pubblica amministrazione

Lo Stato che non paga ci è costato 6 miliardi

Lo Stato che non paga ci è costato 6 miliardi

Davide Giacalone – Libero

Non ci saranno manovre autunnali, niente ulteriori tasse, il deficit rimarrà sotto il 3%, anche se il prodotto interno lordo non cresce. Matteo Renzi dixit. Come quando il prestigiatore annuncia che taglierà in due la formosa valletta, noi tutti sappiamo che c’è il trucco, ma restiamo in attesa di assistere al prodigio. Se riesce, l’applauso è meritato. Il numero precedente non è riuscito, nel team dei prestigiatori di prima c’è chi si trova, ora, sotto al palco e bofonchia malmostoso: c’è il trucco. Lo sappiamo, tutto sta a vedere come lo si maneggia. Che Stefano Fassina, già bocconiano, già responsabile economia del Pd, già viceministro all’economia, mastichi amaro, è comprensibile, ma dice cose interessanti. Ogni tanto vale la pena fare i conti con la realtà reale, sfuggendo ai frizzi dell’illusionismo.
Lascio da parte le sue considerazioni sulle “favole liberiste”. Potrei rispondere dandogli del marxista collettivista, ma servirebbe solo ad aumentare il già inquietante volume delle minchionerie. Non c’è liberismo, nel nostro presente, né selvaggio né addomesticato. Non c’è collettivismo nel nostro futuro. Siamo alle prese con un problema difficile, che in Italia diventa devastante. E scarseggiano idee all’altezza, la cui mancanza non si compensa affatto lanciando epiteti a casaccio. Fassina ha ragione: la spesa primaria corrente italiana è fra le più basse dell’eurozona, naturalmente in rapporto al pil. Questa verità, però, non serve a stabilire se va tagliata o meno (va tagliata), ma a capire la gravità del male che ci affligge. Difatti, posto che la spesa pubblica corrente è troppo alta in tutta Europa, tanto che è l’area meno capace di crescere e più impantanata, da noi è il costo del debito pubblico a renderla patologica. Fassina dice che la spesa primaria è bassa. Noi ripetiamo che gli avanzi primari italiani sono dei record mondiali. Stiamo dicendo la stessa cosa, ma entrambe i dati soccombono quando ci si mangia sei punti di pil in venti anni, più del doppio degli altri, per pagare il costo del debito.
Questo porta a conseguenze perniciose. Giusto ieri il centro studi “Impresa Lavoro” calcolava in 6.3 miliardi il costo annuo, per le imprese, dei mancati pagamenti dovuti dalla pubblica amministrazione. La cattiva spesa pubblica avvelena il tessuto produttivo, costituendo un vantaggio per le imprese di altri paesi. Indebolite le imprese diminuiscono ricchezza e lavoro, quindi i consumi, intorcinandosi nella spirale recessiva. E noi lì siamo.
Dice Fassina: la nostra spesa pubblica va radicalmente riqualificata e riallocata. Sottoscrivo, ma è ipocrita quando aggiunge: non tagliata. Stiamo giocando con le parole. Vuol dire: il monte complessivo della spesa non è troppo alto, ma si devono tagliare, con brutalità, le spese sbagliate e dirigere i soldi dove serve. E questa è politica. O quel che la politica dovrebbe essere. Convengo con Fassina che pensare alla spesa pubblica solo in termini di risparmi e sprechi è inutile moralismo. Ma casca sul punto decisivo: dove prendiamo i soldi necessari? Egli dice: dall’evasione fiscale che da noi è doppia della media europea. Verrebbe da dire: magari!
Presto saranno disillusi. Il governo medita che il ricalcolo del pil, secondo i nuovi criteri statistici europei, che includono l’economia nera, alleggerirà la posizione italiana. Il che fa scopa con la supposizione di Fassina: scopriremo nuove lande dell’avasione fiscale. Sbagliato: quel ricalcolo dimostrerà che la nostra economia, includendo il nero, s’avvantaggia meno, in assoluto e in percentuale, di quella tedesca. L’idea che l’Italia abbia il primato della disonestà è sbagliata. Manco quello. Giorni fa ragionavamo del contante: se l’Italia è il Paese europeo con più vincoli, inesistenti in Germania, è ragionevole supporre che il maggior nero non si trova da noi. Il ricalcolo lo dimostrerà. Basta attendere. Noi siamo primatisti in disfunzionalità, spesa pubblica sprecata, paura di cambiare e cambiamenti di mera apparenza.
E allora, dove troviamo i soldi per uscire dalla trappola? Se abbiamo la minore spesa primaria, il più alto avanzo primario, ma pur sempre una spesa complessiva altissima e un deficit che si comprime solo con il fisco, senza riuscirci, è segno che il nostro macro problema ha un nome: debito pubblico. Mostro che porta con sé una pressione fiscale da suicidio. Serve un serio piano di dismissioni patrimoniali e abbattimento del debito. Accanto: riforme del mercato interno, per rendere più facile dare e ricevere lavoro, senza pagare il pizzo alla spesa improduttiva. La strada c’è. E non importa un fico secco che la si chiami liberista o socialista. Conta che non sia il mero rimandare, fra un gioco di prestigio e l’altro. Che stufano e costano.

La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un salasso da 6,8 miliardi di euro nel 2013, un altro record negativo in ambito europeo e, soprattutto, un finanziamento indiretto alla “casta” che ai cittadini l’anno scorso è costata 5,1 miliardi. E’ questa la sintesi di una ricerca sulla ricadute negative dei ritardati pagamenti della pubblica amministrazione condotta da “ImpresaLavoro”, il centro studi creato dall’imprenditore friulano Massimo Blasoni e il cui board è presieduto da Giuseppe Pennisi.

Lo studio, infatti, analizza gli effetti del malcostume tutto italiano di non onorare prontamente le scadenze verso i fornitori. Il centro studi, basandosi sui dati di Eurostat e di Intrum Justitia, ha stimato in 72,2 miliardi di euro il totale dei debiti della pubblica amministrazione non saldati l’anno scorso, una cifra pari al 4,8 del Pil. Il valore, però, non tiene conto dei debiti delle partecipate dello Stato e degli enti pubblici che spesso sfuggono a queste misurazioni e, probabilmente, è sottostimato. Anche se lo stock si sta riducendo (nel 2010 era di 87 miliardi e nel 2012 di 81 miliardi circa) per effetto del recepimento della normativa europea – su imput dell’ex commissario Antonio Tajani – sui tempi di pagamento e sullo stanziamento di risorse ad hoc, ciò non toglie che i 170 giorni medi per un pagamento costituiscano un grave problema per le aziende.

Aspettare sei mesi per ottenere il pagamento di una fattura vuol dire rischiare il fallimento, a meno di non ricorrere a un “cuscinetto” di capitale che consenta di ovviare alla difficoltà. Questo “cuscinetto”, in molti casi, si chiama finanziamento bancario che può, ovviamente, articolarsi in differenti modalità di erogazione. Il centro studi ImpresaLavoro ha pertanto simulato quanto paghino le aziende queste risorse aggiuntive cui non si farebbe ricorso se lo Stato fosse un buon pagatore. Tecnicamente parlando, il costo del capitale è una variabile microeconomica funzione anche degli utili attesi, ma – in questo caso – si utilizza il costo medio dei finanziamenti bancari che, grosso modo, rappresentano una misura equivalente. Ebbene, la media ponderata tra linee di credito (tassi oltre il 10%), scoperti di conto (oltre il 16%), anticipo e sconto crediti (tra il 5,5% e l’8%) e factoring (tra il 4,2 e il 7,7%) restituisce un valore medio del 9,1 per cento. Ciò significa che quei 74,2 miliardi non pagati dallo Stato costano alle imprese 6,8 miliardi di extracosti di finanziamento, una cifra elevata anche a causa della congiuntura economica che rende sempre meno convincente alle banche prestare soldi alle aziende in difficoltà.

Per ironia della sorte, la memoria scritta del pg della Corte dei Conti Salvatore Nottola sul giudizio di parifica del rendiconto dello Stato indica in 5,1 miliardi di euro il costo sostenuto per gli organi istituzionali (Presidenza della Repubblica, Camera, Senato, Presidenza del Consiglio, enti locali). Insomma, è come se con quei soldi non pagati alle imprese lo Stato finanziasse la “casta” a spese delle attività produttive. Ma soprattutto, ed è questo ciò che conta, le aziende non recupereranno mai totalmente il costo dei finanziamenti: il centro studi ha infatti calcolato in circa 3,3 miliardi il valore degli interessi di mora applicabili ai debiti non saldati. Ben 3,5 miliardi se ne vanno perciò in fumo. Ultimo ma non meno importante è il costo sociale dei ritardati pagamenti: minori investimenti, meno sviluppo, perdita di posti di lavoro e fallimenti. Questo si traduce in una progressiva diminuzione della competitività: l’Italia è il Paese dell’Ue con il più elevato stock di debiti commerciali della Pa scaduti e il secondo dopo la Grecia (che però non fa testo essendo tecnicamente in default) per incidenza dei debiti sul Pil. Difficile dar torto a chi non investe in un Paese dove avere come controparte la Pa significa rischiare più del necessario.

PA, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese 6 miliardi

PA, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese 6 miliardi

Metronews – 4 agosto 2014

UDINE. Il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca (scaricabile interamente dal sito www.impresalavoro.org) realizzata dal centro studi di ispirazione liberale “ImpresaLavoro” di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).

Lo studio di “ImpresaLavoro” sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».

Secondo le stime prudenziali di “ImpresaLavoro”, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di €, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra PA risulta in calo: nel 2010, esso aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del PIL. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.

La ricerca di “ImpresaLavoro” rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%).

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Eugenio Scalfari invoca la Troika, ancorché nella versione buona (per una politica economica espansiva, e non restrittiva), vuol dire che le cose vanno proprio male per l’economia italiana. Se è vero che il problema è di tutta l’eurozona, l’Italia è comunque il fanalino di coda: basta fare il confronto con Grecia e Spagna, che fino a un anno fa erano messe peggio di noi.

Questo vuol dire che l’Italia, dal governo Monti in poi, ha sbagliato tutto. Con l’aumento stellare della tassazione casa (triplicata); la controriforma del mercato lavoro; la riforma sbagliata delle pensioni; l’aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese, per quanto riguarda Monti e Letta. E con il riformismo confuso, impotente, clientelare, inadeguato del governo Renzi: basti pensare al Jobs act; alla controriforma Madia della Pubblica amministrazione; allo sconquasso dei conti pubblici causato dal “bonus Irpef” di 80 euro; alla Spending review impantanata e alla svendita, senza logica e senza un piano, dei propri gioielli di famiglia (si veda, da ultimo, la cessione del 35% del capitale sociale di Cdp Reti, che contiene il 30% di Snam e il 29% di Terna, al gruppo che controlla le reti energetiche cinesi). Su quest’ultimo punto, del programma di dismissioni del ministro Vittorio Grilli, per un punto di Pil, pari a 16 miliardi, si è persa traccia. Così come restano ad oggi irrealizzati gli 11 miliardi all’anno di dismissioni contenuti nel Def 2014 di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan.

In quasi 3 anni, passati invano, 3 distinti governi, tutti caratterizzati dal fatto di non essere stati eletti dal popolo, non hanno voluto, o non sono stati capaci di fare le cose che si dovevano fare, guarda caso contenute nella lettera che il 26 ottobre 2011 il governo Berlusconi inviò, ricevendo tanti applausi, ai presidenti di Commissione e Consiglio europeo. Misure di modernizzazione e rilancio dell’economia italiana in parte approvate a novembre 2011 con il maxiemendamento alla Legge di stabilità per il 2012 (ultimo atto del governo Berlusconi), ma poi, purtroppo, a causa dei tanti cambi di esecutivo, non attuate (si pensi alla mobilità obbligatoria per il pubblico impiego). Oggi le cose da fare sono chiare a tutti, perfino a Eugenio Scalfari, che invoca la Troika, delegittimando, di fatto, Renzi.

I dati parlano chiaro: per mantenere gli impegni presi con l’Europa nel 2014 mancano tra 29 e 32 miliardi di euro. E per mantenere le promesse che Renzi ha fatto agli italiani bisognerà trovare altri 37 miliardi nel 2015.

IL PIANO BERLUSCONI PER USCIRE DALLA CRISI

1) Attacco al debito pubblico ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia, per una strategia credibile

Innanzitutto, per sopperire alla più grave debolezza italiana e rafforzare la nostra posizione in Europa, si rende necessario, dunque, un intervento straordinario, ma duraturo, di aggressione del debito pubblico. Una riduzione strutturale del debito sovrano dell’ordine di 400 miliardi (circa 20-25 punti di Pil) in 5 anni: 100 miliardi derivano dalla vendita di beni pubblici per 15-20 miliardi all’anno (circa 1 punto di Pil ogni anno); 40-50 miliardi (circa 2,5 punti di Pil) dalla costituzione e

cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi (circa 1,5 punti di Pil) dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute all’estero (5-7 miliardi all’anno); 215-235 miliardi dalla vendita di beni patrimoniali e diritti dello Stato disponibili e non strategici ad una società di diritto privato, che emetterà obbligazioni con warrant. Altro che svendite per fare cassa. Il segnale strategico che si vuol dare con un piano di questo tipo è quello di aumentare l’efficienza, la produttività e la competitività dell’economia italiana; ridurre il peso dello Stato; liberare risorse oggi patologicamente impiegate per il servizio del debito. Vendita del patrimonio pubblico immobiliare, al centro come in periferia, liberalizzazioni e privatizzazioni delle Public utilities, riduzione del peso delle industrie pubbliche, sdemanializzazione nel territorio, emersione del sommerso, per trasformare il capitale morto, come direbbe l’economista peruviano Hernando De Soto, in capitale vivo. E per avere, come vedremo, lo spazio necessario e sufficiente per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, innescando così il circuito virtuoso meno debito-meno tasse-più crescita.

Ma l’attacco stabile e duraturo al debito pubblico, da solo, non basta: per scongiurare l’incertezza e l’ingovernabilità e per avere un’Italia credibile in Europa e sui mercati finanziari, ad esso occorre

accompagnare una parallela verticalizzazione delle istituzioni, che preveda l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e assicuri una guida stabile e democraticamente legittimata alla politica italiana. Altro che l’attuale riforma del Senato. Attacco al debito ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia. Un doppio segnale fortissimo. L’operazione nel suo complesso avrebbe in sé tutta la forza, tutta l’etica, di una vera rivoluzione: si avvierebbe

finalmente un meccanismo positivo di modernizzazione del paese per essere europei a 360 gradi, che i mercati non potrebbero non apprezzare, sia da un punto di vista finanziario sia da un punto di vista di credibilità politico-istituzionale. Un grande, decisivo investimento collettivo nel senso di dare certezze, agli italiani innanzitutto, ai nostri severi (ed egoisti) partners europei, ai mercati, per tirare fuori il paese dalla crisi, dal pessimismo, dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze: debito e cattiva politica. Una grande occasione non solo per l’Italia, maanche per tutte quelle forze politiche e sociali che se ne faranno interpreti.

2) Riduzione della pressione fiscale

Una volta avviato il piano di riduzione strutturale del debito pubblico, andrebbe parallelamente avviato un grande piano di riduzione della spesa pubblica, destinando le risorse così ottenute alla riduzione, di pari importo, della pressione fiscale. Nel programma elettorale 2013 della coalizione di centrodestra, che 10 milioni di italiani hanno votato, Berlusconi ha proposto di ridurre di 80 miliardi in 5 anni (16 miliardi all’anno) la spesa pubblica corrente (attualmente pari a circa 800 miliardi) e di ridurre di pari importo la pressione fiscale. Con l’ambizioso obiettivo di portare la nostra economia a crescere a un ritmo di almeno il 2%, stimolando così i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Con più gettito e più risorse per gli ammortizzatori sociali. Quindi più benessere. Se si riduce di 16 miliardi all’anno la spesa pubblica, di pari importo andrebbe ridotta la pressione fiscale, con provvedimenti per 8 miliardi all’anno a favore delle famiglie e per altri 8 miliardi all’anno a favore delle imprese. Il tutto per portare, in 5 anni (durata di ogni legislatura) dal 45% al 40% la pressione fiscale in Italia.

3) La politica economica europea

Questa è la vera Spending review: attacco strategico e strutturale al debito pubblico, taglio strutturale della spesa corrente, e pari riduzione della pressione fiscale per le famiglie e per le imprese. Cui aggiungere la richiesta, a livello europeo, non di una generica “maggiore flessibilità”, che non porta a niente, ma di una nuova politica economica nell’intera area dell’euro. A partire dalla reflazione in Germania; le riforme simultanee in tutti gli Stati dell’eurozona; l’accelerazione sulle 4 unioni: bancaria, di bilancio, politica e economica (significa Euro bond, Union bond, Stability

bond, Project bond). Solo in questo modo potranno crearsi le condizioni per consentire alla Banca centrale europea di utilizzare al massimo gli strumenti di politica monetaria previsti dal suo Statuto. Fino al Quantitative easing all’europea, di cui abbiamo tanto bisogno. Anche per deprezzare l’euro di almeno il 20%, in modo tale da far riacquistare competitività all’intera eurozona. E per questa strada “domare” i mercati.

4) Riforma del mercato del lavoro, Tfr in busta paga e pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione

Infine, la riforma del mercato del lavoro. Tutto parte dalla lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto 2011, ove, pur riconoscendo gli sforzi dell’esecutivo Berlusconi sul tema e, in particolare, la giusta direzione in cui andava l’accordo del 28 giugno 2011 tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, si chiedeva l’introduzione di una vera flessibilità nel mercato del lavoro, attraverso “un’ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”, nonché “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

Realizziamo questi due punti, fondamentali per far funzionare veramente il mercato del lavoro, e avremo il plauso non solo dell’Europa e dei mercati, ma soprattutto dei nostri giovani, delle nostre famiglie, delle nostre imprese. A tutto questo andrebbe aggiunto uno stimolo immediato per riportare liquidità (fino a 6 miliardi di euro) nelle casse delle imprese e nelle tasche dei lavoratori, da un lato riassegnando alle aziende con più di 50 dipendenti la quota di Tfr non utilizzata per la previdenza complementare (attualmente accantonata presso l’Inps), dall’altro consentendo a tutti i

lavoratori di poter reclamare, in costanza di rapporto di lavoro e senza doverla giustificare, una anticipazione fino al 100% del proprio Trattamento di fine rapporto. Per quanto riguarda le imprese, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, per i 64 miliardi ad oggi restanti, fornirebbe ulteriore liquidità, di cui mai come oggi c’è bisogno. Insieme al Tfr, una manovra espansiva di politica economica.

Questo è il piano Berlusconi contro l’autunno nero che verrà. Renzi lo adotti per uscire dalla crisi. Se c’è stato e c’è ancora dialogo sulle riforme istituzionali, per le quali l’apertura di credito del presidente Berlusconi nei confronti del presidente Renzi è stata grande e generosa; e se la riforma elettorale è ancora in discussione (anche se dobbiamo ricordare che la gente non vive né di riforma del Senato né di riforma elettorale), dopo il fallimento della sua strategia di politica economica, Renzi mostri la stessa generosità che con lui ha avuto Berlusconi in tema di riforme costituzionali. Adotti il suo piano. Uno scambio alla luce del sole, per il bene del paese.

I debiti della Pubblica Amministrazione costano alle imprese 6 miliardi l’anno

I debiti della Pubblica Amministrazione costano alle imprese 6 miliardi l’anno

COMUNICATO STAMPA

Il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca (scaricabile interamente dal sito www.impresalavoro.org) realizzata dal centro studi di ispirazione liberale “ImpresaLavoro” di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).
Lo studio di “ImpresaLavoro” sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».
Secondo le stime prudenziali di “ImpresaLavoro”, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di €, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra PA risulta in calo: nel 2010, esso aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del PIL. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.
La ricerca di “ImpresaLavoro” rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%).
Scarica il paper completo
L’opinione di Giuseppe Pennisi, Presidente del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Salvatore Zecchini, Membro del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Carlo Lottieri, filosofo, Università degli Studi di Siena
Scarica i grafici e le tabelle del paper

 

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Mariastella Gelmini – Libero

Le previsioni sull’economia italiana segnalano un autunno di burrasca e le parole del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, devono essere motivo di riflessione per tutti. Non sono che l‘ultimo campanello di allarme. La prospettiva di una manovra autunnale è reale, è particolarmente preoccupante alla luce dell’affaticamento economico del Paese. Dopo il governo Berlusconi, l’ultimo scelto direttamente dagli elettori, i tre successivi hanno fatto manovre per quasi 90 miliardi di imposte. Nello stesso periodo prima l’allora ministro Giarda, poi un manager di valore come Enrico Bondi, quindi Cottarelli, che ha guidato il dipartimento di finanza pubblica del fondo monetario, hanno lavorato al cantiere della «spending review».

Il bilancio dello Stato é una cosa tremendamente complicata, ci vuole una vita di studi per venirne a capo, molto spesso ministri e governi sono spettatori passivi rispetto alle dinamiche di spesa. Per questo, è stato giusto ricorrere all’esperienza di tecnici preparati. Ma il risultato, davvero poco confortante, è che se alcuni tagli, peraltro minimi, alla spesa sono stati individuati, sin ora non e stato tagliato neanche un centesimo. L’Italia ha una spesa pubblica, al netto degli interessi, di poco superiore al 50% del Pil. Ogni volta che sentiamo interessi di parte chiedere più risorse, ogni volta che ascoltiamo autorevoli colleghi parlamentari tuonare contro il pareggio di bilancio e il fiscal compact, ogni volta che qualcuno paventa l’ipotetica «ritirata dello Stato» che avrebbe avuto luogo negli scorsi anni, ricordiamoci di questo dato di fatto. La spesa pubblica supera la metà del prodotto interno lordo: neanche nell’Egitto del faraoni!

La Germania ha una spesa pubblica che nel decennio 2002-2012 si è sempre attestata attorno al 44,7%, misurata. In più, negli ultimi anni, quel Paese è vistosamente cresciuto, cosa che noi non abbiamo fatto. Potrebbe quindi permettersi, per così dire, più spesa pubblica. Il che è invece, oggi, al di là delle nostre possibilità.

Interventi incisivi e fruttuosi sulla spesa pubblica vanno fatti «per cassa», devono cioè produrre benefici immediati in termini di deficit e, nel medio termine, sul debito. Quando ero ministro dell’Istruzione sollevai il problema di uno squilibrio di spesa in quel settore. A parte la scarsità di risorse, posi una questione di fondo rimasta ancora senza risposta: quale tipo di istruzione e di crescita civile può assicurare un Paese se l’80% delle risorse se ne vanno in stipendi e soltanto il 20% in infrastrutture, manutenzione e investimenti? Quella situazione non riguardava e non riguarda soltanto quel dicastero. Si pensi alla Sanità dove, con l’eccezione di alcune Regioni del Nord, la spesa è assorbita per il 75% dagli stipendi (nel Sud si arriva fino all’85-90%).

Renzi pensa alla staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Si è chiesto a carico di chi andranno le maggiori spese? Quali saranno i costi? Per ridurre sensibilmente la spesa pubblica, vanno almeno chiarite due questioni di metodo e di merito, sulle quali purtroppo nessuna rassicurazione ci giunge da questo governo.

In primo luogo, proprio per quanto scrivevo poc’anzi, per ridurre la spesa pubblica serve una buona riforma della Pa. Una buona riforma della Pa è una riforma che ne riduce i costi. L’attuale esecutivo parla di riforma della Pubblica Amministrazione eludendo sapientemente il tema dell’impatto economico. È probabile che la nostra Pa abbia bisogno di assorbire nuove persone e nuove competenze. Ma in assenza di un disegno di razionalizzazione, non si tratta di altro che di un disegno fanfaniano di «occupazione» dello Stato.

In seconda battuta, la spending review non può prescindere da un’altra questione, alla quale il governo Renzi ha messo la sordina: le privatizzazioni. È giusto e opportuno che il presidente del Consiglio ascolti esperti ed economisti, ma la riduzione della spesa è una questione eminentemente politica. La domanda alla quale rispondere è: quanto e quale Stato vogliamo? Che cosa desideriamo che faccia, lo Stato? Che cosa altri possono fare meglio di lui? E sotto questo profilo, è del tutto illogico considerare revisione della spesa e privatizzazioni come questioni del tutto indipendenti l’una dall’altra.

Le riforme istituzionali sono importanti, noi siamo i primi a crederlo, è un merito di Renzi averle messe al centro del dibattito. Ma il silenzio del presidente del Consiglio, altrimenti assai loquace, su questi temi ci lascia sospettare che egli non abbia un pensiero in merito. O perlomeno che non abbia una maggioranza, in grado, quel pensiero, di seguirlo e sostenerlo.

L’Italia degli imboscati

L’Italia degli imboscati

Maurizio Belpietro – Libero

La Cgil si è accorta che in Italia non c’è lavoro. Meglio tardi che mai: sono anni che il totale delle persone occupate diminuisce, ma finora la situazione non aveva indotto il principale sindacato a uno studio approfondito del fenomeno. Adesso a colmare la lacuna pare abbia provveduto l’Associazione Bruno Trentin, ovvero l’ufficio studi della confederazione rossa. Elaborando i dati Istat, i ricercatori hanno scoperto che dal 2007 ad oggi il tasso di occupazione è passato dal 51,4 per cento al 48,2, ma ciò che è peggio è che il confronto con l’Europa ci dà sotto e di parecchio alla media dei Paesi della Ue. Sette punti e mezzo percentuali ci separano infatti dal tasso di occupazione dell’Eurozona, della quale fanno parte non solo la Germania o altri Paesi del Nord la cui economia fila come un treno ad alta velocità, ma anche Spagna, Portogallo e Irlanda, posti dove la crisi ha colpito duro e il cui tasso di occupazione risulta comunque superiore al nostro.

Già questo basta e avanza a capire che in Italia c’è qualcosa che non va: se infatti meno di un abitante su due lavora significa che uno su due campa sulle spalle di chi un posto ce l’ha, con tutto ciò che ne consegue. In realtà però la ricerca della Cgil non dice tutta la verità, perché ad approfondire la statistica si scopre che non tiene conto delle persone che ufficialmente un posto di lavoro ce l’hanno ma è come se non l’avessero. Si può infatti considerare regolarmente occupato un lavoratore che sta in cassa integrazione da anni? È possibile continuare a far figurare nei censimenti della pubblica amministrazione quei dipendenti di società municipalizzate o servizi regionali che sono stati chiaramente assunti anche se non servono? Insomma, se si togliessero dal 48 per cento stimato dalla Cgil i posti finti o quelli precari, probabilmente in Europa batteremmo ogni record di disoccupazione.

E però oltre a questo forse è il caso di cominciare a parlare di chi il posto di lavoro ce l’ha ma si guarda bene dal lavorare. In questi giorni ha suscitato scandalo un rapporto interno del Comune di Napoli. A Palazzo San Giacomo hanno radiografato il servizio di vigilanza urbana, scoprendo che su duemila guardie municipali in servizio soltanto 900 lavorano. Gli altri non sono imboscati i ufficio, come spesso capita: sono proprio imboscati, cioè assenti. Chi per malattia, chi in permesso sindacale, chi per assistere un parente, chi per assistere gli affari suoi. Risultato, a dirigere il traffico e multare gli automobilisti indisciplinati rimangono meno della metà di quelli che sono pagati per fare tutto ciò.

Può stare in piedi l’economia di un Paese dove uno lavora e l’altro incassa senza lavorare? Può crescere il Pil di una nazionale che avendo più siti archeologici di tutto il mondo messo insieme organizza un concerto, attirando visitatori paganti da ogni dove, ma sul più bello, quando c’è da tirar fuori gli strumenti i violinisti se ne vanno e dicono buonanotte ai suonatori? Eppure questo è ciò che è successo nei giorni scorsi a Caracalla, di fronte a spettatori venuti dall’America per assistere allo spettacolo. Spesso ci lamentiamo delle difficoltà in cui l’Italia si dibatte, registrando anno dopo anno gli insuccessi economici che ci spingono ad avere il minimo della crescita e il massimo delle tasse. Tuttavia, se stiamo in questa situazione, gran parte della colpa la si deve agli italiani. O meglio: a quegli italiani che si imboscano. Perché oltre che un popolo di santi, sognatori e poeti siamo anche un popolo di furbi che appena può se ne approfitta, o per scioperare oppure per non lavorare. In qualche caso evitare di faticare è addirittura diventato un mestiere, ovviamente retribuito a caro prezzo dallo Stato. Non si spiega diversamente l’alto tasso di pensioni di invalidità registrato in alcune zone della Penisola. Possibile che le dieci Province con il più alto numero di invalidi siano tutte concentrate al Sud? Perché a Bolzano gli invalidi superano di poco l’1 per cento della popolazione residente e a Oristano o Nuoro, ma anche a Lecce e Reggio Calabria ci si avvicina al 10 per cento? Difficile pensare che in certe località ci sia stata un’epidemia. Più facile ritenere che lì, come al Comune di Napoli, fra i tanti che marcano visita ci sia un’epidemia di approfittatori. Di gente che ha imparato a godersela a sbafo, alla faccia dell’articolo 18 e di chi davvero ha bisogno di assistenza. Tanto, alla fine c’è sempre qualcuno che paga per tutti.

Armageddon sindacale, i beati distaccati della PA forzati a tornare a bottega

Armageddon sindacale, i beati distaccati della PA forzati a tornare a bottega

Nunzia Penelope – Il Foglio

Il giorno del giudizio ha una data e per il sindacato è il 31 luglio 2014, quando saranno resi noti i nomi degli oltre mille sindacalisti che dovranno lasciare l’incarico per tornare, come si dice, in produzione. È l’effetto Renzi, o meglio l’effetto Madia, che con la riforma della Pubblica amministrazione si è conquistata il titolo di rottamatrice “ad honorem” del sindacato del pubblico impiego. La riforma prevede infatti un taglio del 50 per cento ai distacchi sindacali con effetto immediato: entro il 1° settembre. Tradotto in cifre, significa che sugli attuali 2.136 distaccati, 1.158 cesseranno di essere tali; tradotto in fatti, invece, significa che Cgil, Cisl e Uil del settore pubblico perderanno di colpo il 50 per cento del gruppo dirigente. I distaccati, infatti, negli anni – o nei decenni – hanno fatto carriera, sono diventati segretari nazionali, generali: difficile rimpiazzarli in un mese. E poi, pagarli come, con che soldi? Oggi sono a carico dello Stato: i pubblici dipendenti passati a incarichi sindacali continuano a ricevere lo stipendio da ministeri, scuola, sanità, per un costo totale di circa 100 milioni annui.

Da settembre, invece, o si torna al lavoro o sarà il sindacato ad accollarsi il peso delle retribuzioni. Improponibile, per le casse delle confederazioni: se la Cgil, per dire, ha spalle economicamente abbastanza solide, per la piccola Uil si profila una mazzata. Ma improponibile sarebbe anche rinunciare a battaglioni di dirigenti, rischiando la paralisi dell’attività. Infatti, dal giorno in cui il governo ha approvato la riforma, nelle confederazioni è scoppiato il panico: uno su due dovrà lasciare l’incarico e tornare al lavoro. A chi toccherà? Per evitare le già incombenti guerre fratricide, ogni confederazione si è attrezzata a modo duo. La Cgil ha deciso, salomonicamente, di tenerseli tutti, ma a metà: vale a dire, tutti gli interessati (circa 600) torneranno al lavoro ma part-time, mentre l’altra metà del tempo proseguiranno l’attività nel sindacato. Le spese, in questo modo, saranno ripartite: una parte ancora a carico dello Stato, un’altra sulle casse di Corso Italia. Alla Cisl, invece, l’elenco dei “rientrandi” (circa 500) è già pronto, a partire da quelli del settore scuola. Urgente il loro rientro in vista dell’anno scolastico che, dopo decenni, li vedrà nuovamente operativi. Ma i più “graduati” resteranno nel sindacato, e per loro varrà la legge 300 sui distacchi non retribuiti: in altre parole la loro busta paga, da settembre, la firmerà Raffaele Bonanni.

Anche nelle varie amministrazioni, però, serpeggia il panico: questi mille e rotti che tornano, dove diavolo li metteranno? I loro posti di lavoro sono previsti dalle piante organiche, ma sono virtuali: in quindici, vent’anni sono stati ridistribuiti ad altri. Trovare un impiego per i figliol prodighi non sarà facile. Senza contare che stiamo parlando di ultracinquantenni: e già si immaginano le facce sperdute di chi, in età avanzata, dovrà ricominciare da zero in un ambiente ormai sconosciuto. Quanto ai risparmi, non ce ne saranno: i 100 milioni attuali lo Stato continuerà a pagarli (e a questi si dovranno sommare il salario accessorio, gli straordinari e i buoni pasto, non previsti per i distaccati) ma il succo è che non ne godranno più i sindacati. Cgil, Cisl e Uil, tuttavia, hanno incassato il colpo senza fiatare. In privato maledicono la riforma, ma in pubblico non una sola dichiarazione contro. Qualcuno mugugna: «L’unico provvedimento con effetti immediati è quello contro di noi. Tutti gli altri, i controlli sugli appalti, i tagli ai costi della politica, rinviati a babbo morto. Strano, no?». Ma nessuno osa protestare davvero. E del resto, come si fa?

Nel paese dei privilegi per pochi e della crisi per molti, è più facile che i cittadini facciano la ola a un governo che rimanda al lavoro i sindacalisti piuttosto che schierarsi al loro fianco. Il caso Montecitorio, ad esempio, insegna: i dipendenti che protestano per il taglio ai loro (sontuosi) salari si sono ritrovati isolatissimi. Adesso fischiettano, non potendo fare molto altro. E insegna qualcosa anche il referendum sugli accordi integrativi dell’Alitalia che va verso l’intesa con Etihad; dei 13mila aventi diritto, solo 3.500 sono andati a votare. E sicuramente non perché gli altri erano già tutti in ferie.

Debiti PA, 500 milioni agli investimenti

Debiti PA, 500 milioni agli investimenti

Carmine Fotina Il Sole 24 Ore

Il governo prova ad accelerare sui pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione, attesi dalla scadenza del 21 settembre, giorno di San Matteo, indicato dal premier Matteo Renzi come termine per smaltire tutto l’arretrato. In quest’ottica ieri è stato firmato un protocollo di impegni tra ministero dell’Economia, Conferenza delle Regioni, Anci (Comuni), Upi (Province), Confindustria, Confagricoltura, Ance (costruttori edili), Rete imprese Italia, Consiglio nazionale dei commercialisti, Unioncamere, Abi (banche) e Cassa depositi e prestiti. In pratica tutte le parti in causa, ognuna delle quali dovrà favorire una velocizzazione dei processi, anche se ieri – va sottolineato – il Mef ha indicato come obiettivo lo smaltimento «entro il 2014» senza riferimenti al 21 settembre. 

Punto centrale del protocollo è anche l’impegno ad aprire nuovi spazi per pagare i debiti di parte capitale, finora penalizzati rispetto alla spesa corrente perché, come noto, oltre che sul debito pubblico incidono sul deficit. Non ci sono cifre nel protocollo, ma l’obiettivo sarebbe aggiungere ai circa 7,5 miliardi finora resi disponibili una tranche ulteriore – più vicina a 500 milioni che a 1 miliardo – attraverso nuove misure di allentamento del patto di stabilità interno. Il protocollo – ha commentato Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria – «è un segnale concreto che qualcosa si sta muovendo. Confindustria continuerà a seguire il tema con la massima attenzione e non sarà soddisfatta finché alle imprese non sarà pagato anche l’ultimo centesimo». «Una svolta politica rilevante – ha sottolineato l’Ance – per pagamenti che finora sono stati penalizzati». Un passo avanti anche secondo l’Anci, che invita però a risolvere il nodo strutturale «delle regole del Patto di stabilità interno». «Un’occasione, forse l’ultima, da non perdere» per Rete Imprese.
Sommando i vari provvedimenti emanati dagli ultimi governi (per ultimo il decreto Irpef) le risorse complessivamente stanziate ammontano, per il 2013, a 27,2 miliardi e, per il 2014, a 29,6 miliardi. In totale 56,8 miliardi. Finora, stando all’aggiornamento diffuso ieri, le risorse girate agli enti debitori ammontano a 30,1 miliardi, dei quali 26,1 miliardi sono già stati erogati ai creditori.
Per sbloccare le spese in conto capitale il Mef studia un mix di interventi. Ci sarà un nuovo allentamento del patto di stabilità interno e nel contempo si «verificherà» l’estensione anche a questo tipo di debiti del meccanismo di cessione crediti con garanzia statale. Si punta poi a riproporre anche per il 2015 la norma relativa al patto di stabilità verticale incentivato e a posticipare i termini previsti per il patto “orizzontale” tra le regioni.
Il documento comune nasce dalla consapevolezza di alcuni punti deboli. Diverse Pa locali non hanno richiesto le anticipazioni di liquidità, nonostante queste siano disponibili. Regioni, Province e Comuni si impegnano ora a «sollecitare gli enti rappresentati» su questo punto. Il percorso dei provvedimenti attuativi non sempre è stato celere e adesso il Mef si impegna «ad assicurare l’adozione di tutti gli atti previsti». Allo stesso tempo, l’Abi dovrà sensibilizzare i propri associati a mettere a disposizione delle imprese adeguate risorse per la cessione pro-soluto dei crediti, anche sfruttando il canale creato con il decreto Irpef (venerdì scorso è stata firmata la convenzione con il ministero dell’Economia). Dal canto suo, la Cdp assicura che sarà «adottata celermente» la convenzione quadro con l’Abi per consentire al sistema bancario di cedere alla stessa Cassa i crediti vantati nei confronti delle Pa e assistiti dalla garanzia dello Stato (e già ceduti dalle imprese alle banche).
Grande attenzione viene riposta anche sulla certificazione dei crediti, che le imprese devono presentare tassativamente entro il 23 agosto per far sì che scatti la garanzia dello Stato. «Il numero e il corrispondente ammontare delle istanze» presentate e di quelle rilasciate appare ancora basso, di qui l’impegno di tutte le associazioni di impresa coinvolte a «sollecitare i propri associati a presentare istanza di certificazione». Gli enti territoriali, a loro volta, dovranno assicurare rapidità nel rispondere alle istanze tramite la piattaforma elettronica del Tesoro e, «per quanto possibile, rafforzare la consistenza degli uffici anche nel periodo estivo». Il protocollo preannuncia la «tempestiva nomina» di commissari ad acta in caso di inerzia delle amministrazioni e prevede la creazione di “help desk” dedicati, sia a livello di Pa che di associazioni imprenditoriali, e un’attività di comunicazione per diffondere l’utilizzo della piattaforma elettronica.