pubblica amministrazione

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi

Il Tempo

Lo Stato paga i debiti vecchi ma non quelli nuovi. Con il risultato che lo stock di fatture non saldate ai fornitori è rimasto pressocché invariato. A spiegare che il vizietto dei pagamenti lunghi è rimasto una consuetudine nella pubblica amministrazione è il Centro Studi “ImpresaLavoro”. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.

«Nel caso concreto – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa». Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta. Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi. E le imprese che non ricevono il loro saldo in tempo sono costrette ad andare in banca e a pagare 6 miliardi in più complessivamente di interessi.

Debiti PA: lo stock complessivo del debito resta invariato

Debiti PA: lo stock complessivo del debito resta invariato

NOTA

Sbaglia chi pensa che in questi giorni la pubblica amministrazione stia finalmente riducendo in tutto o in gran parte i suoi cospicui debiti nei confronti delle imprese creditrici. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Ogni giorno infatti, le imprese che lavorano con la PA consegnano i beni ed erogano i servizi richiesti; ogni giorno, le imprese incassano i crediti per le forniture chiuse in passato.
Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.
Nel caso concreto, stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa.
Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto.
Già su questa cifra occorre dire che ImpresaLavoro, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40, fonte: http://www.mef.gov.it/primo-piano/article_0118.html), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta.
Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi circa e che l’intervento del governo, pur meritorio, è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse ulteriormente.

tabella

Rassegna Stampa:
Il Tempo
La Notizia
La pubblica amministrazione è già fallita, l’Agenzia Digitale lo certifica

La pubblica amministrazione è già fallita, l’Agenzia Digitale lo certifica

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Come può essere definita una pubblica amministrazione che non è in grado di gestire l’attuazione delle sue riforme organizzative più recenti adottate per favorire la modernizzazione dei propri processi operativi? Probabilmente come una organizzazione già fallita nella sua capacità di restare agganciata alla modernità, come un soggetto sopravvissuto al suo passato quindi una sorta di armadillo o di ippopotamo della peggiore burocrazia, bloccata dai cavilli prodotti dalla sua incapacità di gestire i bisogni dell’oggi.

Il business case, tanto caro a coloro che si formano nei corsi di Mba anglofoni, offerto dall’Agid, l’Agenzia per l’Italia digitale, è, da questo punto di vista, esemplare. Un caso vivente, quindi studiabile nella sua attualità comportamentale, di cosa significhi per una grande economia del pianeta avere una pubblica amministrazione inadeguata. Inventata, addirittura per dl nel giugno del 2012 dal governo emergenziale di Mario Monti, da quando è nata non ha prodotto praticamente nulla, come certificato dalla stessa Corte dei conti. Anche se, in tempi di sempre annunciata spending review, l’Agid costa ai contribuenti: la spesa pubblica corrente per mantenere un organico di 130 persone è di circa 10 mln di euro.

Ma c’è qualcosa di specifico che rende assolutamente paradossale la situazione. Neppure il governo in carica riesce a mandare a regime il Comitato di indirizzo, perché lo statuto dell’Agid non è intellegibile. Figlio di un processo di produzione di leggi e regolamenti sfuggito a ogni controllo di razionalità e di competenza, adesso gli uffici tecnici di Palazzo Chigi non sanno cosa fare con questa frase: «Dai membri del Tavolo permanente per l’innovazione e l’Agenda digitale italiana». Non è chiaro che cosa si intenda e sono possibili tre interpretazioni: a) ci devono essere in tutto due rappresentanti designati dalla Conferenza unificata e dai membri del Tavolo; b) devono essere due rappresentanti più due; c) ci devono essere tutti i membri del Tavolo (una decina). Discussioni di cavilli, si dirà e quindi non così importanti. Ma non essere in grado di mandare a regime una struttura che dovrebbe occuparsi della modernizzazione della Pa certifica, quasi senza ulteriori commenti, la irriformabilità della stessa macchina pubblica. L’immagine della rottamazione che si interrompe perché cioè che andrebbe rottamato lo è già.

La morale è che le riforme della burocrazia italica, anche quando partono con le migliori intenzioni, producono solo dei mostri. Dei pericolosi carrozzoni che affondano la già scarsa competitività e fanno fuggire il miglior capitale umano e gli investitori. Carrozzoni digitali.

Miraggio assunzione per 3mila statali

Miraggio assunzione per 3mila statali

Luca Cifoni – Il Messaggero

Tremila vincitori di concorso che hanno qualche possibilità di essere assunti, anche se i tempi sono tutti da definire. E 84 mila idonei che appaiono in buona parte destinati ad uscire dalle graduatorie. Il governo ha fatto il punto sulla situazione dei concorsi pubblici del passato pubblicando sul sito del Dipartimento della Funzione pubblica i primi risultati di una rilevazione condotta tra le varie amministrazioni, comunque incompleta e destinata ad essere aggiornata con altri dati.

La procedura attivata nasce da un provvedimento di oltre un anno fa, il decreto sulla pubblica amministrazione voluto dal precedente governo. In quel testo era stata prorogata fino al 31 dicembre 2016 la validità delle vigenti graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato. Veniva poi prevista la ricognizione delle graduatorie stesse, in particolare per individuare al loro interno coloro che avessero lavorato come dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato, maturando quindi anzianità. Con l’obiettivo di ridurre il ricorso ai contratti a termine la legge ipotizzava una possibile assunzione a tempo indeterminato di queste persone, sulla base delle disponibilità finanziarie che avrebbero dovuto essere precisate da un decreto (di concerto tra ministero della Pubblica amministrazione ed Economia) da adottare entro il 30 marzo 2014. Ad oggi questo decreto non risulta emanato e dunque tutta l’operazione appare ancora in alto mare.

Cambio di strategia
Se non che nel frattempo il nuovo governo, mosso evidentemente da priorità diverse da quelle che avevano spinto l’allora ministro D’Alia a scegliere questa strada, ha approvato un altro decreto legge di riforma della pubblica amministrazione e poi un disegno di legge che si trova attualmente all’esame del Senato. In quest’ultimo tra i principi per la revisione dei concorsi pubblici vengono indicati: «definizione di limiti assoluti e percentuali, in relazione al numero dei posti banditi, per gli idonei non vincitori; riduzione dei termini di validità delle graduatorie». Insomma in particolare sugli idonei la linea non sembra la stessa che aveva originato la necessità della ricognizione. Nel dettaglio, la gran parte delle posizioni nelle graduatorie si riferiscono al mondo della sanità e delle autonomie locali: quasi 2.200 su 3 mila per quel che riguarda i vincitori, oltre 67 mila su 84 mila tra gli idonei. Tra le amministrazioni centrali, spicca il ministero della Difesa che ha 252 vincitori da assumere e 346 idonei per l’eventuale assunzione. Un numero analogo di idonei (ma non di vincitori da assumere) si trova ai dicasteri dell’Istruzione e dello Sviluppo economico.

Il comparto sanitario
Nel comparto sanitario ci sono, tra gli altri, 170 vincitori da assumere nei servizi di emergenza (118) e 118 nella sola Asl di Bergamo. Quanto agli idonei per l’eventuale assunzione, il singolo ente che ne conta di più è 1’ente per i servizi tecnico amministrativi di area vasta del Centro, con 2.846, mentre gli ospedali riuniti di Ancona ne hanno 1.356 e l’azienda sanita- ria provinciale di Palermo 1.136. Tra gli enti locali attira decisamente l’attenzione il caso di Roma Capitale. Su 1.410 posti banditi, risultano assunti solo 307 vincitori; di conseguenza sono 1.013 quelli che ancora aspettano di vedersi assegnare un posto. E sono stati censiti 2.921 idonei per un’assunzione che si presenta però alquanto remota. Decisamente più contenuti i numeri del Comune di Milano, che ha non ha vincitori ancora da assumere ma 928 idonei potenzialmente candidati.

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Franco Bechis – Libero

Quei poverelli delle piccole e medie imprese italiane ce l’hanno ancora lì che campeggia sul loro portale web: facciona di Matteo Renzi e titolo «Debiti PA, Renzi shock: 60 miliardi in 15 giorni». La data era quella del 26 febbraio scorso. Le povere imprese che da lunghi mesi attendevano dallo Stato i pagamenti loro dovuti, ci avevano creduto. E si capisce: il nuovo presidente del Consiglio nel suo discorso per ottenere la fiducia alle Camere aveva detto: «Il primo impegno è lo sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione». Poi era apparso a Ballarò, intervistato all’epoca da Giovanni Floris, e lì aveva annunciato il famoso intervento shock: «La Spagna l’ha fatto da 50 miliardi di euro. Io penso di più: 60». In quanto tempo? «Il tempo di preparare un emendamento: Diciamo due settimane».

Non è andata così, e lo sanno bene i creditori dello Stato. Quella promessa resterà la più famosa, anche perché è la prima e più clamorosa tradita da Renzi premier. In corsa ha tentato di correggere la rotta, e da Bruno Vespa aveva allungato i termini di quelle due settimane, spostate al «21 settembre giorno di San Matteo. Se mantengo la promes-sa, lei Vespa che è scettico andrà a piedi in pellegrinaggio da Firenze a Monte Senario. Se non la mantengo, so dove mi mandano gli italiani». La promessa non è stata mantenuta, ma il 21 settembre Renzi ha sostenuto il contrario, poggiandosi sulla lentezza dei conteggi della pubblica amministrazione, che erano fermi a metà luglio. Ora sono usciti i dati aggiomati al 22 settembre scorso, e il bluff del premier è stato tragicamente svelato a chiunque voglia andarselo a leggere sul sito Internet del ministero dell’Economia e delle Finanze. Con una possibilità in più: i dati sono relativi ai primi otto mesi esatti del govemo Renzi. E sono perfettamente comparabili con quelli degli ultimi otto mesi del governo guidato da Enrico Letta, perché è proprio in quel periodo che sono iniziati i primi pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese. E il raffronto che Libero oggi è in grado di offrire ai suoi lettori è impietoso per il governo attuale. Perché Letta è stato due volte e mezzo più veloce e più efficace di
Renzi.

Ecco i numeri. Ad oggi nel bilancio dello Stato – grazie all’emissione di nuovi titoli di Stato dedicati – sono stati stanziati per pagare i crediti delle imprese con la pubblica amministrazione 56,839 miliardi di euro. Una cifra comunque inferiore ai 60 miliardi promessi da Renzi, ma non di molto. Solo che l’83,63% di questa somma, pari a 47,539 miliardi di euro, era già stata stanziata da Enrico Letta prima del ribaltone a palazzo Chigi. Quei soldi erano già tutti quando Renzi ha fatto le sue promesse in Parlamento e a Ballarò. Quindi non potevano fare parte dei 60 miliardi promessi, che avrebbero dovuto essere nuovi pagamenti. In otto mesi Renzi ha stanziato invece solo 9,3 miliardi di euro, pari al 16,37% dello stanziamento totale. Avere stanziato soldi non basta, però. Oltre a metterli in bilancio aumentando il debito pubblico italiano, bisogna anche metterli a disposizione di ministeri ed enti locali che sono poi quelli che materialmente debbono saldare i debiti che hanno con le imprese italiane per le commesse ricevute in passato. Di quei 56,839 miliardi stanziati solo 38,4 miliardi sono stati messi a disposizione degli enti pubblici che dovevano pagare entro il 22 settembre scorso.

Ma anche questa cifra racconta solo in parte. Perché i debiti effettivamente saldati sono ancora meno: a quella data, dopo 16 mesi (8 di Letta e 8 di Renzi) i pagamenti effettivamente avvenuti ammontavano a 31,3 miliardi di euro. Di questi Letta ne ha effettuati durante il suo governo 22,430 miliardi, e cioè il 71,67% (quasi i tre quarti) dei pagamenti totali avvenuti. In otto mesi i soldi arrivati alle imprese grazie a Renzi sono appena 8,87 miliardi di euro, pari al 28,33% dei pagamenti totali. In media il governo Letta ha pagato debiti alle imprese per 2,8 miliardi al mese. Il governo Renzi per 1,1 miliardi al mese, quindi a velocità due volte e mezza inferiore al predecessore. Dei due è Matteo il premier lumaca, Letta al suo confronto sembrava Usain Bolt, il primatista mondiale dei 100 e 200 metri…

Debiti PA, i sindaci pagano a singhiozzo

Debiti PA, i sindaci pagano a singhiozzo

Valeria Uva – Il Sole 24 Ore

C’è un «tesoretto» da un miliardo e 700 milioni di euro destinato a saldare le imprese in arretrato, ma fermo nei cassetti. In parte perché alcuni enti locali si sono decisi a chiedere anticipazioni di liquidità per pagare i debiti solo negli ultimi mesi, in parte (ma la cifra non è quantificabile) perché si tratta di fondi che i Comuni hanno in realtà già pagato, ma che scontano problemi nella rendicontazione. Il risultato è che a oggi, secondo i dati diffusi dal ministero dell’Economia il 23 settembre, almeno il 21% delle risorse erogate ai Comuni non risulta ancora pagato ai privati (in linea, con la media nazionale del 19%). Dei 57 miliardi stanziati per l’operazione “sblocca debiti” ai Comuni sono già andati 8,2 miliardi, attraverso il canale dell’allentamento del patto di stabilità e quello delle anticipazioni di liquidità erogate in quattro tranche (si veda la cartina a fianco). Ne risultano, però, pagati solo 6,5 miliardi, con un buco di 1,7 miliardi. Una liquidità preziosa per i fornitori in attesa da anni. E che invece arriva con il contagocce.

I flussi di cassa
Sul fronte dell’allentamento del patto di stabilità 2013 mancano all’appello 524 milioni; il resto è rappresentato dalle anticipazioni di liquidità, veri e propri prestiti ricevuti da Cdp su cui i Comuni, peraltro, stanno già versando interessi. Che gli enti locali abbiano rallentato i flussi di cassa lo scrive anche il Mef nel comunicato stampa che fa il punto sull’operazione: «Negli ultimi mesi – si legge – le somme messe a disposizione degli enti vengono richieste e assorbite più lentamente, presumibilmente perché la quota maggiore di debito patologico è stata rimossa grazie ai primi finanziamenti». L’Economia cita il caso della terza tranche di finanziamento ai Comuni che «è stata da questi assorbita solo parzialmente: 1,3 su 1,8 miliardi disponibili». L’arretrato maggiore (circa 900 milioni) si riscontra nella ultima tranche erogata soltanto a partire da questa estate. Non stupisce, quindi, che in questo caso solo il 31% dei Comuni sia già riuscito a esaurire anche queste risorse. Ma colpisce, invece, un altro dato: esistono 89 Comuni con debiti 2013 – che hanno «chiesto aiuto» allo Stato solo con questa tranche e solo nell’estate scorsa. Enti anche grandi (Catania da sola ha chiesto quasi 200 milioni, Catanzaro 18 oltre agli otto del Patto di stabilità). Particolarmente critica la situazione nella città etnea che dichiara un tempo medio di pagamenti delle imprese nel 2013 di ben 469 giorni. Tra i Comuni capoluogo più indebitati risulta in affanno anche Reggio Calabria: è pari al 53% lo stato di avanzamento rendicontato. Il Comune attraversa una gravissima crisi di liquidità.

La rendicontazione
Alcune lentezze non sono riconducibili agli enti locali. Per Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, ad esempio, due aree formalmente a zero nei pagamenti, il nodo è tecnico: la rendicontazione fatta su base regionale non specifica le spese sostenute da ogni ente. Conferma l’assessore al bilancio di Aosta, Carlo Marzi: «I tre milioni che avevamo chiesto sono stati tutti utilizzati». Non sempre, però, la registrazione sulla piattaforma della Ragioneria per il monitoraggio del Patto va a buon fine. Ma il problema è più ampio. Parte di quel 20% di enti in affanno potrebbe in realtà aver già saldato ed essere “vittima” di un ritardo nel caricamento dei dati (soprattutto per l’ultima tranche). È il caso, ad esempio, di Torino, che secondo il Mef sarebbe al 90% mentre al «Sole 24 Ore» dichiara un adempimento totale, concluso negli ultimi giorni. O di Salerno, che vanta un 100% di pagamenti (contro il 65% “ufficiale”): «Abbiamo saldato tutto e rendicontato il 21 agosto – spiega l’assessore al Bilancio, Alfonso Buonaiuto – e con l’ultima tranche non abbiamo più debiti arretrati al 2013». Poi c’è Nuoro, che per il Mef risulterebbe ancora a zero. «E invece abbiamo già speso tutti gli spazi finanziari ricevuti e abbiamo rendicontato ad aprile scorso» dichiara l’assessore al bilancio, Salvatore Daga. Come Nuoro sono oltre 600 i Comuni, grandi e piccoli, che nell’ultimo aggiornamento risultano a zero. In controtendenza, infine, ci sono anche i super-adempienti: una manciata di enti che risultano aver pagato più del 100% di quanto ricevuto. Ma il mistero è più facile da svelare: qualche Comune è riuscito a dedicare all’operazione “sblocca-debiti” anche risorse proprie oltre a quelle assegnate dello Stato.

Debiti PA, si riapre la compensazione

Debiti PA, si riapre la compensazione

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Si aggiunge un nuovo tassello all’operazione pagamenti della Pa. Stavolta a intervenire è un decreto attuativo atteso ormai da diversi mesi: era previsto dal decreto legge Destinazione Italia del dicembre 2013. Il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi ha infatti controfirmato nei giorni scorsi il decreto del ministero dell’Economia che sblocca per il 2014 la compensazione di cartelle esattoriali, ovvero gli atti di accertamento, a favore di imprese titolari di crediti commerciali nei confronti di tutte le Pubbliche amministrazioni. La compensazione sarà possibile per cartelle esattoriali notificate fino al 31 marzo 2014. Si riapre, in sostanza, una possibilità che era stata riattualizzata dal decreto 35/2013 del governo Monti, ma con un preciso limite temporale: solo per cartelle notificate entro il 31 dicembre 2012.

Il decreto Padoan-Guidi consente ora la compensazione, «nell’anno 2014, delle cartelle esattoriali notificate entro il 31 marzo 2014, in favore delle imprese titolari di crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, per somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali» maturati nei confronti della Pa. Ci sono alcune condizioni da rispettare, ovvero i crediti devono essere certificati e la somma iscritta a ruolo deve essere inferiore o pari al credito vantato. I crediti che hanno queste caratteristiche possono essere portati in compensazione secondo le modalità previste da precedenti decreti ministeriali del 2012. In sostanza, il titolare del credito, acquisita la certificazione, la presenta all’agente della riscossione competente. Se la regione, l’ente locale o l’ente del Servizio sanitario nazionale non versa all’agente della riscossione l’importo oggetto della certificazione entro 60 giorni dal termine indicato, l’agente può procedere, sulla base del ruolo emesso, alla riscossione coattiva nei confronti dell’ente.

Sul tema della compensazione restano in campo anche altre proposte, spesso di complessa praticabilità. Dalla compensazione universale – per tutte le tipologie di debiti con la Pa senza distinzioni – (un’idea da sempre sostenuta da Rete Imprese), alla recente proposta di legge Ncd portata avanti da Nunzia De Girolamo. In quest’ultimo caso (l’esame in Aula della Camera non è stato ancora fissato) si punta a corrispondere all’imprenditore il 50% di quanto dovuto dall’amministrazione pubblica a fronte dell’impegno di chiedere la rateizzazione del debito fiscale. Superata questa procedura verrebbe liquidato l’altro 50%.

Controllori distratti

Controllori distratti

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Eravamo rimasti ai quarantacinque giorni di ferie dei magistrati (che poi sono trenta più quindici per stendere le sentenze, come se nel resto dell’anno non fossero pagati per quello) ma scopriamo che non era solo quello. Nell’universo dell’impiego pubblico c’è di tutto, specie nel “particolare”, quando le dimensioni dell’ente dell “erogatore” sono modeste e tutto possa più facilmente sotto silenzio. Perché piccolo non sempre è bello, almeno molto poco bello per la decenza. Ci sono le indennità speciali ai musicisti per muovere la testa, quella ai vigili urbani per stare in strada, ad alcune categorie di impiegati per essere presenti.

Un vero e proprio bestiario, che alle prime cinque righe dell’elenco fa un po ridere ma alla sesta fa già montare la rabbia. Tutti piccoli bonus via via elargiti da politici spreconi in cerca di consenso o dirigenti di enti lirici e similari per assicurarsi una pace sindacale. Non si capisce perché gli insegnanti non debbano avere uno speciale riconoscimento per stare in classe con gli studenti, gli stradini uno per ricoprire le buche, i forestali per andare nei boschi. Magari qualche comune o regione ci avrà anche pensato, quegli stessi che poi piangono con il governo perché mancano i soldi dallo stato centrale e si devono chiudere gli asili.

Ma il punto non è(solo) questo. I punti sono due: il primo è una ormai inconcepibile discrepanza di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati (lo sappiamo tutti benissimo: non c’e azienda privata che avrebbe riconosciuto simili indennità); il secondo è la mancanza di controlli veri ed efficaci “centrali” sui livelli di contrattazioni periferiche. L’autonomia va bene, ma a patto di non sforare il ridicolo e sfondare l’erario. Riguardo al primo punto ricordiamo che è in atto da parte del governo una riforma della pubblica amministrazione, la famosa riforma Madia: evidentemente è il caso che la delega all’esame del Parlamento si occupi anche di questi aspetti che non sono secondari. Nel secondo aspetto citato, la domanda è: ma dove sono i controllori tipo Corte dei conti o organismi simili? Anche in questo caso girati dall’altra parte oppure mancano gli strumenti legislativi per permettono un intervento? Sia come sia, è il caso di rimediare. In fretta.

Il buco nero dei debiti dello Stato? E’ nella sanità

Il buco nero dei debiti dello Stato? E’ nella sanità

Paolo Baroni – La Stampa

I debiti arretrati della Pa? Al 23 settembre fa sapere finalmente il Tesoro, aggiornando i suoi dati, sono stati pagati 31,3 miliardi su 38,4 già erogati e le risorse stanziate (57 miliardi) «sono più che sufficienti a smaltire il debito patologico». In realtà, sul fronte dei pagamenti, restano molti buchi neri, a cominciare dalla sanità.

Tra gennaio e luglio infatti, secondo i dati elaborati da Assobiomedica, la federazione di Confindustria che raggruppa i fornitori di apparecchiature, una Asl su tre, ovvero 69 aziende su 226, i tempi li ha addirittura allungati. Il record spetta all’Azienda Sanitaria Mater Domini di Catanzaro, che a gennaio pagava in 1301 giorni e a luglio era arrivata a 1401 (+100) conquistandosi così il primato nazionale di peggior pagatore nel campo della sanità. Alle sue spalle si piazzano l’Azienda provinciale di Cosenza che paga in 1025 giorni, l’Azienda pugliese Ciaccio (907), l’Azienda regionale di Campobasso (833) e l’Asl Napoli 1 che paga in 855, ma che però da inizio anno è riuscita a tagliare ben 234 giorni. Meglio ha fatto solo l’Ospedale San Sebastiano di Caserta che di giorni ne ha recuperati addirittura 314 ed è sceso a quota 443. In tutto sono 20 le aziende che in questi ultimi mesi hanno ridotto i tempi di pagamento in maniera significativa (da 3 a 8 mesi), tra queste 4 aziende della capitale (Roma B, Roma E, Gemelli e Sant’Andrea), il Cardarelli di Napoli e l’ospedale di Careggi. Anche l’Asl di Rimini è riuscita a «buttar giù» 90 giorni, passando da 133 a 42 giorni e stabilendo così il miglior risultato assoluto. Le situazioni più pesanti riguardano le regioni commissariate, col Molise che ha una media di 862 giorni, la Calabria di 841, la Campania di 341. Al Nord la Lombardia paga invece in 92 giorni, l’Emilia in 152, il Piemonte in 243.

Nel campo della sanità il meccanismo della certificazione dei crediti avviato dal Tesoro serve, ma non risolve. Perché, ad esempio, ben 1,39 miliardi di crediti sui 3 che in totale spettano alle imprese che producono i dispositivi medici non possono essere certificati perché i debiti delle Regioni commissariate sono esclusi dal meccanismo. «È assurdo che questo che rappresenta il pregresso più antico, debba essere saldato chissà quando», protesta Stefano Rimondi presidente di Assobiomedica. Che segnala pure problemi col sistema bancario, con istituti «che impongono tassi anche superiori» all’l,6% fissato dal Tesoro.

Secondo Luigi Boggio, amministratore delegato della filiale italiana della B Braun, una multinazionale tedesca del settore da 5,1 miliardi di fatturato, la piattaforma informatica del Tesoro «non è uno strumento utile». «È complicato – spiega – non consente un caricamento massivo delle fatture, ma bisogna inserirle una per volta e ad ogni anomalia la fattura viene sospesa. Molto meglio fare da soli: noi sul recupero crediti investiamo molto di nostro, abbiamo 8 persone che girano l’Italia, visitano i clienti, e ci consentono di sbloccare molte situazioni». In questo modo la «B Braun» riesce a incassare in 158 giorni contro una media nazionale di 201. «Ma la Romania per pagarci impiega 70 giorni in meno, l’Ungheria 50, la Bulgaria 40, Spagna e Russia 30. Perché? Perché – risponde Boggio – da noi c’è tutto un sistema informatico-amministrativo che non funziona. Senza contare che in certe regioni del Sud se non chiedi le fatture se le tengono nel cassetto ed è come se non esistessero».

Pagamenti a quota 31 miliardi

Pagamenti a quota 31 miliardi

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

L’obiettivo di pagare tutti i debiti della Pa entro il 21 settembre, il fatidico giorno di San Matteo, non è stato centrato. Lo confermano gli ultimi dati pubblicati ieri dal ministero dell’Economia, sebbene si sottolinei come l’ammontare accumulato a fine 2013 sia inferiore alle precedenti stime (50 miliardi anziché i 60 miliardi più volte citati) e nonostante si ricordi che le imprese possono cedere i loro crediti alle banche secondo le regole del decreto 66/2014.

I numeri, alla fine, dicono che su poco meno di 57 miliardi stanziati sono stati erogati 38,4 miliardi agli enti debitori e di questi solo 31,3 miliardi sono finiti nelle casse dei creditori (il 55% delle risorse effettivamente disponibili). In particolare, 17,9 miliardi sono stati pagati ad imprese e professionisti che vantavano crediti nei confronti di Regioni e Province autonome; 7,7 miliardi sono andati a fornitori di Province e Comuni e 5,7 miliardi a quelli dello Stato (ma in questo caso, per 5,2 miliardi , si parla di rimborsi fiscali e non di crediti commerciali).

Il Mef mette comunque in evidenza il forte incremento dell’erogazione (+27%) e dei pagamenti (+20%) rispetto alla precedente rilevazione del 21 luglio scorso e ridimensiona l’intero fenomeno. Limitandosi al debito “patologico”, dunque scaduto e non oggetto di contenzioso, la massa da aggredire si ridurrebbe a 50 miliardi e dunque «le risorse fin qui stanziate sembrano essere più che sufficienti». È vero, ammette il Mef, che non è stato già pagato l’intero importo stanziato ma le ragioni vanno ricercate a livello locale. Molti Comuni hanno rallentato la richiesta di risorse perché hanno smaltito la gran parte degli arretrati mentre le Regioni sono fermate dal patto di stabilità interno, hanno problemi di contabilizzazione nei bilanci o non riescono a predisporre piani di pagamento dettagliati. Tra settembre e novembre, comunque, dovrebbero essere erogati dal Tesoro agli enti debitori altri 9 miliardi.

Un’analisi completa dell’argomento pagamenti della Pa richiede però una distinzione tra spese correnti e spese in conto capitale. Mentre sulle prime il governo può procedere senza remore, nel secondo caso – relativo agli investimenti – restano grosse criticità per il rischio di sforare i vincoli dell’indebitamento netto (per il governo sarebbero incagliati solo 2-3 miliardi, per i costruttori dell’Ance le cifre sarebbero sensibilmente superiori). E non è l’unico aspetto meritevole di approfondimento. Dal mondo sanitario, altro grande universo dei creditori della Pa, giungono diverse obiezioni. Assobiomedica sottolinea che, su oltre 3 miliardi di scoperto, 1,4 miliardi «non possono essere restituiti perché i debiti delle Regioni commissariate sono esclusi dal sistema di certificazione del ministero dell’Economia».

Il punto di soddisfazione reciproca, tra governo e imprese, appare dunque ancora lontano. Continuano ad esempio le segnalazioni su ritardi di pagamento relativi ai nuovi contratti. Su questo punto però il governo rilancia, promettendo «la riduzione generalizzata a 30 giorni» grazie all’introduzione della fatturazione elettronica e alle nuove regole di contabilità per le pubbliche amministrazioni.