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Varrebbe la pena andare controvento?

Varrebbe la pena andare controvento?

di Giuseppe Pennisi*

Nelle due ultime settimane, la banche centrali dell’eurozona, degli Stati Uniti e del Giappone hanno continuato a seguire la stessa strategia di tassi d’interesse bassi od addirittura negativi. Lars O. Svensson dell’Università di Stoccolma esamina il costo di “andare contro il vento” (Leaning Against the WIND- LAW è l’acronimo inglese) nel paper “An Analysis of  Leaning Against the Wind: Are Cost Larger Also with Less Effective Macro-Prudential Policy?” – Un’analisi dell’andare contro il vento: i costi sono maggiori con una politica macroprudenziale meno efficace?) messo on line tempestivamente come NBER Working Paper No. w21902.

Andare contro vento o LAW vuole dire una politica monetaria caratterizzata da tassi d’interesse più alti degli attuali. I suoi benefici principali sarebbero una minore crescita del debito pubblico reale ed una minore probabilità di una nuova crisi finanziaria ma avrebbe costi in termini di un più elevato tasso di disoccupazione ed una maggiore inflazione: Come è noto , tra gli obiettivi principali dell’eurozona ci sono un abbassamento della disoccupazione ed un aumento, invece, di un’inflazione rasoterra. I costi, secondo Svensson sarebbero ancora maggiori in caso di crisi. Tali costi addizionali di “andare controvento/LAW” sono stati in gran misura ignorati dalla letteratura. Il paper include stime empiriche: esse suggeriscono che in caso di crisi, i costi sarebbero nettamente superiori ai benefici anche in caso di una politica monetaria non neutrale e tale da incidere sul debito reale in via permanente. Inoltre, una politica macro-prudenziale meno efficace ed un boom del credito risulterebbero in un costo ancora maggiore.

Quindi, andare controvento/LAW non sarebbe la ricetta appropriata, anche in termini di riduzione del debito.

Un’indicazione alternativa viene proposta da Antonio Afonso e Marcello Geada Alcantara dell’Università di Lisbona nel lavoro Foreign Debt Crisis and Debt Mutualizsation (ISEG Economics Department Working Paper No. WPxx/2016/DE/UECE). Altro paper divulgato in questi giorni. A loro avviso la strada maestra per uscire dalla trappola del debito pubblico consiste nella emissione di titoli di differente classe o colore: quelli blu coprirebbero il debito sino al 60% del Pil, quelli gialli debito tra il 60% ed il 90% del Pil e quelli rossi debito superiore al 9% del Pil. Anche ove non ci fosse una formale “mutualizzazione” del debito dell’eurozona, pochissime banche centrali nazionali potrebbero emettere titoli blu, ma gli Stati dell’area dell’euro avrebbero un forte incentivo a poter emettere titoli gialli con gli altri Statu dell’eurozona, specialmente se per essere collocati i “loro” titoli nazionali richiedono alti rendimenti.

Tuttavia, non bastano le misure monetarie. Occorre privatizzare e liberalizzare.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Crisi e salari in Italia

Crisi e salari in Italia

di Giuseppe Pennisi*

Quale è stato l’andamento dei salari in Italia da quando è iniziata la crisi? Gran parte dell’informazione giornalistica è necessariamente di parte in quanto basata su dati parziali in cui spesso il breve periodo viene estrapolato in medio e lungo termine.

Quindi è importante un lavoro della Banca d’Italia on line dalla fine della prima settimana di marzo: l’Occasional Paper No 289 Wages and Prices Setting in Italy During the Crisis: The Firms Prespectives. Ne sono autori Francesco D’Amuro, Silvia Fabiani, Roberto Sabbatini, Raffaella Tartaglia Porcini, Fabrizio Venditti, Elena Viviano e Roberto Zizza – tutti del servizio studi dell’istituto di Via Nazionale. Un lavoro di équipe che si basa su due indagini condotte del network sulle dinamiche dei prezzi e dei salari del Sistema Europeo di Banche Centrali (Sebc) , una “rete”, quindi di economisti dei servizi studi delle Banche centrali nazionali dell’eurozona tutti impegnati in ricerche su temi analoghi, utilizzando metodi uniformi, nonché metodi di rilevazioni e questionari armonizzati per analizzare le più importanti trasformazioni nei mercati del lavoro nazionali. La “rete” ha condotto due indagini empiriche (Stato per Stato) nel 2007 e nel 2009 ed una terza nel 2013, i cui risultati sono disponibili da pochi mesi. Il lavoro pubblicato on line riguarda solamente l’Italia. È auspicabile che vengano diffusi anche gli altri studi Paese.

Il lavoro prende l’avvio da una considerazione specifica all’Italia: il debito sovrano ha colpito severamente l’economia italiana, causando un collasso della domanda interna, un aumento dell’incertezza e difficoltà di accesso alla finanza internazionale. Le imprese hanno risposto riducendo l’input di lavoro (aggiustandone i margini sia di intensità – orari di lavoro – sia di livello di occupazione) piuttosto che riducendo i salari nominali o reali. Tuttavia, le trattative e la prassi di determinazione delle retribuzioni sono state influenzate dal quadro economico generale: la proporzione di lavoratori in imprese che sono ricorse a blocchi dei salari, ed anche a riduzioni, è gradualmente aumentata dal 2010 sino a riguardare il 17% dei lavoratori dipendenti nei settori presi in esame dall’inchiesta. Inoltre, numerose imprese hanno adattato le loro strategie di prezzi aggiustandoli più frequentemente che nel passato (spesso abbassandoli a ragione di una maggiore concorrenza).

Le nuove tecnologie  inducono a prospettare un aumento della produttività del lavoro e, quindi, dei salari reali? Non sembra suggerirlo l’esperienza americana, quale analizzata da Chad Syverson delle Booth School of Business della Università di Chicago nello studio Challenges to Mismeasurament: Explanation for the US Productivity Slowdown.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro