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Per creare lavoro una legge non basta

Per creare lavoro una legge non basta

Massimo Riva – L’Espresso

Dice il ministro dell’Economia che le novità previste con la legge di Stabilità dovrebbero portare a 800 mila nuove assunzioni nel corso del prossimo triennio. Ne saremmo tutti oltremodo felici, anche perché l’Istat ha appena certificato che dal 2008 ad oggi sono andati perduti oltre due milioni di posti di lavoro soltanto nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni. Riassorbirne cosi tanti nell’arco di trentasei mesi si offre come una prospettiva entusiasmante. Forse anche un po’ troppo. perché c’è il rischio di alimentare speranze che potrebbero rivelarsi illusioni con ricadute negative sulla credibilità di un governo che, in realtà, qualcosa di buono e di utile per il rilancio della crescita economica sta facendo.

È fuor di dubbio, infatti, che almeno un paio di novità introdotte nella manovra per il 2015 dovrebbero avere effetti positivi in termini di creazione di posti di lavoro. Non solo i nuovi assunti a tempo indeterminato costeranno meno quanto a oneri contributivi ma le imprese potranno anche godere di un robusto sgravio dell’Irap proprio sul versante del lavoro. Perciò è senz’altro ragionevole pensare che il combinato disposto di queste due misure possa schiudere in ingresso quei portoni di fabbriche e uffici che da tempo sono aperti soltanto in uscita. Ma declamare cifre così imponenti come fa il governo è operazione politica temeraria anche perché l’esperienza storica indica che un rientro significativo della disoccupazione è possibile soltanto quando il tasso di crescita annuo si avvicina ad almeno un paio di punti percentuali, non agli stentati decimali previsti per l’anno venturo e seguenti. Non c’è impresa disposta ad assumere lavoratori perfino a costo zero se il mercato dei suoi prodotti non si rianima. In altre parole, se la domanda per consumi non riprende a ritmi vivaci.

E qui siamo a un primo punto dolente. L’orso della crisi dell’occupazione si sta rivelando un animale sempre più difficile da addomesticare con gli strumenti tradizionali e da parte di un singolo domatore. immaginare che oggi il mercato del lavoro possa essere rilanciato soltanto con interventi legislativi su fiscalità e oneri contributivi significa non aver compreso appieno la vastità e la profondità del problema. Per carità, in momenti difficili tutto serve: a cominciare da un buon bricolage legislativo come quello proposto dal governo. Ma con queste riforme si adempie una prima condizione, sicuramente necessaria e però anche del tutto insufficiente. In un sistema economico esposto alla combinata minaccia di una recessione sommata alla deflazione non si esce da una simile tenaglia – mortale per l’occupazione – senza produrre sforzi rilevanti sul versante degli investimenti, dapprima pubblici e a seguire privati.

E qui siamo al secondo, essenziale, passaggio. Oggi non esiste l’ipotesi di perseguire efficacemente la crescita economica da soli e in casa propria: non lo consente l’integrazione con il mercato unico europeo e ancor più la globalizzazione economica planetaria. Ovvero: l’Italia può risalire la china solo all’interno di un concerto europeo nel quale la musica deprimente del mero rigore contabile venga sostituita da uno spartito che preveda un piano di grandi investimenti collettivi e di rilancio della domanda interna.

Conta, dunque, poco che Parigi si ribelli al limite del tre percento sul disavanzo o che Roma voglia procrastinare l’ingresso nella gabbia del pareggio di bilancio. Fino a quando si incrociano le armi attorno alla maggiore o minore sacralità dei vincoli europei si continua a restare dentro il gioco degli idolatri di un codice di regole concepito e sottoscritto in tempi (ormai lontani) di benessere crescente per tutti. Oggi l’orizzonte è cambiato. L’obiettivo degli 800mila posti di lavoro declamato dal ministro Padoan può diventare realistico a una condizione su tutte prevalente: che qualcuno in Europa riesca a rovesciare il tavolo di una politica economica che, dietro il vessillo dell’euro forte e dell’austerità, sta rendendo tutti più poveri.

Riforme alla prova

Riforme alla prova

Giuseppe Turani – La Nazione

Giorgio Squinzi, che è un uomo prudente e presidente di Confindustria, di fronte alla manovra (annunciata) di Renzi arriva a esclamare: realizzato il nostro sogno. Esattamente l’opposto di come reagisce la Cgil di Susanna Camusso: manifestazione il 25 e poi, probabilmente, sciopero generale. La manovra, per come è stata spiegata, sembrerebbe perfetta (o quasi). Renzi pare avere convinto anche quelli dell’agenzia di rating Moody’s. Si tratta di 30 miliardi in uscita e in entrata, una manovrona quindi. Ma, soprattutto, non si vedono tasse o altri aumenti di balzelli

I 30 miliardi in entrata vengono recuperati sostanzialmente in due modi: un po’ di debiti in più (11,5 miliardi), nel senso che si alza il disavanzo, e dai tagli di spesa (13,3 miliardi, a carico di regioni, comuni, province e ministeri). In più ci sono altre piccole voci (lotta all’evasione, slotmachine, detrazioni, eccetera). I vari enti locali stanno già urlando, ma poiché sono dei noti spendaccioni qualche taglio va bene. In sostanza, tutto a posto. A patto che queste cifre diventino poi realtà vera. Tagliare 13,3 miliardi di spesa pubblica non è facile come dirlo. Soprattutto se va tutto a carico di ministeri ed enti locali. Il sospetto è che poi, in corso d’opera (come si suole dire) i 13,3 miliardi diventino magari solo cinque è forte. E un po’ spiace che i tagli avvengono ‘ritagliando’ i finanziamenti alla struttura pubblica esistente senza intaccarla: tutti sappiamo che c’è molto da sfoltire, ma qui si riducono solo un po’ i finanziamenti. Comunque, meglio di niente. O di una manovrina da 14 miliardi.

Interessante anche il modo in cui verranno spesi questi soldi. Le due voci più importanti sono: 10 miliardi per i famosi 80 euro e 6,5 miliardi per un’ulteriore riduzione dell’Irap. Poi c’è anche il no-contributi per i primi tre anni, quando un’impresa fa un’assunzione a tempo indeterminato. A sentire gli annunci di Renzi, quindi, non ci sono nuove tasse (anzi c’è una robusta riduzione) e invece ci sono sgravi e aiuti per il lavoro (e infatti lui ha gridato agli industriali: adesso non avete più scuse, assumete). Più che comprensibile, quindi, l’entusiasmo di Squinzi e degli imprenditori: per la prima volta non si parla di nuove tasse e, anzi, gliene vengono tolte un po’. Sull’altro fronte la Cgil della Camusso si dichiara invece totalmente insoddisfatta più che altro perché Renzi non rinuncia a cancellare il famoso articolo 18 e perché, a detta della Cgil, si andrebbe verso un’ulteriore precarizzazione del lavoro.

È questa la scossa di cui aveva bisogno l’economia italiana per rilanciarsi? No. Serviva molto di più. Soprattutto serviva mandare un segnale che la struttura della pubblica amministrazione cambia, che si chiudono un po’ di società locali e che si va a scavare a fondo nella spesa sanitaria delle Regioni, un noto luogo di sprechi e imbrogli. E magari, anche l’annuncio che la complicatissima struttura amministrativa dello Stato italiano veniva un po’ semplificata. Però, se quello che è stato annunciato verrà fatto davvero, siamo già sulla buona strada.

Ma le leggi restano insabbiate nella palude della burocrazia

Ma le leggi restano insabbiate nella palude della burocrazia

Antonio Angeli – Il Tempo

Hai voglia a dire riforme… le leggi ci sono, ma mancano i decreti attuativi, succede così nell’Italia della crisi: i provvedimenti vengano pure varati da Camera e Senato (che sta sempre là), ma se i ministeri non producono l’adeguato supporto normativo… le riforme restano al palo. Il problema non è certo recente, anzi, è di natura «archeologica»: ieri in una affollata conferenza stampa il coordinatore della Struttura di missione per il dissesto idrogeologico, Erasmo D’Angelis, ha annunciato di aver trovato un «tesoretto» destinato al risanamento del territorio, quattro miliardi di euro «persi» da anni, in alcuni casi da decenni, nei labirinti della burocrazia italiana.

Per far arrivare in porto tutti i provvedimenti dei governi della «grande crisi»: Monti, Letta e Renzi, sono necessari, in base agli ultimi dati, circa 700 decreti attuativi, come confermato in tempi recenti dallo stesso governo Renzi. Le Province, ad esempio, che per tutti sono morte e sepolte, hanno invece proseguito a stare là. La legge Delrio le avrebbe cancellate, ma senza i relativi decreti attuativi è come se nulla fosse accaduto. Il problema è semplice (e ampiamente dibattuto): il Parlamento, nella pratica, indica delle «linee guida», ma chi poi porta «nelle case di tutti» le riforme è la struttura ministeriale, cioè la burocrazia. Anzi, le burocrazie che, in Italia, sono proverbialmente in ritardo. In alcuni casi anche di anni.

Nel complesso, in base agli ultimi dati diffusi, ci sono ancora 258 provvedimenti amministrativi da adottare per rendere completamente operative le leggi varate dal governo Monti; 273, invece, per quelle del governo di Enrico Letta. A queste si aggiungono le norme necessarie alle riforme del governo Renzi che, nel frattempo, ne sta producendo altre, per un totale complessivo di 700 decreti attuativi mancanti all’appello. Con una curiosità: per attuare la riforma della della pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia sono necessari almeno 77 decreti attuativi. E i decreti attuativi provengono, necessariamente, dalla stessa pubblica amministrazione che deve, in qualche modo, mettere in atto la sua stessa riforma. Il governo Renzi ha certificato, nel suo «Monitoraggio sullo stato di attuazione del programma di governo», aggiornato al 7 agosto scorso, che il 62% dei provvedimenti legislativi varati dall’attuale esecutivo ha bisogno di ulteriori decreti per essere effettivamente messo in pratica. E questo perché meno della metà delle disposizioni (in tutto il 38%) si applica da sola: cifre alla mano su 40 provvedimenti solo 15 sono «autoapplicativi». In vista del traguardo della nuova legge di Stabilità, poi, mancano ancora all’appello provvedimenti attuativi della legge di bilancio del governo Letta. E per 25 di quei provvedimenti è bello che scaduto il termine entro il quale andavano adottati. Il «Decreto del fare» (quello di Letta, correva l’anno 2013) è rimasto insabbiato per circa la metà dei necessari decreti attuativi: su 79 ne sono stati adottati 40. Ne mancano ancora 39 per 12 dei quali sono anche in questo caso scaduti i termini temporali. Un «pasticcio burocratico», che ha radici profonde.

Proprio ieri è stata presentata a Palazzo Chigi la campagna istituzionale «Se l’Italia si Cura, l’Italia è più Sicura» con annesso il nuovo sito web italiasicura.governo.it, tutto legato all’attività delle Strutture di missione della Presidenza del Consiglio contro il dissesto idrogeologico. All’incontro c’erano Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Erasmo D’Angelis, coordinatore della Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche. «Finalmente voltiamo pagina – ha spiegato D’Angelis – e lo dobbiamo innanzitutto alle oltre 4.000 vittime di frane e alluvioni negli ultimi 50 anni. Stiamo mettendo fine a ritardi imbarazzanti ed abbiamo recuperato e stiamo riprogrammando la spesa di circa 4 miliardi, 2,3 contro dissesto e 1,6 per disinquinare fiumi e mare, grazie al decreto “Sblocca Italia”. Entro la fine del 2014 apriranno altri 650 cantieri per opere di sicurezza per 800 milioni di euro. Sono soldi che, insieme al ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti, al capo della Protezione Civile Franco Gabrielli e ai presidenti delle Regioni, stiamo finalmente trasformando in interventi in tutta Italia». Tutti fondi «insabbiati» da anni in paludi burocratiche. Intanto «abbiamo iniziato a spendere queste risorse che abbiamo trovato», ha detto D’Angelis.

Ma a parecchi tutto questo non va giù: «Il decreto legge Sblocca Italia dà il via libera ai saldi di fine stagione per il territorio e le risorse del nostro Paese – è la denuncia che arriva dal Wwf – Deroghe alla normativa ordinaria di tutela del paesaggio e dell’ambiente, mani sul territorio e sul demanio dei privati e dei concessionari autostradali, depotenziamento delle procedure di valutazione ambientale, tutto sotto la regia del governo centrale che emargina regioni, enti locali e cittadini grazie all’estensione della strategicità a intere categorie di interventi senza alcuna idea sulle priorità». E anche dal Fai, il Fondo Ambiente Italiano, e dal suo presidente, il noto archeologo Andrea Carandini, arrivano dure critiche.

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Filippo Caleri – Il Tempo

La riforma del lavoro c’è. O meglio ci sarà. Nella notte tra mercoledì e giovedì scorso il sì del Senato al Jobs act, la legge delega al governo per cambiare le regole che disciplinano il mercato dell’impiego, ha messo il primo tassello per rendere la disciplina in materia più flessibile. Non è una rivoluzione copernicana ma non appena i decreti delegati saranno emanati sarà possibile di modificare ad esempio le mansioni in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale (da individuare «sulla base di parametri oggettivi») e mantenendo il livello salariale. Non solo. Arriverà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che significa che le tutele previste dall’articolo 18 saranno meno forti per i neoassunti. Non significa che l’occupazione ripartirà, visto che per creare posti di lavoro servono gli investimenti. E quelli non si fanno per legge. Ma sicuramente gli imprenditori non avranno più scuse sulla pesantezza del quadro regolamentare quando devono assumere. Intanto ieri è arrivato il plauso dell’Ocse a Renzi. Il via libera del Senato al Jobs Act «è uno sviluppo molto positivo». Se «pienamente implementato», il provvedimento «può contribuire a mettere il Paese su un sentiero di crescita più dinamica» ha detto Il segretario generale dell’Ocse, Gurria. Ecco le misure principali.

Neossunti
Per i nuovi assunti ci sarà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e cioè in relazione all’anzianità. Si va all’eliminazione del reintegro per i licenziamenti economici, che viene sostituito dal solo indennizzo certo e crescente con gli anni di servizio.

Licenziamenti
Resta la possibilitò del reintegro per i licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare “particolarmente gravi”, le cui fattispecie saranno poi specificate nel decreto delegato. Questo sempre per i neoassunti. Il reintegro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resta per i licenziamenti discriminatori.

Contrati stabili
L’obiettivo del Governo è quello di promuovere il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata» rendendolo «più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti». Questo comporta un riordino delle tipologie contrattuali, con l’abolizione delle forme «più permeabili agli abusi e più precarizzanti, come i contratti di collaborazione a progetto». Per questo si punta a definire un Testo organico semplificato dei contratti e rapporti di lavoro.

Cambiare mansioni
Sì alla revisione delle mansioni del lavoratore nel caso che parta la riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ma va basata su «parametri oggettivi», per «la tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita» ma anche “economiche”, con limiti alla modifica dell’inquadramento. Nella revisione delle mansioni anche la contrattazione aziendale e territoriale può individuare “ulteriori ipotesi”.

Il Governo assume
Arrivano 1,5 miliardi aggiuntivi per i nuovi ammortizzatori sociali. L’obiettivo è di estenderli a una platea di lavoraori più larga. In tutto sul piatto ci sono 11-12 miliardi. Con questi maggiori fondi si punta anche sulle politiche attive e su una maggiore tutela della maternità.

Salario minimo
Resta l’obiettivo di introdurre «eventualmente anche in via sperimentale» il compenso orario minimo anche per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti nazionali.

Ferie da regalare
Confermata la possibilità per il lavoratore che ha ferie in eccesso di cederle a colleghi che ne abbiano bisogno per assistere figli minori che necessitano di cure.

Solidarietà
Si punta a semplificare e ad estendere il campo di applicazione dei contratti di solidarietù potenziandone l’utilizzo in chiave “espansiva”, per aumentare cioè l’organico riducendo l’orario di lavoro e la retribuzione del personale.

Non c’è scampo, le riforme vanno imposte dall’alto

Non c’è scampo, le riforme vanno imposte dall’alto

Ester Faia – Panorama

Gli Stati Uniti d’America hanno attraversato molte crisi dell’unione prima di raggiungere il punto attuale. Lo stesso succede e succederà per l’Europa fino al momento in cui l’unione sarà completa. Il referendum scozzese dimostra che nessuno Stato o regione appartenente a un’unione vuole tornare indietro: i costi sono troppo alti e le persone imparano a capirsi meglio stando insieme. Si può solo andare avanti. La situazione attuale con alcuni paesi, come l’Italia e la Francia, che non riescono a mantenere gli impegni di bilancio e altri come la Germania, che hanno un surplus eccessivo di partite correnti, è solo un’altra crisi di questo processo di integrazione.

Quando la crisi finanziaria ha mostrato la debolezze del sistema europeo, in cui il controllo dei rischi così come i meccanismi di risoluzione degli istituti di credito in crisi non erano omogenei tra i paesi dell’area, la soluzione adottata è stata la creazione dell’unione bancaria. Un passo avanti che ha indotto molte banche a ricapitalizzare e rendersi più sicure. Ma per capire quale dovrebbe essere il prossimo passo (che non è necessariamente l’unione fiscale, non attuabile in questo momento secondo il principio per il quale non ci può essere tassazione senza rappresentanza) bisogna analizzare le ragioni degli attuali squilibri di bilancio.

La ragione per cui alcuni paesi soffrono squilibri nei bilanci pubblici e altri nei bilanci delle partite correnti è paradossalmente la stessa. La mancanza di efficienza nella produzione di beni e servizi. Nel caso dell’Italia questo genera scarsa crescita facendo quindi scendere le entrate fiscali e salire il rapporto debito-pil. Nel caso della Germania l’inefficienza del settore dei servizi tiene bassa la domanda interna e spinge i tedeschi a investire all’estero: è il flusso di capitali verso l’estero che tiene alto il surplus delle partite correnti. Problemi diversi ma con la stessa diagnosi: la mancanza di efficienza. Per migliorare quest’ultima c’è bisogno di riattivare il processo avviato dal Trattato di Lisbona (noto anche come trattato di riforma) rimasto dormiente fino a oggi in quanto nessuna crisi aveva reso palese la necessità di questo ulteriore passo verso l’integrazione.

Le riforme necessarie per liberalizzare il mercato di beni e servizi o per migliorare e uniformare l’investimento in educazione sono difficili da attuare tramite il normale processo politico. I governi tendono a evitare parti delle riforme che possono scontentare le loro piattaforme elettorali. Ma se le riforme sono indicate dall’alto, così come e avvenuto per la moneta unica, che ha fermato i processi inflattivi di alcuni paesi, o l’unione bancaria, che ha già indotto molte banche a ricapitalizzare, allora la loro attuazione diventa più facile. Non solo, ma il coordinamento tra paesi nell’attuare le riforme aiuterebbe a ridurre la sensazione di disparità tra cittadini europei. Riforme imposte a un solo paese per volta provocano reazioni negative nei residenti. Allo stesso modo riforme attuate senza sincronia temporale possono garantire ad alcuni paesi posizioni dominanti in alcuni settori. Il coraggio richiesto ai politici per andare verso il processo di integrazione (riducendo quindi il loro potere) è più forte e più duraturo del coraggio necessario per attuare le riforme stesse. Queste ultime sono state spesso fatte ma anche modificate a breve distanza per esigenze di elettorato; al contrario dal processo di integrazione non si torna indietro.

Ora lo scambio tra stimoli e riforme

Ora lo scambio tra stimoli e riforme

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

In Europa la disoccupazione sfiora il 12%, un livello doppio di quello americano, e l’economia rischia di fermarsi di nuovo. In un contesto tanto degradato nessun vertice europeo dedicato all’occupazione può essere liquidato come un puro esercizio rituale. Bisogna sforzarsi di guardare sotto il pesante velo dialettico, sotto la cortina di impegni poco concreti, e ragionare su che cosa davvero bisognava aspettarsi nel giorno in cui il governo italiano ha presentato la sua rilevante riforma del lavoro.

Per capirlo, aiuta una frase pronunciata da Mario Draghi ad agosto: «La strada per tornare all’alta occupazione è un insieme di politiche composto da politiche monetarie, fiscali e riforme strutturali a livello sia nazionale sia europeo». Per ritrovare la crescita serve cioè che gli auspicati interventi della Bce siano contestuali ad altre scelte politiche: il coordinamento delle politiche di bilancio, con i paesi in migliore condizione che offrono più stimolo e gli altri che rispettano le regole; il rilancio della domanda attraverso il finanziamento europeo degli investimenti; e riforme strutturali possibilmente coordinate. Dal vertice sull’occupazione, in una congiuntura economica tanto difficile, bisognava attendersi che progressi su tutti questi fronti fossero presi con un impegno comune. Bisognava sollecitare la Germania a utilizzare i propri margini di bilancio, esaminare la concretezza del piano Juncker sui 300 miliardi di investimenti e dell’impegno della Bei, verificare la solidità delle politiche per l’occupazione giovanile.

Le dichiarazioni dei capi di governo a conclusione del vertice non hanno rassicurato. La Germania si sa non intende offrire stimoli fiscali, inoltre, come altri, osserva con giustificato sospetto gli altisonanti 300 miliardi di investimenti promessi da Bruxelles. Il presidente Hollande ha negato addirittura di aver parlato di politiche di bilancio. Se al frontone del tempio mancano diverse colonne, spiccano ancor più quelle che lo tengono in piedi: Renzi si è presentato con una importante riforma del mercato del lavoro e ha assicurato il mantenimento degli impegni fiscali onorando la credibilità italiana. Se l’obiettivo del vertice era questo, allora è andata come doveva.

La credibilità italiana è importante ed è stato bello sentirla riconoscere dai partner. Ma è difficile non pensare che la realizzazione delle riforme strutturali da parte dell’Italia fosse l’occasione giusta per chiedere il conto anche ai paesi partner. Una riforma che rende “dinamici” i rapporti di lavoro è nell’interesse italiano qualunque sia lo stato dell’economia, ma è meglio che avvenga in un contesto di crescita e non di paura recessiva che afferra tutta l’Europa. Questo scambio politico tra stimoli e riforme è rimasto poco chiaro. Eppure è in questi termini che può essere interpretato lo stesso uso dei margini di bilancio da parte del governo italiano: quest’anno il deficit strutturale peggiora dello 0,9% con un effetto di espansione fiscale pari allo 0,3% del pil rispetto alla restrizione prevista dagli accordi con Bruxelles, a fronte però di riforme strutturali che prendono forma.

Forse anche per chi lo ha convocato il vertice di ieri non rappresentava l’ultimo appuntamento possibile per mettere a fuoco una strategia europea di ritorno alla crescita. Ma in tal caso non è stato opportuno dedicarlo a un tema tanto doloroso agli occhi dei cittadini come la lotta alla disoccupazione, né farne l’unico appuntamento del nostro semestre di presidenza. Per combattere la piaga della mancanza di lavoro sarà necessaria una strategia molto più ambiziosa, che ponga al centro i doveri reciproci di tutti i paesi nella costruzione di quello che Draghi chiamerebbe un “policy mix” per la crescita e che comporta avanzamenti molto coraggiosi sulla strada dell’integrazione europea: la formulazione di una politica fiscale coordinata dei paesi dell’euro area; il coordinamento delle riforme strutturali; un serio impegno sugli investimenti anziché il solito irritante sventolio di promesse di carta.

Fa parte delle difficoltà culturali europee non saper valutare la politica economica come un insieme, anziché come la collezione poco allineata degli impegni nazionali. Eppure è stato solo quando i paesi si sono saputi ritrovare attorno a progetti di integrazione, come l’unione bancaria o i fondi di solidarietà, che è stato possibile muovere tutte le politiche che possono salvare l’euro “a qualunque costo”.

Le riforme diventino europee

Le riforme diventino europee

Franco Bruni – La Stampa

La proposta «job-Italia» esposta ieri da Luca Ricolfi su questo giornale parte dal fatto che la forte tassazione sul lavoro (il «cuneo») causa disoccupazione. Per aver più impatto propone di concentrare la detassazione sui primi anni di lavoro dei nuovi assunti con salari medio-bassi. Aumentando gli occupati e i redditi permette al fisco, gradualmente, di compensare il costo della detassazione. Se potessimo permetterci l’aumento temporaneo del deficit che la proposta implica, varrebbe la pena di tentare. Stimolare la convenienza a produrre e occupare, cioè l’offerta, è indispensabile perché ogni nuovo alito di domanda produca vera crescita. Il sussidio temporaneo di job-Italia sarebbe coerente col bisogno più generale di una riforma fiscale che riduca la tassazione sull’impiego di lavoro. Il modello internazionale di sviluppo economico sta privilegiando l’impiego di capitale al posto del lavoro: i regimi di tassazione dovrebbero attutire questa tendenza. Ridurre il cuneo non basta, ovviamente.

In Italia serve una riforma del lavoro del tipo di quella sulla quale il governo ha chiesto ieri la fiducia in Senato. Fra gli aspetti della riforma che sembrano emergere, in modo ancora disordinato e incerto, due vanno sottolineati per il legame con le esigenze poste dai cambiamenti nel mercato mondiale del lavoro. Il primo è il mutamento dell’assistenza ai disoccupati, il passaggio della difesa a oltranza del posto di lavoro all’aiuto al disoccupato, alla sua riqualificazione e reindirizzo a nuovi lavori. La tecnologia e la globalizzazione hanno già sconvolto le gerarchie di competitività, l’obsolescenza dei modelli di produzione, la distribuzione della forza e della capacità di sopravvivenza delle imprese. È una rivoluzione destinata forse ad accelerare nei prossimi anni: guai se non favoriamo il ricambio delle imprese, la mobilità del lavoro, la sua capacità di acquisire nuove competenze e adattarsi a nuove opportunità. Per questo aiuto al buon funzionamento del mercato del lavoro occorrono molte risorse. È grave che non si riesca a trovarle più rapidamente tagliando le spese pubbliche improduttive.

Se occorre spendere per assistere la disoccupazione, la qualifica e la crescita professionale del lavoratore avvengono soprattutto quando rimane occupato. Perciò 1’altro aspetto da sottolineare della riforma del governo sono le «tutele crescenti» del nuovo contratto a tempo indeterminato. Un aspetto collegabile anche alla proposta del job-Italia che qualcuno potrebbe trovare poco orientata a favorire la continuità dell’impiego: se diventasse più facile licenziare, dopo i quattro anni del sussidio che Ricolfi propone i nuovi posti di lavoro sarebbero a rischio. Ma se le tutele crescenti consistessero in un periodo molto più lungo, durante il quale va gradualmente aumentando l’esborso che l’impresa deve sopportare per risolvere il contratto a tempo indeterminato, gli incentivi dell’impresa cambierebbero. Le converrebbe offrire al lavoratore un rapporto che cresce in qualità e coinvolgimento e che gli permette di qualificarsi e riqualificarsi con continuità, in modo che la probabilità di doverne fare a meno si riduca parallelamente al crescere del costo del suo licenziamento. Anche gli incentivi del lavoratore cambierebbero. Ma il meccanismo delle tutele crescenti sarebbe mortificato se non si minimizzasse la possibilità di reintegri disposti dal giudice: l’importanza di «superare l’art. 18» è maggiore di quanto abbiano detto lo stesso Renzi e la Confindustria e non ha molto a che vedere col limitato numero di casi di reintegro oggi constatabili che, fra l’altro, non tiene conto di coloro che non sono stati occupati o licenziati (o sono finiti nel ghiaccio della cassa integrazione) a causa dell’eventualità del reintegro. La combinazione di detassazione alla job-Italia e di «tutele crescenti» potrebbe dunque aiutare a conciliare stabilità e flessibilità dell’occupazione. Ancor più se si accompagnasse a nuovi investimenti nella formazione scolastica e universitaria e nei suoi rapporti col mondo del lavoro e i suoi continui cambiamenti.

Ma lo sforzo di riforma nazionale non basta. L’articolazione e la dimensione del mercato del lavoro italiano saranno sempre meno adeguati per soddisfare chi offre e chi cerca lavoro nel nostro Paese. Dobbiamo pensarci parte di un mercato più ampio, in primo luogo europeo. Qualcuno ha detto che servirebbe un job-compact. L’Europa deve muoversi più velocemente nell’integrare i sistemi nazionali che regolano il lavoro e il Welfare e nell’affrontare, unita, i problemi occupazionali posti dalla tecnologia e dalla globalizzazione. L’incontro svoltosi ieri a Milano ha incoraggiato l’Italia a riformare ma non è andato lontano nell’impegnarsi in un vero progetto europeo. Speriamo sia l’avvio di un lavoro comunitario più coraggioso e lungimirante. I cambiamenti del mondo non si fermano e la disoccupazione, più o meno mascherata, potrebbe travolgere un’Europa che non sa esprimere una strategia che indirizzi le politiche nazionali del lavoro.

Tanto rumore per nulla

Tanto rumore per nulla

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Cominciamo col dire che non è vero che il governo ha varato una riforma del lavoro, come oggi qualcuno vorrà fare intendere. Al di là della propaganda, Renzi ieri si è solo fatto dare dai senatori – con la forza, mettendo cioè la fiducia sul voto – l’autorizzazione a pensare una riforma del lavoro, che è cosa utile ma ben diversa. Siamo quindi lontani sicuramente mesi, probabilmente anni, da beneficiare eventualmente di effetti concreti che nuove norme, una volta varate davvero, dovessero produrre.

Per ora del contenuto della riforma conosciamo solo le linee guida allegate alla richiesta di fiducia: parliamo di un libro dei sogni generico e già n partenza depotenziato dell’effetto-svolta: non c’è traccia infatti, nelle parole, dell’abolizione dell’articolo 18. All’ultimo, quindi, Renzi non se l’è sentita di andare allo scontro vero e decisivo con l’ala sinistra del suo partito e conla Cgil: non cita l’articolo 18 ma anche sì, nel senso che nei fatti il divieto di licenziare potrebbe saltare per altre vie. È la solita storia: a noi Renzi piace nei preliminari: deciso, enuncia principi liberali e striglia i post comunisti, annuncia sfracelli, litiga con i sindacati e dice di rottamare il vecchiume. Sulla riforma del lavoro, per esempio, ci aveva quasi convinto. Il problema è che quando si arriva al dunque l’uomo svicola, divaga e si fa risucchiare dal suo mondo, che tra l’altro lui detesta (ben ricambiato).

La verità è che ieri, in un gioco delle parti probabilmente concordato in ogni dettaglio, la sinistra ha superato senza gravi danni uno scoglio non da poco. Si salvano il premier, il governo, il partito, la legislatura e, scommetto, alla fine anche i sindacati, perché ognuno può sostenere di averle cantate agli altri. Il problema è che, al momento, gli unici a non salvarsi sono il mondo del lavoro e quello dell’impresa, che restano ben inchiodati a riti e regole del secolo scorso. Un mondo che non c’è più, difeso in Senato, con le solite sceneggiate, oltre che dai comunisti, dai grillini e dai leghisti. Che tanto a fare casino, anche contro l’interesse dei tuoi elettori, un bel titolo sui giornali lo porti sempre a casa. È un lavoro anche questo.

Jobs Act: altro che Thatcher, questo è riformismo europeo

Jobs Act: altro che Thatcher, questo è riformismo europeo

Giorgio Tonini – Europa

Alla fine, dopo settimane nelle quali l’attenzione si era concentrata sul dibattito interno al Partito democratico, tra gli stucchi e gli ori di palazzo Madama, è andato in scena l’ennesimo atto del copione Grillo-contro-Renzi, apparentemente il più duro e aspro, in effetti il più favorevole al premier e al Pd. È vero, i grillini sono riusciti a rovinare lo spot mediatico dell’approvazione in prima lettura del Jobs Act a Roma, in contemporanea con lo svolgimento del vertice europeo sul lavoro a Milano. Il voto di fiducia, originariamente previsto nel pomeriggio di ieri, è slittato alla tarda serata. Ma per riuscire nel suo intento, il gruppo di opposizione più arrabbiato ha dovuto mandare in onda un reality autolesionistico: la dimostrazione plateale, prodotta dal solito, sguaiato e a tratti squadristico ostruzionismo d’aula, dell’assoluto vuoto di proposte e dell’altrettanto clamorosa assenza di visione del movimento grillino, rispetto al nodo politico cruciale del nostro tempo, quello della riorganizzazione delle regole che presiedono al mercato del lavoro, in vista di un rilancio della crescita e dell’occupazione.

Il disegno di legge delega proposto dal governo, discusso per mesi in commissione e ora trasformato in un maxiemendamento, sul quale è stata posta la questione di fiducia, ha finito così per risaltare ancor più come una via al tempo stesso obbligata e creativa, concreta e coraggiosa. I consensi raccolti da Renzi al vertice di Milano, a cominciare da quelli del presidente del parlamento europeo, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, stanno lì a dimostrarlo. In effetti, il disegno di legge Poletti rappresenta una svolta, culturale prima ancora che politica, sul tema cruciale della regolazione del mercato e dei rapporti di lavoro.

Attraverso il Jobs Act, governo Renzi e Partito democratico propongono al paese un nuovo patto per il lavoro, basato su un nuovo compromesso tra impresa e lavoratori, tra flessibilità e sicurezza. L’inadeguatezza dell’attuale sistema di regole, nato sull’onda dell’autunno caldo di quasi mezzo secolo fa, beninteso una pagina gloriosa della nostra storia, ma per l’appunto parte di un mondo che non c’è più, quello della fabbrica taylorista, è da tempo sotto gli occhi di tutti, almeno di tutti coloro che vogliano guardare con occhio limpido alla realtà.

Si tratta di una inadeguatezza che ha prodotto nel tempo esiti drammatici: siamo in coda a tutte le classifiche per livello di produttività, per livelli salariali netti, per tasso di occupazione. Siamo da anni e anni il paese che cresce meno quando gli altri crescono e che arretra più gravemente quando gli altri arretrano. Dunque, non c’è tempo da perdere, c’è da stringere, subito, un patto nuovo. Il Jobs Act è questo, un nuovo compromesso, che rimuova, da un lato, gli ostacoli che si sono ammassati negli anni a quella che Schumpeter chiamava la «distruzione creativa»: vecchie imprese e vecchi posti di lavoro che muoiono perché non servono più, mentre se ne creano di nuovi, per rispondere a nuovi bisogni, perché solo in questo modo si generano efficienza e produttività, in definitiva reddito e ricchezza per il paese. E che dia vita, dall’altra parte, ad una nuova generazione di diritti e di strumenti di tutela, pensata per una nuova generazione di lavoratori, che sempre meno potrà limitarsi a pensare se stessa nel posto di lavoro e sempre più dovrà organizzare la sua lunga marcia nel mercato del lavoro.

Per questo il vecchio articolo 18, quello del 1970, in parte sopravvissuto nella riforma Fornero, non serve più, mentre è necessario e urgente dar vita al welfare che ancora ci manca: un sistema universale di assicurazione contro il rischio disoccupazione, insieme ad un sistema di ricollocazione del lavoratore che perde il lavoro, verso un altro lavoro, attraverso l’organizzazione dell’incontro tra la domanda e l’offerta. Altro che thatcherismo, questa è la nuova socialdemocrazia europea, quella della quale il Pd fa parte. Da leader.

Serve la riforma, non uno scalpo

Serve la riforma, non uno scalpo

Federico Fubini – La Repubblica

Dopo la fiducia sul Jobs Act in Senato, archiviato il vertice di Milano, Matteo Renzi pub fermarsi un attimo a misurare lo spread che forse oggi conta di più. Non è finanziario, è politico e psicologico. E aiuta a capire chi alla fine riuscirà, e chi no, a districarsi in questa interminabile crisi dell’euro. Ciò che rivela quello spread è che non ce la stanno facendo tanto i Paesi che, per dirla nel gergo di Bruxelles, “hanno fatto le riforme”. Ne stanno uscendo meglio quelli che, piuttosto, si sono detti dall’inizio: questa crisi è frutto in primo luogo dei nostri limiti, ce la siamo creata con le nostre mani, dobbiamo innovare su noi stessi per liberarcene. A restare indietro sono gli altri, quelli che per anni si sono esercitati a dare sempre e solo la colpa agli altri – a chiunque altro – e ora affrontano trasformazioni importanti senza sapere perché, o verso dove.

Dev’essere questa la sfumatura che mette oggi l’Irlanda e la Spagna in traiettoria di ripresa, ma la Francia e l’Italia ancora in mezzo alla palude. Ovunque in questi quattro Paesi si sentono argomenti anche molto validi su ciò che la Germania e la Banca centrale europea dovrebbero fare e non fanno. Ma c’è una qualità della reazione mentale allo shock che fa la differenza, ancor più se declinata sulla scena che abbiamo sotto gli occhi: i voti di fiducia in Senato su una riforma ancora imprecisata dei contratti di lavoro permanenti; le pressioni e le attese a Berlino, i giudizi di Bruxelles, le tensioni nella Bce sul futuro di un potenziale ordigno finanziario chiamato Italia; e nel Paese, la fine dell’illusione che il tempo sia comunque dalla nostra parte.

A Roma c’è un premier sempre più costretto a muoversi fra questi campi di forza, ciascuno intento a catturarlo nella propria gravitazione. Nel governo tedesco si è ormai convinti («sulla base dell’esperienza», nota il ministro Wolfgang Schaeuble) che i Paesi fragili affrontano il cambiamento solo se vincolati a farlo. Può essere un modo più o meno elegante per dire che solo la troika funziona su gente come noi, o per alzare l’intensità della sorveglianza e delle relative condizioni, o magari solo il segnale che la Germania non ha fretta: può lasciare l’Italia nella sua agonia economica, finché non capirà che deve cambiare strada.

Poi c’è il cantiere aperto della riforma del lavoro, con il passaggio drammatico di ieri. È senz’altro legato alle pressioni europee, perché Renzi di colpo ha affrontato l’articolo 18 e la disciplina dei licenziamenti dopo aver spiegato a lungo che queste cose contavano poco. Ha cambiato rotta solo dopo i suoi contatti estivi con i leader europei. Il risultato è che ieri, con François Hollande e Angela Merkel a Milano, a Roma è andato in scena il più strano dei voti di fiducia: il Senato ha delegato il governo a riformare i contratti sulla base di un testo che non ha una sola parola sul punto più delicato, il regime dei licenziamenti economici e disciplinari. In realtà Giuliano Poletti, il ministro del Lavoro, ha delineato in aula un percorso: nei nuovi contratti (non negli esistenti) i licenziamenti economici non prevedono il reintegro per decisione giudiziaria, mentre nei casi disciplinari la possibilità di reintegro sarà delimitata. E sarebbe ingeneroso sostenere che la delega votata ieri è in bianco, perché il testo contiene un disegno equilibrato: dal welfare alle politiche attive di formazione e collocamento, fino alla pulizia nella giungla delle forme di precariato, i passi avanti si vedono e dovevano arrivare già anni fa, decisi magari da chi oggi protesta.

Resta però l’impressione di un colossale corto circuito fra ciò che si fa e le ragioni per le quali si cerca di farlo. Forzando i tempi e il dibattito, facendo leva sul timore di molti senatori di andare a casa se cade il governo e si va al voto, il premier ha preferito mettere parti del suo stesso partito spalle al muro in nome di un simbolo: l’articolo 18. Anche la transizione ai negoziati sui salari in azienda è sul tavolo, è anche più importante dell’articolo 18, ma semplicemente non se ne parla perché come totem funziona piuttosto male. Non riescono a brandirlo né i riformatori, né i loro nemici. Pier Carlo Padoan ripete spesso che le riforme approvate fanno bene all’economia solo se su di esse «c’è consenso: non sono uno scalpo da offrire, ma un’innovazione da spiegare e da condividere. Quella del lavoro, così com’è, ha molti aspetti positivi. È ora di parlarne, e mettere scalpi, simboli e totem nel posto che li attende da tempo: il solaio.