scuola

Giuseppe Pennisi – Consigli a Renzi: le tre mosse che valgono più dello sblocca-Italia

Giuseppe Pennisi – Consigli a Renzi: le tre mosse che valgono più dello sblocca-Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Agli economisti e ai commentatori economici spetta di essere criticamente da stimolo, specialmente in una situazione come quella di oggi. Gran parte dei commenti sull’ultimo Consiglio dei ministri sono positivi. E non possono non esserlo dato che, secondo il comunicato di palazzo Chigi e gli interventi del Presidente del Consiglio e dei principali Ministri competenti per le materie trattate (non si conoscono ancora i testi dei provvedimenti), sono stati affrontati e verosimilmente risolti alcuni nodi della giustizia (specialmente di quella civile) e dell’investimento pubblico. Tuttavia, occorre chiedersi se: a) è stata data una risposta adeguata alle aspettative suscitate; b) si è tenuto conto del peggioramento della situazione economica italiana (quale risulta dalle statistiche più recenti); e, soprattutto, c) cosa può essere fatto di concreto e di attuabile nelle prossime settimane nel predisporre la Legge di stabilità.Le aspettative suscitate riguardano non solamente il vasto comparto della scuola (per il riassetto del quale ci è stato chiesto di pazientare solo alcuni giorni), ma soprattutto le inefficienze dell’azione pubblica quali risultanti del Rapporto Cottarelli (soprattutto nel comparto del socialismo municipale e regionale), abilmente centellinate dal servizio stampa di palazzo Chigi ai giornali e, quindi, all’opinione pubblica. La situazione economica riguarda l’evidente scivolamento dell’Italia dalla più lunga recessione del dopoguerra e una fase di deflazione in cui rischiamo di avvitarci su noi stessi perdendo ogni anno un po’ di reddito reale (sia nazionale, sia familiare, sia individuale).Non conosco personalmente Matteo Renzi, ma non nego di provare simpatia per questo quarantenne (alla prese con problemi gravissimi) che si atteggia a trentenne e utilizza le metodiche di comunicazione dei ventenni nella convinzione (vera o presunta) di avere esiti positivi, in tal modo, anche sugli “umori” degli ottantenni. La conferenza stampa (dal “gioco del gelato” all’ultima slide) è stato un piccolo capolavoro di quella che un tempo si chiamava “persuasione occulta”. Ha probabilmente diminuito il divario tra attese e risultati, ma i problemi restano poiché in sostanza l’esito è stato un modesto rilancio dell’investimento pubblico (ridotto, nel lasso degli ultimi dieci anni, di due terzi per rapporto al Pil) e una velocizzazione della giustizia civile, che avverrà solo se si supereranno le resistenze di varie oligarchie.Se gli esiti sono questi, ipotizzando che tra brevissimo verranno sciolti (e bene) i nodi sulla scuola, cosa deve entrare nella Legge di stabilità per tirarci fuori dalla deflazione? L’Italia ha poche frecce al proprio arco. Quelle monetarie sono in mano alla Banca centrale europea ed è da dubitare che le possa utilizzare vista l’opposizione di molti paesi (non solo la Germania) e la necessità della preliminare revisione del proprio regolamento (che la obbliga a non fare superare più del 2% l’anno la crescita del tasso armonizzazione dell’indice dei prezzi al consumo). Quelle di bilancio sono spuntate dalla decisione “politica” di contenere l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni entro il 3% del Pil anche se, giuridicamente, nella situazione di grave recessione (e di deflazione), si potrebbe superare temporaneamente il vincolo.Al Governo resta, essenzialmente, la messa in atto di misure per ridurre la spesa pubblica e renderla più efficiente (alleggerendo così quella che è una vera oppressione fiscale e regolamentare) e una strategia dell’offerta. Come? In primo luogo, i provvedimenti della spending review richiedono una cornice che può essere inclusa nella riforma della Costituzione (in discussione in parallelo alla Legge di stabilità). Si potrebbe introdurre nella Carta il fatto che: a) che tutte le leggi (e regolamenti e circolari varie) siano “a termine” (una “sunset regulation” generalizzata) e non possano essere estese con marchingegni quali il “mille proroghe” per impedire il formarsi di un Himalaya di norme (la fonte principale di sprechi e inefficienze); b) le società in disavanzo per più di tre esercizi del socialismo municipale (e regionale, nonché di quel che resta di quello provinciale) vengano messe in liquidazione forzosa, con commissari provenienti da regioni differenti da quelle in cui l’azienda ha la sede sociale.In secondo luogo, serve un’energica strategia dell’offerta basata sulla liberalizzazione dei mercati delle merci e dei servizi per spingere imprese grandi e piccole a essere più competitive, e quindi più produttive. Ci vuole una terapia shock che azzeri resistenze settoriali e morda davvero.In terzo luogo, occorre tenere conto del “convitato di pietra”, il fardello del debito pubblico che frena da anni la crescita e aggrava ora la deflazione. Non mancano proposte: prima di chiudere i battenti del Cnel si potrebbe incoraggiare un confronto, con esperti e Parti sociali, tra le varie proposte sul tappeto per giungere a un programma concreto.
Renzi, l’economia e la storia della costruzione dei volenterosi

Renzi, l’economia e la storia della costruzione dei volenterosi

Mario Sechi – Il Foglio

Splende il Sole, arriva l’alluvione. E’ venerdì 29 agosto, alle dieci in punto l’Istat apre la diga per far defluire gli ultimi dati sull’economia italiana. E’ il gong che segnala l’apertura dell’Armageddon contabile. Mezz’ora dopo il botto del cannone del Gianicolo (alle 12 in punto, sparo a salve dell’obice progettato nel 1914 dalla Skoda per l’Imperial Regio Esercito Austro-Ungarico dal Palazzo del Quirinale) decolla un comunicato: “Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto questa mattina al Quirinale il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan”. Routine? Sì e no. Sì perché è imminente il Consiglio dei ministri; no perché pochi minuti dopo (ore 12 e 55) compare un altro dispaccio che fa lampeggiare le spie del sub-sonar: “Il Presidente Napolitano ha avuto con il Ministro dell’Economia uno scambio di vedute sulle prossime occasioni di chiarimento e di intesa a livello europeo (ad esempio in occasione della prossima seduta dell’Ecofin) per il rilancio della crescita dovunque in Europa. Nella ricognizione si sono considerate attentamente le importanti indicazioni contenute nel discorso pronunciato dal Presidente della Bce, Mario Draghi, a Jackson Hole”.Letto bene? Ecofin. Crescita. Draghi. Politica. Problema. Soluzione. E’ il segno che la situazione italiana si sta deteriorando? Sì, ma il nocciolo della faccenda è l’ormai religiosa fiducia riposta in Draghi, quello che nella copertina ice-cream dell’Economist tira via l’acqua a secchiate dalla barca europea. Basterà? Vedremo. Sul taccuino restano gli scampoli di un pazzo agosto, con tratti d’imprudenza psichedelica: Renzi mercoledì 27 agosto ci casca con il tweet del mattino, ore 6 e 20: “Non male questo fine settimana: giustizia, sblocca Italia, nomine europee, poi scuola e #millegiorni #italiariparte #ciaovacanze”’: Acme anticipatorio deluso quando la scuola sparisce da Twitter il venerdi alle ore 6 e 52: “Oggi giustizia e sblocca Italia. Domani vertice europeo. Lunedì la presentazione ufficiale #millegiorni con obiettivi e sito #italiariparte”. Missing in action, come il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. 

Sembra tutto più semplice sabato 23 agosto quando Renzi sventaglia al settimanale Tempi una raffica di ultimatum: “E’ l’Italia che aiuta l’Europa, non l’Europa che aiuta noi. Togliamo il Paese ai soliti che vanno nei salotti buoni. All’Italia serve lo spirito del maratoneta”. Gajardo. E poi? La settimana è andata avanti con altro passo e spasso. Lunedì (25 agosto) Renzi inaugura l’hashtag #ciaovacanze con tanto di foto di Palazzo Chigi all’alba: “Buon lavoro a chi torna oggi in ufficio #ciaovacanze“ e il ministro dell’Economia Padoan si presenta alle 17 per conferire con il premier. Alle 18 e 26 esce da Piazza Colonna e si capisce che non c’e un euro da spendere o quasi. E poi ci sono le crisi internazionali e Renzi all’ora dei tg parla con il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, chiacchierata di modesta entità che spazia “dall’Africa al Medio Oriente”, così informano i bollettini d’agenzia ai quali ormai manca solo un tocco poetico, un sobrio “Dall’Alpi alle Piramidi/dal Manzanarre al Reno”. Martedì 26 agosto alle 10 in punto il cambio della bicicletta governativa s’inceppa nella lingua di Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia che dà una martellata sulla prescrizione: “Il processo deve avere una durata ragionevole. Una paralisi della prescrizione al primo grado comporterebbe in Italia un processo di secondo grado e di Cassazione infinito”. Non ha tutti i torti, chi tocca i fili della giustizia resta fulminato. In fase post-prandiale sul Moleskine resta impresso lo scatto d’orgoglio del militante. Festa dell’Unità, lettera del segretario Renzi: “Le priorità sono chiare. Non accettiamo lezioni”. Sempre tosto. Ma alle 17 e 26 una velina di Palazzo Chigi fa suonare i sistemi d’allarme: “Le bozze dello Sblocca-Italia che stanno circolando sono scadute”. Ultima pagina del taccuino, nota a margine: “Yogurt legislativo”. Sto per chiudere il pezzo, è venerdì pomeriggio, il Consiglio dei ministri è riunito, sul telefonino lampeggia un tweet che mi ha inviato il banchiere d’affari Guido Roberto Vitale: “Urge sostenere Renzi nella sua lotta per le riforme”. Siamo alla coalizione dei volenterosi.

Il lavoro la priorità

Il lavoro la priorità

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Dopo giorni passati a strologare sui contenuti del dialogo Renzi-Draghi a Città della Pieve, ci ha pensato il presidente della Bce a dare qualche indizio in più: «La Bce – ha detto nel suo intervento a Jackson Hole – non può sostituirsi ai governi che devono fare le riforme». E la «riforma decisamente prioritaria è quella del mercato del lavoro». Non è dato sapere come il tema sia stato affrontato nel dettaglio nell’incontro con Renzi, ma questo è il Draghi-pensiero. Ed è difficile non condividerlo se si guarda alle differenti performance sull’occupazione nei vari Paesi europei interessati dalla crisi. Con gli Stati che hanno introdotto per tempo una maggiore flessibilità nel proprio mercato del lavoro che fanno registrare la risposta migliore in termini di tassi di disoccupazione.

Eppure è proprio sul lavoro che si registrano i ritardi maggiori del riformismo di Renzi. Impostata a gennaio, in piene vacanze natalizie e con al Governo ancora Enrico Letta, la delega sul Jobs act è ancora lontana dal via libera parlamentare. Doveva essere approvata a luglio dal Senato, poi la maggioranza ha deciso di farla slittare. Si riprenderà a settembre, ma le divisioni nella maggioranza sull’articolo 18 (e non solo) rendono più che concreto il rischio di un ulteriore rinvio. Si tratta, tra l’altro, di un disegno di legge delega, che rinvia di fatto gran parte della riforma ai successivi decreti delegati. E qui la lista d’attesa è lunga, come dimostra l’aggiornamento della periodica inchiesta di Rating 24 sui provvedimenti attuativi. Nuovi ritardi possono dunque assommarsi ai vecchi, lasciando il surreale dibattito agostano sull’articolo 18 come l’ennesima espressione dello sterile riformismo parolaio di cui si alimenta la parte peggiore della politica italiana.

Il Jobs act è stato ed è l’atto originario del rifomismo renziano. E il pressing delle imprese ha portato all’importante primo risultato della revisione per decreto della legge Fornero sui contratti a termine. Ma poi le priorità della maggioranza sono inopinatamente diventate altre. Alla ripresa dei lavori parlamentari è bene che i fari tornino ad accendersi sulla riforma delle riforme. Non perché lo dice Draghi. Ma perché lo dicono i numeri dei Paesi che hanno riformato il loro mercato del lavoro.

I numeri, certamente, della Germania del pacchetto Hartz che – attraverso i mini-lavori, le politiche attive, la flessibilità degli orari e la moderazione salariale – ha conosciuto il più basso tasso di disoccupazione dalla riunificazione con il 5,5% nel 2012. Ma anche gli esempi, ancor più significativi, di alcuni dei Paesi che più hanno risentito della crisi, come l’Irlanda e la Spagna.

Dublino, dopo aver molto sofferto sul piano occupazionale la prima fase della crisi, quella legata ai crack finanziari, ha risposto molto meglio nella seconda (debiti sovrani) grazie all’approvazione di un pacchetto di riforme del lavoro sotto il programma Ue-Fmi a partire dal novembre 2010. Madrid, invece, con il suo rigido dualismo del mercato del lavoro, ha duramente sofferto fino alla riforma del 2012, che ha segnato un’inversione di tendenza e una riduzione dei disoccupati da 5 a 4,4 milioni.

I numeri certamente non dicono tutto. E si può discutere della qualità dei posti di lavoro creati. Ma intanto quei numeri dicono con certezza che chi ha riformato il proprio mercato del lavoro, rendendolo più flessibile e adattabile ai cambiamenti di questi ultimi anni, ha riportato i risultati migliori sul fronte occupazionale. Sarebbe un paradosso che Renzi e la sua maggioranza non ne tenessero conto con una decisa spinta riformista in questo senso.

Del lavoro fa parte anche la questione scuola. L’occupazione in Europa tornerà a crescere solo se, come ha detto Draghi a Jackson Hole, aumenterà «the skill intensity of the workforce». Più formazione, dunque, più education. Renzi ha indicato proprio la riforma della scuola come una sua grande priorità per il Consiglio dei ministri del 29 agosto: «Presenteremo – ha detto – una riforma complessiva che intende andare in direzione dei ragazzi, delle famiglie e del personale docente». Speriamo che vada soprattutto nella direzione degli studenti e della loro capacità/possibilità di trovare/crearsi un lavoro. La verifica sarà facile: se si darà finalmente all’insegnamento della lingua inglese lo spazio che merita, sarà una buona riforma. Altrimenti no. Tenere sui banchi di scuola i nostri ragazzi per 13 anni e non garantirgli uno strumento oggi indispensabile per costruirsi un percorso lavorativo è un delitto. Soprattutto per una sinistra che vuole fare dell’eguaglianza delle opportunità la sua bandiera.

La conoscenza o meno delle lingue è il primo fattore di diseguaglianza, perché si acquisisce proprio nella prima fase della competizione sociale. Se si darà a tutti, non solo ai figli dei ricchi, la possibilità di comunicare in inglese alla fine del percorso scolastico si sarà fatta la più utile riforma della scuola che si possa fare. E forse anche un piccolo pezzo di riforma del lavoro. A volte il riformismo è più semplice di quello che si possa pensare. Sindacati permettendo, ovviamente.

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Primo step il pacchetto di misure all’esame del Consiglio dei ministri del 29 agosto: il decreto «sblocca-Italia», la riforma della giustizia civile e le linee guida sulla scuola con i nuovi meccanismi di reclutamento degli insegnanti per superare l’emergenza precari e il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro (mentre potrebbe slittare il provvedimento su «quota 96» per sanare la posizione di 4mila docenti pensionandi). Secondo step il 30 agosto, quando il Consiglio straordinario dei capi di Stato e di governo affronterà il nodo delle euronomine, con un focus sulle ricette per affrontare la congiuntura negativa che investe i big dell’eurozona, Germania, Francia e Italia in primis. Consiglio europeo “cruciale”, secondo quanto il premier Matteo Renzi ha fatto sapere ai suoi ministri.
Poi, a partire dall’Ecofin informale di Milano in programma il 13 settembre, l’avvio vero e proprio della trattativa per rendere esplicito «il miglior utilizzo della flessibilità», secondo le intese raggiunte nel Consiglio europeo di fine giugno, con l’obiettivo di chiudere il semestre di presidenza italiana della Ue con un pacchetto di proposte concrete, preventivamente concordate con la nuova Commissione europea che si insedierà in novembre. Mese in cui l’esecutivo comunitario renderà note le sue nuove stime sull’economia dell’eurozona, con annesse le prime valutazioni sulle manovre di finanza pubblica predisposte dai singoli paesi. Nel caso dell’Italia, la legge di stabilità che il Governo sottoporrà all’esame del Parlamento a metà ottobre. È già partita la caccia alle risorse per stabilizzare il bonus Irpef, all’interno di una manovra che si attesterà attorno ai 20 miliardi: tagli alla spesa, ma anche riordino delle agevolazioni fiscali e maggiori introiti attesi dalla lotta all’evasione.

Fonti di palazzo Chigi negano che sia in atto una sorta di trattativa pubblica o segreta sui conti italiani con l’Europa e che sia in arrivo un piano taglia debito, come riportato da alcune indiscrezioni giornalistiche. L’Italia, sottolineano le stesse fonti, «farà la sua parte come più volte ribadito dal premier, rispettando il vincolo del 3% senza aumentare la pressione fiscale. Non esiste, ribadisce palazzo Chigi, un problema Italia in Europa: esiste un problema dell’eurozona che l’Italia contribuirà ad affrontare». E il premier Matteo Renzi ai suoi collaboratori ricorda: «Abbiamo sempre detto che l’Europa non è solo spread e Maastricht, ora che la guidiamo noi è giusto dimostrarlo». La linea del Tesoro non cambia: le varie ipotesi di operazioni taglia debito circolate in questi giorni, e approdate fin nei corridoi di Via XX Settembre, presentano «problemi». Non esistono di fatto scorciatoie per il Tesoro, come ha ripetuto più volte Padoan, e quindi la via maestra per ridurre il debito pubblico al Mef è e resta una soltanto, ed è quella della crescita «sostenibile e sostanziale abbinata alla fiducia dei mercati». Fiducia che si conquista sul campo con uno sforzo continuo nell’implementazione delle riforme strutturali, con l’aggiustamento del bilancio, con un avanzo primario che sia considerevole e con i conti pubblici tenuti costantemente sotto controllo. Le privatizzazioni possono certamente contribuire ma in maniera minore, non sono decisive, hanno alti e bassi: il Tesoro conta di avvicinarsi molto all’obiettivo dello 0,7% di Pil programmato per quest’anno, con le privatizzazioni (senza Poste, la vendita di azioni Eni ed Enel integra la voce delle dismissioni) e con la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico per il quale grandi aspettative sono riposte nel decollo in autunno di Invimit, la SGR immobiliare posseduta al 100% dal Tesoro. La fiducia dei mercati, che è fondamentale per la riduzione del debito, è alimentata da un ventaglio di forme di intervento tra le quali non figurano operazioni taglia debito come quelle proposte in questi giorni. Una crescita non fiacca, le riforme strutturali, un avanzo primario importante restano il sentiero principale per ridurre il debito pubblico, dal quale l’Italia e il Tesoro non si discostano ma lungo il quale il Paese dovrà essere aiutato dall’Europa, che deve fare la sua parte (con nuove politiche per rafforzare la crescita) e dalla Bce che con la sua politica monetaria deve fare anch’essa la sua parte anche per combattere i rischi di deflazione.

Lo schema resta quello più volte enunciato da Renzi e Padoan: riforme in cambio di flessibilità nel timing di rientro dal debito, tenendo conto che rispetto allo scenario ipotizzato in primavera i due trimestri consecutivi di crescita sotto lo zero rendono di fatto obbligata la strada del ricorso alle «circostanze eccezionali» previste dal Fiscal compact. La contemporanea, brusca frenata di Germania e Francia rafforza la linea avanzata dall’Italia: solo attraverso azioni concordate e coordinate a livello europeo si potrà tentare di invertire il ciclo. Se, differentemente dalla Francia, l’Italia conferma che non vi saranno sforamenti al tetto del 3% per quel che riguarda il deficit, il focus si sposta sul percorso di rientro dal deficit strutturale (depurato dagli effetti del ciclo economico e dalla una tantum) così come delineato dalla disciplina di bilancio europea.
La frenata del Pil rende per noi di fatto impossibile, a meno di ricorrere a manovre restrittive di bilancio, rispettare la richiesta di Bruxelles in direzione dell’obiettivo di medio termine. Il pareggio di bilancio non potrà essere conseguito nel 2015, slitta al 2016 se non al 2017. La trattativa con Bruxelles dovrà a questo riguardo puntare in primo luogo a evitare il ricorso a misure aggiuntive già nel 2014 (in sostanza una manovra correttiva) chiesto dalla Commissione fin dalle raccomandazioni del 2 giugno. Richiesta motivata dallo scarto tra la stima del deficit strutturale calcolata da Bruxelles per il 2015 (0,7%) e lo 0,1% assicurato dal governo. A quel punto la trattativa si concentrerà proprio sul 2015 e sugli anni a venire e la carta che Renzi e Padoan si accingono a giocare, per quanto riguarda le politiche nazionali, punta sull’effetto atteso dalle riforme strutturali, che lo stesso Padoan fissa in almeno un biennio. L’auspicata flessibilità, da estendere evidentemente erga omnes, sarebbe dunque strettamente connessa alle riforme strutturali messe in campo, puntualmente monitorate dalla Commissione. Il giudizio di Bruxelles è atteso su questo punto non prima della prossima primavera.

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Maurizio Belpietro – Libero

Ci sono voluti pochi giorni per capire chi avesse ragione tra Carlo Cottarelli e Matteo Renzi. Il dubbio che il commissario alla spending review avesse esagerato nel descrivere lo stato di salute dei conti pubblici è stato dissipato ieri da due notizie. La prima è la marcia indietro del governo sul prepensionamento di 4 mila insegnanti e sul tetto dell’età pensionabile per i primari, ossia sull’emendamento che proprio Cottarelli aveva dichiarato senza alcuna copertura, sostenendo che fosse stato finanziato con un generico quanto inesistente taglio di prossime spese.

La precedente settimana, quando il Parlamento aveva votato il provvedimento, il ministro della Pubblica amministrazione era stato zitto, lasciando intendere di essere favorevole alla misura. Ma poi, vista la denuncia del super commissario il quale ha di fatto dato le dimissioni beccandosi pure un poco gratificante saluto dal premier, ecco la retromarcia di Palazzo Chigi e di Marianna Madia. Segno evidente che le critiche erano fondate, altrimenti il presidente del Consiglio avrebbe tirato dritto. E allo stesso tempo prova concreta che la spending review è diventata la madre di tutte le spese, in quanto annunciando futuri tagli si dà via libera a costi immediati che prossimamente graveranno sullo stato di salute della contabilità nazionale e dunque sulle spalle dei contribuenti.

Tuttavia non c’è solo l’episodio di ieri a confermare che Cottarelli ha ragione e Renzi torto. E dunque che i tanto sospirati risparmi sulle uscite dello Stato sono solo sospirati ma non destinati a tradursi in realtà. L’altra notizia della giornata è che la sanità pugliese si prepara ad assumere 2.500 persone. Ad annunciarlo è stato il governatore della Regione che poi è pure il numero uno di Sinistra ecologia e libertà. Evidentemente, non contento di essere a capo di un sistema sanitario tra i più costosi d’Italia, tanto da dover approfittare della solidarietà del fondo sanitario da cui incassa 487 euro pro capite, Nichi Vendola vuole pure assumere. E poco importa che – come segnalava ieri il Sole 24 Ore – dal 2007 al 2013 il disavanzo della regione sia stato di 1 miliardo e 312 milioni, cioè uno dei più pesanti tra quelli registrati in Italia: il governatore prima di ritirarsi dalla politica preferisce fare un’altra infornata di medici e infermieri. Pazienza se questo si tradurrà in un aumento del ticket, che, sempre come segnalava il quotidiano confindustriale, sarà presto preso in esame con una revisione del contributo richiesto agli ammalati in base al reddito. Di questo passo altro che servizio sanitario nazionale, presto avremo il servizio sanitario fiscale, nel senso che per essere curati bisognerà presentare la dichiarazione dei redditi insieme con la carta di credito, mentre gli indigenti – e dunque la maggior parte degli immigrati – avranno cure gratis: tanto il ticket lo paga chi guadagna e versa le tasse.

È questo il fantastico mondo della spending review, che dopo le parole di Cottarelli è stata ribattezzata Spending di più. Del resto, l’operazione di rimettere in equilibrio i conti del welfare, facendo sparire il fondo sanitario che grava sulle regioni virtuose (Lombardia tra le prime) a favore di quelle che invece sono spendaccione, ha poche speranze di successo. La chiusura del rubinetto che ogni anno toglie alle Regioni meritevoli per dare a quelle che non meritano avrebbe dovuto avvenire nel 2013 e invece con i ritmi adottati da diversi governatori l’addio al sistema di finanziamenti a fondo perduto alle sanità colabrodo arriverà nel 2066. Sì, avete capito bene: fra cinquant’anni, parola della bibbia salmonata diretta da Roberto Napoletano. C’è da stupirsi dunque se in Italia continuano ad aumentare le tasse? Ovvio che no. La logica conclusione dei tagli alla spesa non fatti è il Fisco che diventa sempre più vorace.

E a proposito di imposte si segnala che è in dirittura d’arrivo un nuovo siluro: la riforma del catasto, ovvero la revisione degli estimi che venerdì scorso ha ricevuto il via libera dalla commissione Finanze del Senato. Sempre secondo il solito Sole 24 Ore in molte città si registreranno rincari d’imposta, in quanto tra i valori catastali attuali e quelli di mercato che si vorrebbero adottare c’è una differenza che in qualche caso sfiora il 300 per cento. Ma a rischiare di più a quanto pare non sono i proprietari di attici, ma chi possiede un’abitazione di categoria A3, cioè quelle considerate economico popolari. Essendosi queste case rivalutate di molto nel corso degli anni, l’Agenzia delle entrate si prepara a battere cassa. E ovviamente con i soliti metodi molto gentili, dato che nonostante il cambio al vertice nulla è cambiato. Insomma, Cottarelli ha ragione. Governo, Parlamento e Regioni spendono senza tagliare e ai soliti noti tocca pagare. Ma almeno ora è chiaro chi devono ringraziare.