scendere sotto il 51% del capitale sociale mantenendo quindi il controllo della stessa.

Nello stesso giorno è apparsa una lunga intervista al sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti, il quale, cantata la messa della richiesta di flessibilità alla Commissione europea, e intonata la litania dell’articolo 18 che non si tocca, ha ammesso che per abbattere il debito pubblico italiano forse gli avanzi primari non bastano più e bisogna quindi cominciare a vendere massicciamente. Rispolverando un’idea che circola da anni ha quindi proposto la creazione di un fondo dove immettere il patrimonio pubblico, mobiliare ed immobiliare, e poi cedere il 49 per cento delle quote del fondo stesso. Questa operazione forse abbatterebbe un po’ di debito pubblico ma sarebbe la tomba della privatizzazione di qualsiasi azienda statale. Se ad esempio venisse infatti conferito al fondo il 30% delle azioni con il quale il Tesoro – direttamente o indirettamente – controlla Enel, Eni o Finmeccanica, si sarebbe creata una mega scatola cinese che, dopo l’ingresso dei privati, consentirebbe allo Stato di controllare il 51% di un fondo proprietario di un 30% di azioni e quindi l’investimento con il quale si comanderebbe nelle tre società sopra citate sarebbe pari al 15,3 % del loro capitale sociale. Un capolavoro di pubblicizzazione di risparmio privato.

Peraltro questa sindrome del 51%, ma sarebbe meglio definirla del comando a tutti i costi, è ormai incardinata nei piani di tutti gli ultimi governi.

Non son passati due mesi dalla molto deludente quotazione in borsa di Fincantieri, le cui azioni sono state vendute al minimo della cosiddetta forchetta di prezzo, vale a dire 78 centesimi, e che nel frattempo hanno perso un altro 15% di valore. Anche in questo caso (e nonostante i contrari desideri dell’amministratore delegato), il flottante è un misero 27,5% del capitale, quasi tutto in mano al cosiddetto “parco buoi”, i piccoli risparmiatori, in quanto gli investitori istituzionali hanno sottoscritto un misero 10% di quanto è stato venduto. Ora, i motivi dell’insuccesso sono molteplici, ma molto probabilmente se fosse stata messa all’asta la maggioranza di controllo, difficilmente non si sarebbe trovato un compratore a prezzi anche migliori.

Il prossimo candidato alla privatizzazione sono Le Poste, anche qui solo per il 40%, e le altre vendite previste, dall’Enav a Cdp Reti, non prevedono cessioni di maggioranze. Anzi, in attesa del super-fondo di Rughetti, attraverso l’approvazione di una perniciosa e maldestra riforma del diritto societario che introduce la possibilità di azioni a voto multiplo e abbassa la soglia per l’obbligo di lanciare un’Opa sulla totalità delle azioni al 25%, il Tesoro potrà vendere pacchettini di azioni delle sue quotate rimanendo saldamente al timone.

Intendiamoci, è naturale che la classe politica, traendo essa alimento dal potere, cerchi di conservare il controllo di più aziende possibili. È la logica sia delle burocrazie che dei politici: rendersi influenti se non indispensabili utilizzando soldi non propri, ma del contribuente.

Quello che sorprende è che l’opinione pubblica, tartassata e spesso priva di servizi pubblici decenti, consenta tutto questo, non riuscendo a collegare i meccanismi del cervello che da una parte si indignano per i miliardi buttati in Alitalia e dall’altra si bevono la favola degli asset “strategici”.

Orbene, è vero che ci sono delle esigenze di sicurezza nazionale che non possono essere ignorate: nessuno vorrebbe che gli impianti di RayWay, da dove passano le comunicazioni della polizia, fossero controllati dalla famiglia Assad, per dire. Ma per questo esiste la regolamentazione che consente, ad esempio, alle industrie della difesa americane (che producono cosucce sensibili), di essere tutte quotate e controllate da privati.

Poi ci sono le solite lamentazioni sulla “svendita” dei gioielli di famiglia. Attenzione, quella della svendita è la più grossa bufala in circolazione. Secondo gli studi effettuati lo Stato ci ha guadagnato praticamente sempre dalle privatizzazioni (lo sconto concesso in sede di quotazione in media è stato minore di quello dato dalle imprese private), come dimostra anche l’ultimo caso di Fincantieri, il cui prezzo di mercato è ora inferiore a quello di vendita. Persino Telecom fu venduta a valori molto più alti di quelli attuali. Fu poi malgestita? È innegabile, ma il Tesoro ci ha guadagnato.

Le privatizzazioni, attirano capitali stranieri, competenze e creano sinergia all’interno di gruppi multinazionali. Certamente, esse sortiscono i loro effetti migliori quando il mercato viene contemporaneamente liberalizzato. Ma qui basti osservare che i mercati meno liberalizzati sono appunto quelli in cui c’è un monopolista o un’impresa dominante pubblica e per il resto si tratta già di aziende che agiscono in contesti concorrenziali (da Eni a Fincantieri).

Il governo, almeno a parole, sembra ancora credere all’analisi fatta dal commissario alla spesa Cottarelli relativa alle migliaia di società municipalizzate da accorpare e vendere al più presto. Ebbene, si vuole fare la voce grossa col comune di Roccasecca e contemporaneamente sognare Fondi-Monstre che consegnino un potere enorme ad un piccolo gruppo di mandarini di Stato?

Liberare le energie e le professionalità presenti all’interno del perimetro pubblico servirà non solo ad alleviare il peso del debito pubblico, ma a svecchiare e modernizzare il paese nel senso che, a parole, i giovani che ci governano reputano necessario. Come primo passo si liberino perciò della sindrome dei loro padri.

Taglio da 200 miliardi al debito pubblico in tre mosse

Taglio da 200 miliardi al debito pubblico in tre mosse

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Nel maggio 2005, in tempi non sospetti e un debito/Pil al 105,8%, Il Sole 24 Ore ruppe il ghiaccio con un’intervista al Prof. Guarino che ipotizzava una “sforbiciata” del debito pubblico da 400 miliardi: l’idea destò scalpore. Oggi trasferire immobili, crediti o partecipazioni in holding fuori dal perimetro della pa è un’operazione che affascina, allo studio su molti tavoli. Lo scorso marzo Il Sole 24 Ore ha rilanciato una proposta in tre mosse da 200 miliardi per ridurre il debito: il mattone-bond da 60 miliardi, un ritocco contabile su Efsf-bond da 45 miliardi, privatizzazioni e calo strutturale con avanzo primario per 100 miliardi.

Poter ridurre il debito pubblico dall’oggi al domani per riportarlo in un solo colpo dal 135% almeno sotto il 100% (all’epoca Guarino intendeva passare dal 105% al 70%) è un sogno nel cassetto di tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni, compreso quello attuale. L’obiettivo appare alla portata perché il patrimonio dello Stato, tra asset immobiliari, crediti e partecipazioni, è estremamente ricco e variegato, senza contare ovviamente in questo calcolo il patrimonio dei beni culturali.

Sono proprio le dimensioni elefantiache dello stock del debito e la complessità degli asset da dismettere o da valorizzare a non consentire scatti da gazzella. Ecco perché il Sole-24 Ore ha proposto un pacchetto di interventi articolato in tre mosse, categoricamente all’interno del quadro di una gestione dei conti pubblici virtuosa (ma estremamente lenta) che fa leva sull’avanzo primario e l’azzeramento del deficit.

Il primo passo è la privatizzazione concentrata soprattutto nel mondo delle municipalizzate. Un processo che attiverebbe anche risparmi da 800 milioni l’anno. Il secondo intervento è sugli immobili. Il Tesoro ha creato Invimit, una Sgr immobiliare dello Stato: si tratta di uno strumento di mercato dal quale non ci si possono aspettare scatti felini perché la matassa da sbrogliare è quella degli enti locali. Per velocizzare la riduzione del debito, il mattone-bond (proposto dal Sole-24 Ore già nel maggio del 2013) sarebbe realizzabile in tempi ragionevoli, purché circoscritto a un portafoglio di immobili dello Stato smobilizzabili con modalità relativamente semplici, come quelli a solo uso governativo.

Si tratta di trasferire a una società-veicolo questi asset per 60 miliardi: la spv colloca al risparmiatore privato (e forse anche agli investitori istituzionali) quote o azioni (con un trattamento fiscale agevolato o un premio per chi acquista al collocamento e detiene fino a scadenza come nel caso del BTp Italia) e utilizza l’incasso per acquistare gli immobili riducendo il debito pubblico per questa entità.

La remunerazione delle quote o delle azioni verrebbe garantita dal pagamento dell’affitto che lo Stato andrebbe a pagare sugli immobili. Il taglio del debito pubblico non verrebbe abbinato a una contestuale riduzione degli interessi che si pagano ora sul debito: questo deriva dalla formula del “sale-and-lease back” e di tutte le operazioni che mirano a sostituire un BTp con un qualsiasi bond o quota di un fondo o altro strumento d’investimento emesso da una società posta fuori dal perimetro della pubblica amministrazione e non contabilizzata nel debito pubblico: a qualsiasi prodotto finanziario innovativo deve corrispondere un rendimento appetibile, immediato e sicuro per invogliare lo scambio con i BTp. I rendimenti dei titoli di Stato in questo momento sono estremamente bassi e l’investitore privato è a caccia di investimenti sicuri con una remunerazione più elevata rispetto ai BoT e BTp: è un buon momento per proporre alternative, ma lasciare il certo (la cedola di un titolo di Stato) per l’incerto (il dividendo o il coupon di una spv) è un passo da gigante per il risparmiatore.

La terza operazione taglia-debito proposta dal Sole è di natura puramente contabile e vale almeno una quarantina di miliardi: si tratta di trasferire all’Esm le passività dell’Efsf in quanto i bond di quest’ultimo (per una regola Eurostat) gravano sui debiti pubblici nazionali a differenza di quelli del meccanismo di stabilità. La quota degli Efsf bond e dei prestiti bilaterali alla Grecia ammonta ora a 45,6 miliardi per l’Italia. Per consentire questo trasferimento, l’Esm non deve avere bisogno di un aumento di capitale (questo graverebbe sui conti pubblici degli Stati azionisti): in alternativa si possono trasferire asset a garanzia. Nel contesto di questo maquillage, l’Europa potrebbe decidere di utilizzare l’Esm – veicolo per ora mirato al salvataggio degli Stati in crisi e in prospettiva alle ricapitalizzazioni delle banche – anche per finanziare con una sorta di “eurobond” le infrastrutture e gli investimenti per la crescita: e questo avrebbe un impatto indiretto sui conti pubblici nazionali, alleviandoli in parte dal costo delle spese produttive.

Il Sole-24 Ore ha rilanciato altre proposte taglia-debito a firma di Paolo Savona e gli EuroUnionBond ideati da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio. Un’operazione di peso per il debito pubblico porta la firma di Renato Brunetta, alla quale hanno collaborato Paolo Romani, Luigi Casero e Guido Crosetto e i professori Francesco Forte, Rainer Masera e Paolo Savona che arriva a tagliare fino a 400 miliardi in cinque anni (partendo da 100 miliardi dalla vendita di beni pubblici (15-20 miliardi l’anno); 40-50 miliardi dalla costituzione e cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute in Svizzera. Il tutto con l’emissione di speciali obbligazioni con durata 5/10 anni e una opzione (warrant). Non da ultimo, Mediobanca ha proposto anche il trasferimento di asset alla Cassa depositi e prestiti (50 miliardi) e l’uso delle riserve auree della Banca d’Italia.

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Caro presidente, ho visto dai giornali che lei ha comprato il mio libro “Lo Stato Innovatore”, questo mi ha suggerito l’idea di scriverle una lettera. L’Italia a crescita bassa è tornata in prima pagina. Una delle tesi del libro è che per tirarsi fuori da questo marasma è indispensabile rendersi conto di dove sta il problema. Il problema non sta in un settore pubblico “burocratico” che in qualche modo ostacola la crescita di un settore privato altrimenti dinamico e innovativo. Il problema è che, in assenza di un settore pubblico dinamico e innovativo, la crescita nel settore privato è impossibile da ottenere.

Partiamo dal contesto: i problemi dell’Italia non derivano da un eccesso di dimensioni e di spesa riferito al settore pubblico, ma dal fatto che questo non è sufficientemente attivo e in realtà non spende quanto i suoi principali concorrenti in tutti gli ambiti fondamentali che determinano la crescita della produttività (e quindi la crescita a lungo termine del Pil), ossia capitale umano, istruzione, ricerca e tecnologia. Il deficit italiano prima della crisi si attestava sotto la media Ue. Ma se la produttività (e quindi il tasso di crescita del Pil) è quasi ferma da 20 anni per l’assenza di investimenti di questo genere, anche con un deficit relativamente basso il quoziente debito/ Pil può continuare ad avere una crescita esponenziale (perché il denominatore è statico).

Che fare? È proprio questo l’oggetto del libro. Cosa intendo per Stato Innovatore? Intendo uno Stato che sia disposto a pensare in grande e capace di farlo, che sappia attirare i migliori cervelli nelle sue varie branche, gettare per primo le basi in nuovi fondamentali comparti ad alto rischio, che solo successivamente attireranno il settore privato. Che sia capace anche di costruire un sano rapporto simbiotico, non parassitario, tra i settori pubblico e privato, così che la crescita conseguente non sia solo “intelligente”, ma anche più inclusiva.

Nel libro ricorro all’esempio dell’iPhone per sfatare i luoghi comuni sulla Silicon Valley. Tutte le tecnologie che rendono così “intelligente” quel telefono sono state finanziate negli Usa dal settore pubblico: Internet, Gps, touch screen e persino la nuova Siri a comando vocale. Lo stesso vale per le biotecnologie, le nanotecnologie e la frattura idraulica (per l’estrazione dello shale gas), tutti settori industriali frutto di decenni di investimenti pubblici che hanno preceduto gli investimenti privati. Steve Jobs era ovviamente un genio, ma al pari di altri imprenditori statunitensi, ha “surfato” le gigantesche onde create dallo Stato. In molti paesi europei oggi non sono i surfisti a mancare, ma l’onda. E l’onda serve non solo nei comparti ad alta tecnologia, ma anche in settori affamati di rinnovamento e trasformazione, come il tessile, l’industria automobilistica e l’agricoltura. Vale anche per l’arte, che diventerà un vero patrimonio nazionale solo quando sarà posta al centro di una strategia di crescita che utilizza i poteri della rivoluzione informatica per diffonderla e divulgarla a livello internazionale.

Il settore pubblico, ovviamente, non può fare da solo. Serve un settore privato altrettanto impegnato. Oltre ad avere uno dei tassi più bassi di spesa pubblica in R&S; (riferito al Pil) l’Italia registra anche uno dei livelli più bassi di spesa privata nel settore. La responsabilità non è imputabile alla “normativa”, ma all’assenza di una sana tensione tra Stato e imprese. Un valido esempio? La Fiat attualmente non investe in motori ibridi in Italia, ma lo fa negli Stati Uniti perché Obama lo ha posto come condizione per il salvataggio dell’industria automobilistica. Ecco un altro mito che va a farsi benedire: gli Stati Uniti, la patria del libero mercato, che impongono le politiche industriali al settore privato. E non è certo un caso unico. Il mitico Bell Labs, uno dei laboratori di ricerca privata più innovativi, al centro della rivoluzione informatica, nacque da un teso negoziato tra lo stato e At&t;, all’epoca un monopolio, in cui lo stato esigeva che gli utili privati fossero reinvestiti nell’economia “reale”, in aree che creassero beni pubblici.

Anche se il libro non si incentra sulle società a capitale pubblico, bensì sul rapporto tra i settori pubblico e privato, esamina con occhio critico il genere di strategie che portarono alla nascita dell’Eni e dell’Iri, che ebbero effettivamente un ruolo chiave negli anni d’oro dell’Italia, quando agivano in accordo con la loro missione e attiravano manager di massimo livello. Da pubbliche, ma indipendenti e guidate da esperti, furono un successo. Una volta divenute semplice appendice dei partiti politici smisero di funzionare – diventando il problema, non la soluzione. In realtà, ironicamente, fustigando lo Stato e spacciando la privatizzazione come panacea sarà estremamente difficile attrarre le competenze che queste istituzioni pubbliche richiedono, oggi come allora. A capo del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti poco tempo fa c’era un fisico premio Nobel, Steven Chu. Ha fondato Arpa-e a cui ha dato l’incarico di promuovere e finanziare la ricerca e lo sviluppo delle energie rinnovabili, come fece a suo tempo la Darpa per Internet. Anche la Germania oggi cresce non perché “tira la cinghia” ma perché ha una banca pubblica strategica, la KfW, che offre capitale paziente alle imprese e ai settori più innovativi- e di istituzioni finanziate dallo Stato come la Fraunhofer, che creano le connessioni tra scienza e industria mancanti in Italia.

Spero che queste riflessioni la incoraggino a cambiare il modo di parlare di politica economica in Italia, abbandonando i soliti discorsi che si trascinano pigri, come se il problema stesse solo nel togliere la burocrazia, nelle riforme del mercato del lavoro, e del fisco. Per arrivare invece a un dibattito nuovo che sproni i settori pubblico e privato ad un maggiore impegno mirato agli investimenti e alla crescita guidata dall’innovazione. Il bonus di 80 euro al mese è indubbiamente utile a molte famiglie in condizioni difficili, ma per una crescita a lungo termine dei redditi, che abbia effetti decisivi sulla domanda dei beni di consumo e sul tenore di vita, è necessaria una strategia di innovazione industriale che porti più posti di lavoro, e soprattutto ne migliori la qualità.

Contarelli

Contarelli

Davide Giacalone – Libero

I soldi non ancora risparmiati sono stati già impegnati e spesi. Lo sapevamo e lo scrivevamo prima che lo ricordasse il commissario alla revisione della spesa, Carlo Cottarelli. I soldi per onorare le promesse già fatte non ci sono. In autunno servirà una correzione dei conti per un minimo di 15 o 20 miliardi, ma che nessuno osi chiamarla manovra o stangata. Chiamiamola rottamazione delle assicurazioni date, così si continua il viaggio verso l’avvenire. Tutto questo è il meno, anche perché scontato, mi preoccupano ancora di più i soldi che non sono ancora stati incassati, derivanti dall’equivoco capitolo delle “privatizzazioni”. Come si pensa di utilizzarli? Perché se andranno a equilibrare le partite correnti, a finanziare la spesa, anziché ad abbattere il debito, avremo assicurato la rovina d’Italia. Quella che dovrebbe essere un’arma vincente rischiamo di puntarcela alla tempia, inebetiti dal suo fugace effetto stupefacente.

Nel novembre dell’anno scorso scrivevamo che se il lavoro di Cottarelli fosse andato a buon fine (e ce lo auguravamo), avrebbe inevitabilmente comportato scelte politiche. Al tecnico si chiede la conoscenza, al politico spetta la decisione. Quello di cui finge d’accorgersi Matteo Renzi, quindi, ci era chiaro e lo chiarivamo fin dall’inizio. Scegliere significa discernere fra interessi contrapposti e rompere con le costose e improduttive retoriche in voga. Fin qui, invece, i tagli alla spesa pubblica si sono applicati seguendo due scuole: a. i tagli lineari (il copyright è di Gordon Brown), ciechi e deprecati, ma funzionanti; b. i risparmi dovuti a maggiore efficienza. Nessuno dei due approcci sfiora il problema italiano: troppa spesa, per troppe cose, cui si aggiungono mostruosi interessi sul debito. Noi non dobbiamo (solo) risparmiare, dobbiamo sopprimere funzioni pubbliche disfunzionali. Invece si pensa di rendere pubbliche e rette da spesa pubblica anche le banche del seme. Che la sinistra insegua lo statalismo, cullante e sepolcrale, è frutto di una cultura. Sbagliata. Che faccia lo stesso la destra è frutto di vuoto culturale.

Per questo mi fanno paura quelle privatizzazioni che, per altro verso, auspico. Già è capitato: noi chiediamo vendite e ci ritroviamo con svendite; noi chiediamo più mercato e ci ritroviamo con più mercanti. Se si vendono altre azioni Eni, o una quota della società delle reti, se si punta alla quotazione di Poste o di RaiWay, e così via, dove finiscono i proventi e che si fa del resto? Perché quella roba è patrimonio pubblico, pagato dai contribuenti, ed è bene che sia ben valorizzata e, se venduta, che il ricavo vada massicciamente ad abbattere il debito pubblico, che grava sui contribuenti. Semmai una parte agli investimenti. Neanche un centesimo alla spesa corrente. Ma se, giusto per retare a un esempio, la Rai pensa di usare l’incasso per finanziare un baraccone che andrebbe sbaraccato e venduto nel suo insieme, allora occhio, perché si prepara una gigantesca opera di depredazione e dilapidazione. Al termine della quale saremo più poveri e più indebitati, salvo avere goduto una breve parentesi d’equilibrio nei conti pubblici.

Per evitare che tutti i conti finiscano in contarelli, per evitare che ci si accorga dell’ovvio con mesi e anni di ritardo, direi che non si vende nulla se prima non sono disponibili: 1. il piano generale delle dismissioni; 2. il metodo che si intende seguire (pezzo a pezzo, società di partecipazioni, mandato unico a vendere, etc.); 3. l’impegno non derogabile su come usare i soldi incassati. Si aggiunga che vendere non deve servire solo a far cassa, ma anche mercato. Attirando capitali per investire nella creazione di ricchezza. Da questo punto di vista il decreto “competitività”, che modifica il diritto societario e trasforma la capacità di voto delle azioni, per le società quotate, introducendo il “voto plurimo”, serve a blindare gli assetti esistenti, quindi va in direzione opposta. Con quel meccanismo dall’estero investiranno solo in rendite, portandoci via ricchezza, ma non lo faranno in produzione. E’ un tema tecnico e noioso, ma se chi mette soldi non conta per quanti soldi ci mette semplicemente li mette altrove.

Comprare il consenso elettorale con la spesa pubblica è costume deprecabile e non nuovo. Comprare l’omertà sulle reali condizioni dei conti pubblici e sulle conseguenze del loro mancato risanamento, usando soldi derivanti da patrimonio per occultarle, è costume altrettanto immondo. E disperato. Una grossa parte degli italiani amano essere ingannati, sperando che nulla cambi. Ma a pagare il conto è solo l’altra parte, quella che ancora ci consente d’essere la seconda potenza industriale d’Europa. Sono italiani in minoranza e in crescente difficoltà. Fregarli ancora significa suicidare la nostra sovranità economica. Dopo di che quella politica sarà solo la pacchiana rappresentazione di un Parlamento combattente e irrilevante.

Privatizzare le nostre imprese non vuol dire svenderle ai cinesi

Privatizzare le nostre imprese non vuol dire svenderle ai cinesi

Daniele Capezzone – Il Tempo

Intendiamoci subito, a scanso di equivoci. Chi scrive è un liberale strafavorevole alle privatizzazioni. Un paio di anni fa ho contribuito anch’io (con Renato Brunetta e altri colleghi) a un gruppo di lavoro che, nel mio partito, ha rilanciato l’idea di un grande fondo a cui conferire beni di vario tipo, in una prospettiva di valorizzazione e vendita. E in Italia bisognerebbe davvero procedere a un arretramento della mano pubblica, ad esempio cominciando da due realtà che invece appaiono intoccabili: da un lato la valanga di immobili di proprietà pubblica e dall’altro le municipalizzate, vero strumento di occupazione militare del territorio e di segmenti di economia.

Altro conto sarebbe invece una sconclusionata svendita dell’argenteria di famiglia, per fare cassa in modo disperato e accettando una progressiva spoliazione e colonizzazione del Paese. Ne scrivo da mesi, e ora purtroppo i fatti si stanno incaricando di confermare le mie peggiori previsioni. Così come all’inizio degli anni Novanta si realizzò (ferma restando la buona fede di tutti, che va sempre presupposta) un’operazione che privò l’Italia di asset importanti nella chimica, nella meccanica, nell’agroalimentare e in alcune banche, allo stesso modo oggi si rischia qualcosa del genere. Una sorta di “Britannia 2”.

La cosa è cominciata in settimana con l’accordo tra Cdp reti (quindi sono in gioco le reti energetiche italiane, incluse Snam e Terna) e il gigante cinese China State Grid, che ne ha rilevato il 35%. Ammetto che almeno è stata mantenuta la quota di controllo. Ma non posso non pormi alcune domande. Perché non è stata fatta un’asta internazionale? Perché è stato scelto proprio quel partner, anche geopoliticamente così discutibile? E soprattutto, perché non se ne è adeguatamnte discusso?

Quali saranno i prossimi passi? Svendite anche di quote di Eni, Enel e Finmeccanica? Ripeto: da liberale non ho nulla contro l’alienazione di quote e ovviamente non ho tabù, ma non comprendo perché si debba dare l’idea di veri e propri saldi di fine stagione (organizzati in fretta e furia, visto che il governo è in grado di tagliare la spesa pubblica). Prepariamoci dunque, nei prossimi mesi, a distinguere due cose ben diverse tra loro: un conto sarebbero positive operazioni di valorizzazione e vendita, altro conto sarebbero invece spoliazioni a danno del Paese. E che tutto ciò avvenga nel quasi totale silenzio della politica (impegnata ogni giormo a discutere di “quisquilie e pinzillacchere”) dà la misura della gravità della situazione italiana.

Ps: Ci vuole coraggio a parlare di “privatizzazione” per la vendita a un soggetto totalmente controllato dallo Stato cinese. O no?    

Cessioni, servono vere aperture

Cessioni, servono vere aperture

Nicola SalduttiCorriere economia

Il governo ha indicato nel Piano nazionale di riforma un obiettivo chiaro: nel 2014 gli incassi da privatizzazioni dovrebbero arrivare a 9-10 miliardi. Somma che serve ad alimentare il fondo di ammortamento per l’acquisto di titoli del debito pubblico. Un legame diretto: meno beni di Stato e meno debiti. Una formula virtuosa che sembra essersi inceppata. Un obiettivo che, alla luce dei possibili rinvii, appare meno probabile di qualche mese fa. Sul fronte delle cessioni immobiliari il Demanio continua a insistere, ma la situazione del mercato non appare favorevole. Sembra invece abbastanza probabile un ulteriore passo indietro nelle due società-simbolo dello Stato azionista, Eni ed Enel. Il Tesoro e la Cassa Depositi potrebbero cedere un altro pacchetto. Ma in questo caso molto dipenderà dalla capacità dei nuovi manager, appena nominati, di rendere i potenziali azionisti interessati alla nuova tranche. Perché una cosa è certa: a vent’anni dal grande avvio delle privatizzazioni, una stagione che ha consentito alla Borsa italiana di compiere il grande salto, quasi raddoppiando la sua capitalizzazione, che ha visto 7-8 milioni di italiani diventare azionisti, adesso le cessioni di Stato sono diventate una materia più complicata. Non è un caso che le banche d’affari stiano proponendo la possibilità di studiare la formula dei prestiti convertibili (utilizzati finora soltanto per l’uscita dello Stato dall’Ina, l’Istituto nazionale delle Assicurazioni, poi confluita nelle Assicurazioni Generali). La vera scommessa a questo punto potrebbe partire dai Comuni, una volta concluso il lavoro di Corrarelli sulla spending review. Con due passaggi indispensabili, ormai: le possibili fusioni tra le municipalizzate e la discesa (a largo raggio) degli enti locali sotto la fatidica soglia del 15% e con un ruolo di governance molto più defilato. Come dire, le privatizzazioni. Quelle vere.

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Luca Cifoni – Il Messaggero

Tagliare, razionalizzare, fondere. Ed alla fine anche privatizzare, portando le aziende fuori dal controllo pubblico. È questa la direttrice di marcia del governo per il dossier società partecipate: categoria omnicomprensiva che comprende anche le utilities, quelle che si occupano cioè dei servizi pubblici locali come acqua, elettricità, rifiuti. Il cantiere è aperto ed è anche piuttosto ampio, visto che sono vari i provvedimenti annunciati sul tema: le prime indicazioni concrete dovrebbero arrivare entro questo mese con le proposte elaborate da Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, sul capitolo specifico delle partecipazioni di Regioni e Comuni. Lo sbocco sarebbe poi la legge di stabilità.

L’argomento è stato inserito anche nella versione finale del disegno di legge di riforma della pubblica amministrazione, approvato dal Consiglio dei ministri di venerdì 11 e tuttora atteso in Parlamento. Per la precisione si tratta di due articoli, nell’ambito del processo di semplificazione normativa, dedicati rispettivamente alle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e ai servizi pubblici locali. Sono in entrambi i casi deleghe, per cui al momento vengono fissate le linee guida di provvedimenti che poi dovranno essere specificati nel dettaglio dallo stesso governo.

I criteri indicati per quel che riguarda le società partecipate sono in linea con quelli a cui – seppur in forma discorsiva – ha già accennato lo stesso Cottarelli nei suoi interventi pubblici: distinzione delle società in base all’attività svolta; possibile reinternalizzazione di quelle che si occupano di servizi strumentali o di funzioni amministrative; definizione di strumenti che evitino effetti distorsivi sulla concorrenza nel caso di attività di interesse economico generale; introduzione di obiettivi di efficienze e di economicità; utlizzo per acquisti e personale delle stesse modalità operative (e quindi dei vincoli) delle amministrazioni pubbliche; eliminazione di sovrapposte.

I particolare per i servizi pubblici locali si punta a definire «ambiti territoriali ottimali», a rafforzare la trasparenza delle procedure di affidamento e a disciplinare i regimi di proprietà e di gestione delle reti. Dunque per una parte consistente delle attuali società (sono circa 10mila solo quelle degli enti territoriali) il destino è la chiusura o il ritorno all’interno della pubblica amministrazione propriamente detta. Proprio Cottarelli ha recentemente ricordato che secondo i dati Cerved ne esistono 2.671 in cui il numero degli amministratori supera quello dei dipendenti: veri e propri poltronifici insomma. Altre aziende saranno accorpate con un programma di fusioni su base territoriale. Ma per le aziende che rimarranno ed in particolare per quelle che erogano servizi pubblici il governo pensa anche ad una soluzione più estrema: la cessione del controllo ai privati. Questa possibilità è menzionata in un recentissimo documento in inglese del ministero dell’Economia: le utilities vengono inserite nel programma di privatizzazioni accanto a Poste, Eni, Enel e Ferrovie ed alle altre società pubbliche; per loro si parla di «apertura del controllo ai privati». Privati che attualmente sono presenti ma come soci di minoranza rispetto agli enti locali.

L’Antitrust dà l’assist a Renzi per liberalizzare e rottamare le fondazioni

L’Antitrust dà l’assist a Renzi per liberalizzare e rottamare le fondazioni

Alberto Brambilla – Il Foglio

Con la pubblicazione delle Segnalazioni ai fini della legge annuale sulla concorrenza, attese da quattro mesi, ieri l’Antitrust ha fornito un assist al governo. Il premier Matteo Renzi si era impegnato col Documento di economia e finanza a recepire le raccomandazioni per cominciare a liberalizzare i settori dell’economia più ingessati. Le segnalazioni ne toccano molti. Sulla Sanità, ad esempio, si chiede in sostanza di estendere a tutta Italia il modello lombardo nel quale pubblico e privato sono in concorrenza. Sulle Poste viene invocata la separazione societaria dei servizi bancari da quelli postali, che significa fare saltare l’attuale processo di privatizzazione, messo in discussione dal cda, e ripensare le modalità di vendita sul mercato. Sulle municipalizzate: togliere l’affidamento in house dei servizi locali e privilegiare la gara pubblica. Sul trasporto pubblico locale: limitare le attività dei monopolisti e consentire ai privati di offrire servizi aggiuntivi al servizio pubblico e in concorrenza tra loro. Sul trasporto cittadino, l’invito è di ridurre le «distorsioni concorrenziali» aprendo ad altri modelli di business diversi dai taxi (un approccio “uberista”).

«È un vasto programma che lascia il compito alla politica di determinare la priorità», dice al Foglio Salvatore Rebecchini, componente del collegio dell’Autorità. Il presidente dell’Autorità garante e del mercato (Agcm) Giovanni Pitruzzella il 30 giugno ha bersagliato l’intreccio tra potentati economici e politici, quel capitalismo di relazione che difende le «rendite di posizione» a detrimento di «concorrenza e innovazione». Ambizione che richiama all’orecchio lo Sherman Antitrust Act del 1890, prima legge antitrust americana tesa a colpire monopoli e cartelli che trovò applicazione solo a decenni dall’introduzione a causa di scontate resistenze. È lecito attendersi resistenze enormi nel caso delle raccomandazioni sule banche. Da un lato s’invoca l’abolizione del voto capitario nelle banche popolari, con cui i soci dipendenti possono condizionare le decisioni; tema oggetto di scontro tra Banca d’Italia (che ha cercato, senza successo, di fare una modifica) e la Banca popolare di Milano (che resiste). Dall’altro recidere il legame tra banche commerciali e fondazioni, per decenni simbolo del rapporto incestuoso tra finanza e politica. Per la prima volta l’Agcm ufficialmente consiglia al governo di archiviare l’era delle fondazioni padrone e limitare l’influenza sugli istituti di credito di cui sono azioniste: «Rafforzare la separazione fra fondazione e banca conferitaria», «vietare il passaggio dai vertici della fondazione agli organi delle banca e viceversa» ed «estendere il divieto per le fondazioni di detenere il controllo di una banca anche nei casi in cui il controllo è esercitato di fatto, anche congiuntamente con altri azionisti», si legge.

Ultimamente le fondazioni, vigilate dal Tesoro, sono state pungolate anche dalla Banca d’Italia e dal Fondo monetario internazionale in quanto le banche da esse influenzate rappresentano l’anello debole del settore. Per capire quanto la presenza degli enti incida sulle scelte strategiche basti dire che le fondazioni detengono congiuntamente il 9 e il 25 per cento del valore azionario di Unicredit e Intesa San Paolo, e arrivano a esprimere oltre l’80 per cento del consiglio in entrambi gli istituti esercitando pieno controllo, secondo Lavoce.info. Il legislatore ha più volte cercato di ridurne il potere (legge Amato-Carli del 1990 e legge Ciampi del 1996) con alterne fortune. Tuttavia il loro ministero regge, pur indebolito dalla crisi.

Renzi di rado ha sfiorato l’argomento: si è tenuto lontano dalle vicende del Monte dei Paschi pure quando la terza banca del paese è stata vittima di un abnorme assedio mediatico-giudiziario. A fare una richiesta così dirompente come quella dell’Agcm per ora ci hanno pensato i Radicali che, pur non essendo presenti in Parlamento, con la campagna “#sbanchiamoli” stanno cercando di reclutare deputati e senatori disponibili a firmare una petizione, contenente una proposta di legge, per separare le banche dalle fondazioni. Tuttavia gli onorevoli sono tuttora riluttanti a prendere posizione dato il conflitto di interesse dei partiti a livello locale.