sblocca italia

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Grazie ad un incrocio fortunato di eventi i Paesi dell’euro hanno oggi la possibilità di attuare quella svolta che è necessaria per uscire dal lungo periodo di stagnazione economica in cui viviamo da quasi sette anni. Il governo italiano potrebbe avere un ruolo fondamentale nel renderlo possibile.

Venerdì scorso Mario Draghi ha detto chiaramente che per ricominciare a crescere sono necessarie riforme strutturali dal lato dell’offerta, accompagnate però da una ripresa della domanda, in particolare dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese. E che questo la Bce non può farlo, almeno non da sola. La prima mossa spetta ai governi che, oltre a fare le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, devono abbassare le tasse riducendo al tempo stesso la spesa pubblica. E se le due cose non possono procedere alla medesima velocità, perché le tasse si abbassano in un giorno mentre per tagliare le spese serve un po’ più tempo, non bisogna strapparsi le vesti se il deficit temporaneamente cresce. Forse anche la Germania se ne sta convincendo. Infatti (anche se questa non è una buona notizia) i dati recenti lasciano intravvedere un rallentamento dell’economia tedesca che potrebbe rendere Angela Merkel meno ostile a provvedimenti concordati volti ad aumentare la domanda interna nell’eurozona.

Domenica a Parigi il presidente Hollande ha chiesto al suo primo ministro, Manuel Valls, di sostituire i membri del governo che si opponevano alle riforme e ai tagli di spesa. Il cambiamento più significativo è avvenuto al ministero dell’Economia e dell’Industria dove Emmanuel Macron (36 anni), il più liberista dei consiglieri di Hollande, ha sostituito Arnaud Montebourg (56 anni), un socialista del secolo scorso, alfiere dell’intervento dello Stato nell’economia, strenuo oppositore della globalizzazione e apertamente ostile alla Bce. Una svolta che ricorda il marzo del 1983 quando Mitterrand, dopo due anni di illusioni, cambiò radicalmente politica, si affidò a Jacques Delors e salvò la sua presidenza. Anche a Parigi si comincia ad accettare che «il liberismo è di sinistra».

A Roma Matteo Renzi si è impegnato a varare oggi, il giorno prima del vertice europeo di domani, la riforma della giustizia e il decreto cosiddetto sblocca Italia. Ma la riforma più importante riguarda il mercato del lavoro. Renzi ha promesso che si adopererà affinché entro il mese di settembre il Parlamento vari il disegno di legge delega proposto dal suo governo, che riprende le idee del senatore Pietro Ichino riscrivendo da zero lo Statuto dei lavoratori. E quindi modificando anche il famoso articolo 18.

Come non sprecare questo incrocio fortunato? L’Italia ha una responsabilità particolare, e non solo perché il vertice europeo di domani sarà presieduto da Matteo Renzi. Siamo (con l’eccezione della Grecia) il Paese dell’euro con il debito più elevato e quindi quello che più di ogni altro deve convincere che la qualità delle riforme attuate giustifica un allentamento temporaneo dei vincoli sul deficit, condizione necessaria per poter abbassare subito le tasse sul lavoro. Le parole «qualità» e «attuate» qui sono cruciali. Le riforme non devono essere annunci ma leggi approvate. E a queste leggi devono seguire in tempi rapidi i decreti che le rendono operative, la qualità appunto. Ad esempio a 5 mesi dalla legge che ha abolito le Province (Legge 56 del 7 aprile) i decreti che ne ripartiscono le funzioni fra Stato, Comuni e Regioni non sono ancora stati varati, cosicchè quella riforma per ora rimane una norma senza effetti. Anche se va riconosciuto al premier di aver abolito il livello elettivo dei Consigli provinciali.

Uscire dalla riunione Ue di domani senza un accordo sulla necessità di sostenere la domanda interna significherebbe rimandare almeno di un altro anno la ripresa dell’eurozona. Raggiungere quell’obiettivo dipende anche dalle decisioni che prenderà oggi il Consiglio dei ministri, dalla determinazione con cui Renzi ripeterà l’impegno a varare il Jobs Act entro settembre e dall’esempio che egli saprà offrire al nuovo governo di Parigi, che si trova ad affrontare problemi analoghi.

Essere convincenti sulle riforme e sul percorso che vogliamo seguire per uscire dalla recessione deve essere l’obiettivo di Renzi nel vertice europeo. Se egli invece lascerà che la riunione si perda in una trattativa defatigante sui nuovi commissari e sul ruolo che avrà Federica Mogherini a Bruxelles, avrà perso un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più. È improbabile che domani vengano già varati provvedimenti a livello europeo per far crescere la domanda. Ma sarebbe importante che una prima discussione cominciasse.

Raccontare la verità sui conti in dissesto

Raccontare la verità sui conti in dissesto

Massimo Tosti – Italia Oggi

A mettersi nei panni di Matteo Renzi c’è da sudare freddo. Domani il consiglio dei ministri dovrebbe varare le riforme della scuola e della giustizia e, soprattutto, lo Sblocca Italia, il provvedimento destinato a ridare slancio all’economia. Ma il ministro competente Pier Carlo Padoan incontra difficoltà pressoché insormontabili nel reperimento delle risorse necessarie per lo sblocco. L’impressione è che per troppi anni (più probabilmente decenni) i governi abbiano rinunciato a mettere ordine nei conti dello Stato, con il risultato che oggi è persino difficile raccapezzarsi fra gli impegni di spesa e le prospettive di entrata. È un po’ come se una famiglia avesse perso il controllo della propria situazione patrimoniale, accendendo mutui e firmando cambiali molto al di sopra delle prospettive di guadagno: a un certo punto i nodi vengono al pettine (e gli ufficiali giudiziari bussano alla porta), ma nessuno in famiglia ha un quadro realistico della situazione. Carlo Cottarelli (responsabile della spending review) sta cercando di capirci qualcosa e sta compiendo un lavoro apprezzabile (ma non si sa quanto apprezzato dal presidente del consiglio): l’ultima indagine l’ha riservata alle aziende partecipate, con il risultato di mettersi le mani nei capelli verificando gli sprechi e i debiti accumulati da amministratori distratti (o incapaci, o preoccupati soltanto di assumere amici e amici degli amici in aziende inefficienti e strangolate da un personale pletorico e raccomandato).

Cottarelli si comporta come un tutore al quale il tribunale ha affidato il compito di rimettere in ordine i conti di un capofamiglia appena deceduto che ha lasciato un’eredità confusa e gravata di debiti. Il problema è che il governo non può accettare l’eredità incassata con beneficio di inventario. Ma è già positivo che si stia dando da fare per cercare di correggere i vizi del passato. Probabilmente ci vorranno anni (altro che mille giorni) per raddrizzare i bilanci e rimettere l’Italia in cammino verso la ripresa. L’unico appunto serio che si può rivolgere a Renzi è che, fino ad oggi, non ha avuto il coraggio di raccontarci tutta la verità. E pensare che Monti, l’economista, vedeva la luce in fondo al tunnel.

Numeri, numerini e numeri spaziali

Numeri, numerini e numeri spaziali

Giorgio Santilli – Il Sole 24 Ore

Tornato a Palazzo Chigi, Matteo Renzi si è messo subito al lavoro sugli oltre 100 articoli che gli uffici gli hanno lasciato domenica scorsa dopo il lavoro, durato tutto agosto, di raccolta delle norme del decreto sblocca-Italia dai vari ministeri. A Renzi il testo deve aver fatto la stessa impressione che ha fatto a noi: un corpaccione con molte cose interessanti ma senza un’anima e senza un euro aggiuntivo rispetto a poche, vecchie risorse riprogrammate. Se il decreto vuole essere la risposta ai moniti agostani di Draghi sul rilancio degli investimenti o il biglietto da visita per il Consiglio Ue del prossimo weekend, c’è ancora molto lavoro da fare. Le risorse disponibili ammontano al momento agli 1,2 miliardi del fondo revoche per vecchie infrastrutture mai partite e forse 2,5 miliardi del Fondo sviluppo coesione mai utilizzati. Forse perché gli uffici ministeriali non danno affatto per scontata questa ulteriore posta e l’incontro Renzi-Padoan di lunedì non ha tranquillizzato.

A voler essere generosi si possono inserire nell’orizzonte dello sblocca-Italia un piano per il dissesto idrogeologico che sta cercando di raccogliere almeno un miliardo da revoche (anche qui) di vecchie opere mai partite e un piano depurazione da 1,6 miliardi che non è mai decollato e potrebbe farlo, ammesso che funzioni la ricetta sempreverde dei supercommissari.

I 43 miliardi di cui parla il governo si conferma un numero spaziale, infondato: una farsa come ha scritto il direttore di questo giornale nell’editoriale del 7 agosto. Il governo inserisce l’attivazione di alcune opere infrastrutturali «già finanziate» ma da sbloccare che sono state quantificate con leggerezza in 30 miliardi, ma che a ben guardare ne possono valere 12, intendendo con questo l’avvio entro 12-18 mesi di opere che produrranno poi lavori per 12-15 miliardi in un arco di vita delle opere di 5-6-8-10 anni.

Sulla stima reale di quanto valgano queste opere basta forse rimandare al lavoro puntuale, opera per opera, fatto dal Sole 24 Ore lo scorso 10 agosto e ricordare qualche opera multimiliardaria inserita a sproposito: l’autostrada Orte-Mestre, che pesa per 10,4 miliardi e vedrà forse con il decreto di fine mese aggirare il parere contrario della Corte dei conti alle defiscalizzazioni concesse dal Cipe per 1,9 miliardi, ma dovrà poi fare la gara per individuare il concessionario (oppure confermare il promotore), portare il progetto a livello definitivo, superare un lungo iter autorizzativo e trovare banche e finanziatori per fare in tempi rapidi un closing e poi avviare i lavori. Probabilità che l’opera parta nel giro di un anno o un anno e mezzo: zero. Per altre opere ci sono in quel piano errori grossolani (la ferrovia Messina-Catania-Palermo è conteggiata per 5.250 milioni, cioè il costo totale dell’opera, mentre l’opera ha disponibili solo 2,4 miliardi e il lotto da sbloccare vale 900 milioni). Lasciamo correre opere tutt’altro che facili da sbloccare come la gronda autostradale di Genova (3,2 miliardi) o opere che non hanno nulla da sbloccare come il piano per Fiumicino (2,1 miliardi).

Da premesse tanto incerte nasce quel totale di 43 miliardi. Il discorso andrebbe riportato dentro una cornice più seria e più fattiva: meno numeroni inutili di cui è morta la legge obiettivo, più risorse reali e comunque una selezione di obiettivi strategici per sbloccare piani e opere realmente prioritari. Un’anima, insomma, per evitare il ripetersi di sblocca-Italia che non hanno sbloccato l’Italia e l’hanno invece condannata al più basso Pil d’Europa.

Una partecipata su 4 con rendimento negativo

Una partecipata su 4 con rendimento negativo

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Una società partecipata dagli enti locali su quattro presenta un’indice di redditività negativo rispetto al capitale investito (Roe). È quanto emerge dalla mappa aggiornata al 2012 contenuta nella banca dati del dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia che è stata pubblicata dal commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, a pochi giorni dal probabile avvio dell’operazione di potatura della giungla delle partecipate con il decreto “Sblocca Italia” in arrivo venerdì. L’operazione dovrebbe essere poi completata con la prossima legge di stabilità. Anche se resta ancora in piedi l’ipotesi (al momento meno gettonata) di un intervento in un’unica soluzione a ottobre con la “ex Finanziaria”.
La mappa diffusa da Cottarelli è tra l’altro parziale visto che i bilanci 2012 di 1.075 società sono risultati “off limits” per il Mef, che è riuscito a catalogare 5.264 partecipate di cui 1.424 con un rendimento negativo nel rapporto percentuale tra risultato netto e mezzi propri. Le municipalizzate che presentano un patrimonio negativo o nullo sono 143: a guidare questo elenco pubblicato come gli altri sul sito della spending review è la Cmv Spa di Venezia che gestisce il casinò (segno meno di 20,3 milioni di euro), seguita da Fiera di Roma Spa (-15,7 milioni di euro) e da Cotral, partecipata della Regione Lazio e del Comune di Roma (segno meno per circa 15 milioni). Nel censimento rientrano 1.242 società non operative (molte già in liquidazione) e 86 con incoerenze di bilancio. Oltre alle 1.424 partecipate con una redditività in negativo, la mappa presenta 2.708 società con un Roe superiore a zero ma inferiore a 10 e 1.172 con una forte redditività (Roe a due cifre). Utilizzando il parametro della grandezza patrimoniale emerge che le società censite con un capitale fino a 10mila euro sono solo 130, di cui 67 con un Roe negativo; quelle con un capitale tra 10 e 100mila euro sono 1.182 (una su tre con redditività sotto lo zero) mentre le partecipate tra i 100mila euro e 1 milione sono 1.662 (408 con Roe in negativo). A superare la soglia del milione di capitale nel 2012 sono state 2.290 società (612 con un Roe con segno meno).
«La pubblicazione di indici che misurino l’efficienza delle partecipate – si afferma sul sito web dedicato alla spending – può costituire un importante stimolo al miglioramento delle attività di queste società». Cottarelli non arriva, almeno sul sito, ad alcuna conclusione ma fa notare come il Roe (Return on equity) sia «un fondamentale indice di efficienza».
Quanto all’operazione per dare il via allo sfoltimento della giungla delle partecipate, sollecitato ieri anche da molti sindaci, il governo punta sulla quotazione in Borsa (Mercato telematico italiano) delle società che oggi gestiscono in house servizi di trasporto pubblico locale, di igiene e ambiente, di raccolta dei rifiuti. L’obiettivo è molteplice: privatizzazione per attrarre nuovi capitali finanziari e capacità industriali, destinare le somme incassate dagli enti locali a riduzione del debito e al rilancio degli investimenti, ridurre gli sprechi e dare soluzione innovativo a un regime di monopoli in house che si trascina da dieci anni. La carota che Palazzo Chigi ha studiato per incentivare i comuni ad aderire è il prolungamento delle attuali concessioni, che verrebbero a scadenza già il prossimo anno, con varie ipotesi di gradazione fino a un massimo di 22 anni e sei mesi (termine presente nel regolamento comunitario 1370/2007).

Il testo del decreto sblocca-Italia diramato da Palazzo Chigi domenica scorsa conferma le indiscrezioni delle settimane scorse (si veda Il Sole 24 Ore del 20 agosto) ma aspetta il vaglio decisivo del Mef, che potrebbe anche preferire il veicolo della legge di stabilità per intervenire sulle partecipate. La quotazione può avvenire con due modalità per accedere alle agevolazioni: gli enti locali collocano il 60% del capitale oppure tengono il 50,01% delle azioni, collocando una quota inferiore e destinando la quota restante a un partner industriale scelto con gara europea. Il presidente dell’Anci, Piero Fassino (si veda l’intervista al Sole 24 Ore del 25 agosto) ha già detto che la modalità è interessante, anche se se ne devono ovviamente precisare meglio molti aspetti. La relazione allegata alle norme diramate da ultimo domenica scorsa conferma che l’operazione potrebbe portare a un maggior valore per gli enti locali dell’ordine dei dieci miliardi se tutti aderissero.
Nell’ultimo testo una novità interessante riguarda l’attribuzione dei poteri regolatori nel settore dei rifiuti all’Autorità dell’energia elettrica, il gas e i servizi idrici, come successo tre anni fa proprio per l’acqua. Oltre alle norme principali ci sarebbero per gli enti locali numerose altre agevolazioni in caso di fusione di aziende di modeste dimensioni, lo svincolo delle somme incassate dal patto di stabilità interno e anche un contributo per interventi infrastrutturali della stessa dimensione della dismissione fatta, fino a un limite complessivo di 300 milioni per il 2014 e 300 per il 2015.

Più poveri e più tassati

Più poveri e più tassati

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana il governo darà via al cosiddetto Sblocca Italia. Nomi altrettanto evocativi sono stati dati a decreti precedenti. Nonostante ciò l’Italia è ferma al palo. Il governo Renzi ha fatto un passo in più rispetto ai predecessori: ha restituito agli italiani (o meglio solo a una certa fascia ben identificata) 10 miliardi di euro, in forma di riduzione fiscale. Non è poco. Eppure il Pil, il nostro reddito, è diminuito.

Purtroppo il motivo è semplice: gli italiani non si fidano più. Cerchiamo di essere un po’ più specifici. Ogni riduzione fiscale dovrebbe generare una maggiore propensione media al consumo. E per questa via creare maggiore prodotto e reddito. Si spende di più, le aziende così vendono e assumono. La riduzione fiscale di Renzi (prevista anche per gli anni prossimi) serve a poco per il Pil e molto per chi comunque la incassa e gode di un extrareddito disponibile. Non alimenta la nostra produzione per due ragioni di fondo.

La prima la spiega il presidente della Confedilizia nelle pagine interne. Le diverse patrimoniali sulla casa ci hanno reso più poveri per duemila miliardi. La seconda è che (come dimostra il dibattito estivo) siamo incerti sul futuro fiscale che ci attende: nuove imposte, varate dai passati governi, ma solo oggi in vigore, contributi vari sulle pensioni, riforma delle regole sulle detrazioni fiscali rendono lo scenario tributario a 12-18 mesi fosco. Ebbene nessuna riduzione fiscale avrà mai un effetto positivo sulla produzione se chi ne gode si sente, al tempo stesso, più povero e in prospettiva più tassato.

Si può uscire da questa impasse ? La prima strada è quella di riscrivere un contratto fiscale con gli italiani (tutti, senza distinzione di censo) dicendo loro che le patrimoniali sugli immobili verranno riportate alla situazione pre 2011. Prendiamo atto che quelle imposte hanno impoverito gli italiani più di quanto abbiano arricchito lo Stato. Si dovrebbe poi concentrare lo sforzo di riduzione fiscale sulle imprese. L’elargizione degli 80 euro a dieci milioni di italiani (come bene aveva previsto nel 1958 Milton Friedman) ha un effetto moltiplicatore sul Pil molto inferiore di quello che avrebbe una riduzione fiscale più forte a un milione di imprese.

La sindrome del 51 per cento

La sindrome del 51 per cento

Alessandro De Nicola – La Repubblica

È di lunedì la notizia che nel pacchetto di provvedimenti contenuto nel Decreto Sblocca Italia, all’ordine del giorno del consiglio dei ministri del 29 agosto, troverà posto una norma che consentirà la quotazione di RayWay. La società è proprietaria degli impianti di trasmissione del segnale televisivo, ha un fatturato di 220 milioni di euro, ma in ogni caso il socio pubblico non potrà scendere sotto il 51% del capitale sociale mantenendo quindi il controllo della stessa.

Nello stesso giorno è apparsa una lunga intervista al sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti, il quale, cantata la messa della richiesta di flessibilità alla Commissione europea, e intonata la litania dell’articolo 18 che non si tocca, ha ammesso che per abbattere il debito pubblico italiano forse gli avanzi primari non bastano più e bisogna quindi cominciare a vendere massicciamente. Rispolverando un’idea che circola da anni ha quindi proposto la creazione di un fondo dove immettere il patrimonio pubblico, mobiliare ed immobiliare, e poi cedere il 49 per cento delle quote del fondo stesso. Questa operazione forse abbatterebbe un po’ di debito pubblico ma sarebbe la tomba della privatizzazione di qualsiasi azienda statale. Se ad esempio venisse infatti conferito al fondo il 30% delle azioni con il quale il Tesoro – direttamente o indirettamente – controlla Enel, Eni o Finmeccanica, si sarebbe creata una mega scatola cinese che, dopo l’ingresso dei privati, consentirebbe allo Stato di controllare il 51% di un fondo proprietario di un 30% di azioni e quindi l’investimento con il quale si comanderebbe nelle tre società sopra citate sarebbe pari al 15,3 % del loro capitale sociale. Un capolavoro di pubblicizzazione di risparmio privato.

Peraltro questa sindrome del 51%, ma sarebbe meglio definirla del comando a tutti i costi, è ormai incardinata nei piani di tutti gli ultimi governi.

Non son passati due mesi dalla molto deludente quotazione in borsa di Fincantieri, le cui azioni sono state vendute al minimo della cosiddetta forchetta di prezzo, vale a dire 78 centesimi, e che nel frattempo hanno perso un altro 15% di valore. Anche in questo caso (e nonostante i contrari desideri dell’amministratore delegato), il flottante è un misero 27,5% del capitale, quasi tutto in mano al cosiddetto “parco buoi”, i piccoli risparmiatori, in quanto gli investitori istituzionali hanno sottoscritto un misero 10% di quanto è stato venduto. Ora, i motivi dell’insuccesso sono molteplici, ma molto probabilmente se fosse stata messa all’asta la maggioranza di controllo, difficilmente non si sarebbe trovato un compratore a prezzi anche migliori.

Il prossimo candidato alla privatizzazione sono Le Poste, anche qui solo per il 40%, e le altre vendite previste, dall’Enav a Cdp Reti, non prevedono cessioni di maggioranze. Anzi, in attesa del super-fondo di Rughetti, attraverso l’approvazione di una perniciosa e maldestra riforma del diritto societario che introduce la possibilità di azioni a voto multiplo e abbassa la soglia per l’obbligo di lanciare un’Opa sulla totalità delle azioni al 25%, il Tesoro potrà vendere pacchettini di azioni delle sue quotate rimanendo saldamente al timone.

Intendiamoci, è naturale che la classe politica, traendo essa alimento dal potere, cerchi di conservare il controllo di più aziende possibili. È la logica sia delle burocrazie che dei politici: rendersi influenti se non indispensabili utilizzando soldi non propri, ma del contribuente.

Quello che sorprende è che l’opinione pubblica, tartassata e spesso priva di servizi pubblici decenti, consenta tutto questo, non riuscendo a collegare i meccanismi del cervello che da una parte si indignano per i miliardi buttati in Alitalia e dall’altra si bevono la favola degli asset “strategici”.

Orbene, è vero che ci sono delle esigenze di sicurezza nazionale che non possono essere ignorate: nessuno vorrebbe che gli impianti di RayWay, da dove passano le comunicazioni della polizia, fossero controllati dalla famiglia Assad, per dire. Ma per questo esiste la regolamentazione che consente, ad esempio, alle industrie della difesa americane (che producono cosucce sensibili), di essere tutte quotate e controllate da privati.

Poi ci sono le solite lamentazioni sulla “svendita” dei gioielli di famiglia. Attenzione, quella della svendita è la più grossa bufala in circolazione. Secondo gli studi effettuati lo Stato ci ha guadagnato praticamente sempre dalle privatizzazioni (lo sconto concesso in sede di quotazione in media è stato minore di quello dato dalle imprese private), come dimostra anche l’ultimo caso di Fincantieri, il cui prezzo di mercato è ora inferiore a quello di vendita. Persino Telecom fu venduta a valori molto più alti di quelli attuali. Fu poi malgestita? È innegabile, ma il Tesoro ci ha guadagnato.

Le privatizzazioni, attirano capitali stranieri, competenze e creano sinergia all’interno di gruppi multinazionali. Certamente, esse sortiscono i loro effetti migliori quando il mercato viene contemporaneamente liberalizzato. Ma qui basti osservare che i mercati meno liberalizzati sono appunto quelli in cui c’è un monopolista o un’impresa dominante pubblica e per il resto si tratta già di aziende che agiscono in contesti concorrenziali (da Eni a Fincantieri).

Il governo, almeno a parole, sembra ancora credere all’analisi fatta dal commissario alla spesa Cottarelli relativa alle migliaia di società municipalizzate da accorpare e vendere al più presto. Ebbene, si vuole fare la voce grossa col comune di Roccasecca e contemporaneamente sognare Fondi-Monstre che consegnino un potere enorme ad un piccolo gruppo di mandarini di Stato?

Liberare le energie e le professionalità presenti all’interno del perimetro pubblico servirà non solo ad alleviare il peso del debito pubblico, ma a svecchiare e modernizzare il paese nel senso che, a parole, i giovani che ci governano reputano necessario. Come primo passo si liberino perciò della sindrome dei loro padri.