semplificazione

Ormai impazza la burocrazia dei divieti insensati e delle leggine

Ormai impazza la burocrazia dei divieti insensati e delle leggine

Sergio Luciano – Italia Oggi

Autostrada Serenissima, esterno notte. A una stazione di servizio di un gruppo petrolifero italiano, l’erogatore di Gpl, pur segnalato come attivo, risulta in realtà chiuso. Il gestore, anzi la gestrice – per usare uno di questi terrificanti nomi al femminile che fanno contenta la presidenta Boldrini – si sfoga con il cliente «a secco»: «Non me ne parli, siamo infuriati, il fatto è che il serbatoio, per legge, deve stare ad almeno 42 metri dal più vicino manufatto abitativo e due anni fa il gestore del bar ha ristrutturato lo stabile, è stato autorizzato ad allargarlo e si è preso due metri di spazio in più, proprio verso il serbatoio, per cui la distanza, che era di 42 metri, si è ridotta a 40 e non ci hanno mai più ridato l’agibilità dell’impianto. Noi ce la siamo presa col barista, che ha girato la palla sul concessionario, che l’ha rimpallata a lui, e così sono passati due anni, siamo fermi alle lettere degli avvocati e abbiamo perso un sacco di soldi».

Ecco: chiunque viva nel mondo reale sa che questa burocrazia dei piccoli «no», più o meno insensati, sta ormai ammazzando l’Italia. E le pur (per certi versi) lodevoli iniziative riformiste del governo Renzi sembrano non rendersene conto.

È una burocrazia folle. Che il ventennio berlusconiano non è riuscito a risanare, anzi. È l’Italia dei burocrati piccoli piccoli, che non tentano nemmeno di entrare nel merito delle questioni ma moltiplicano paletti e leggine, e quando va male li usano per escutere tante microtangenti, ma comunque sempre per non fare e non «far fare». La vera riforma della pubblica amministrazione da fare sarebbe questa: demolire questa burocrazia. Nel caso dell’impianto Gpl, è del tutto evidente che una regola sulla distanza minima è necessaria, ma è anche chiaro che – fatta la frittata di aver ridotto quella distanza – dovrebbe esserci una qualche autorità in grado o di derogare alla regola così marginalmente violata, o di imporre a chi ha causato il danno di pagare di tasca sua un risarcimento al danneggiato. Macché.

Al contrario, lo Stato arretra dove sarebbe per molti versi meglio che restasse. Si pensi all’ormai scontata decisione di ridurre il controllo in Eni ed Enel, senza clausole antiscalata, col rischio di privare l’Italia della proprietà di due colossi energetici ben gestiti che mezzo mondo ci invidia; e invece esonda, protunde, invade e schiaccia dove dovrebbe e potrebbe farsi i fatti suoi. È l’eterno tradimento del motto liberista secondo cui «è permesso tutto ciò che non sia esplicitamente vietato». In Italia, si sa, «è vietato tutto ciò che non sia esplicitamente permesso».

Sommersi da una valanga di regole fiscali

Sommersi da una valanga di regole fiscali

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Bravissimi a «incasinare le cose semplici», abbiamo «un sistema fiscale che è quanto di più assurdo, farraginoso e devastante si possa immaginare». Diagnosi pressoché perfetta, quella di Matteo Renzi. Così perfetta che di fronte a questa realtà certe promesse, condite dalla convinzione che «se ci impegniamo le tasse possiamo pagarle con un sms» sembrano fantascienza. Inarrestabile nel fare la pulci alla burocrazia, l’ufficio studi della Confartigianato si è preso la briga di contare le norme in materia fiscale che sono state emanate di volta in volta dai quattro governi che si sono succeduti dal 29 aprile 2008 all’8 agosto 2014. Sono la bellezza di 691, in 46 diversi provvedimenti. Una massa imponente di regole e disposizioni che si sono andate ad aggiungere al mucchio, già inverosimile, di leggi e circolari. E di quelle 691 norme, ben 418 hanno avuto un impatto burocratico sulle imprese, rendendo ancora più complessi gli adempimenti. Il tutto mentre le disposizioni che avrebbero dovuto facilitargli la vita, sempre fiscalmente parlando, si sono fermate a 96. Facendo la differenza fra i due dati, salta fuori un «saldo burocratico», come lo definisce la Confartigianato, di 322. Il che fa concludere che nei 2.292 giorni presi in esame il nostro fisco si è complicato al ritmo di una norma alla settimana. Esattamente, una ogni 7,1 giorni. Sabati, domeniche e feste comandate comprese. E poco importa che la maggioranza delle regole «complicatrici» abbia avuto effetti contenuti, considerando che quelle il cui impatto è considerato tragicamente insostenibile sono «soltanto» 29 su 4.18. Il fatto è che quella «tela di Penelope» capace di rendere il sistema sempre più intricato, lento e costoso hanno continuato imperterriti a tesserla di giorno e smontarla di notte. Se è vero, nei sei anni presi in esame, che per ogni norma di semplificazione ne sono state approvate 4,3 di complicazione.

Il record assoluto è stato conseguito nel 2013, anno per due terzi governato da Enrico Letta. L’organizzazione degli artigiani ha calcolato un «saldo burocratico» di ben 93 norme. Una ogni 3,9 giorni. Al secondo posto il 2012, interamente sotto la responsabilità del governo di Mario Monti, con il «saldo burocratico» arrivato a 70. Vero è che anche l’esecutivo di Silvio Berlusconi ci aveva messo del suo, con un «saldo»paria 142. Ma in tre anni e mezzo. E Renzi? Il governo dell’ex sindaco di Firenze, afferma il dossier della Confartigianato, «ha emanato sette provvedimenti con 75 norme di carattere fiscale di cui 24 semplificano, 11 sono neutre e 40 hanno impatto burocratico sulle imprese». C`è però da dire che le semplificazioni sono quasi tutte concentrate (23 su 24) nel decreto sulle dichiarazioni precompilate esaminato dal Consiglio dei ministri a giugno ma ancora da approvare. Forse domani: vedremo. E se nella valanga abbattutasi dal 2008 sulle imprese potrebbe essere quello il provvedimento con il migliore «saldo burocratico», alla luce dell’andazzo di questi sei anni non possiamo che considerarlo per ora solo un segnale.

La corda è davvero tesa all’inverosimile. Il segretario generale della Confartigianato Cesare Fumagalli sostiene che non c’è da perdere un minuto: «Il gioco di ridurre una tassa e poi aumentarne altre perché serve gettito per coprire le spese sta ammazzando le pecore, tosate già oltre ogni limite. Senza interventi immediati che riducano gli oneri fiscali per le imprese si rischia davvero grosso. Se non ora, quando?». Tornano alla mente le parole con cui il ministro delle Finanze Antonio Gava debuttò in un’audizione parlamentare: «La prima cosa, urgentissima, per potenziare la lotta all’evasione fiscale, è la semplificazione del sistema tributario». Correva l’anno 1987. Sei anni dopo, era il 1993, il suo successore Franco Reviglio firmava il decreto istitutivo di una commissione per la semplificazione della normativa fiscale. Finita nel nulla. Neanche quindici mesi e il primo governo Berlusconi, ministro il «Reviglio boy» Giulio Tremonti, faceva trapelare un progetto superavveniristico. Titolo dell’Ansa del 5 agosto 1994: «Fisco, verso pagamento tasse con bancomat». Rincarava la dose il ministro Augusto Fantozzi, il 24 maggio 1995: «Grosse novità dal ddl semplificazione fiscale››. E nel 2001, mentre gli sportelli automatici delle banche erano in attesa di avvistare il primo contribuente e delle «grosse novità» non c’erano ancora tracce. Tremonti dichiarava: «Grazie al regolamento sulla semplificazione del Fisco in Italia si avranno 190 milioni di atti amministrativi in meno». Da allora non c’è stato governo che non abbia garantito un Fisco più facile e amico dei cittadini e delle imprese. L’ha promesso il centrodestra e l’ha promesso il centrosinistra. L’ha promesso il governo tecnico e l’ha promesso quello delle larghe intese. Ma ondeggiando arditamente tra bancomat, sms e dichiarazioni precompilate alla francese, siamo sempre li. Sempre più sommersi da commi, circolari e regolamenti. Inchiodati a quel 1987, quando la semplificazione era considerata urgentissima. Quando Reagan e Gorbaciov firmavano il trattato sugli euromissili, la Cbs trasmetteva in America la prima puntata di Beautiful, al maxiprocesso di Palermo la cupola di Cosa nostra veniva condannata all’ergastolo.

Nei labirinti del 5 per mille si perde anche la Corte dei Conti

Nei labirinti del 5 per mille si perde anche la Corte dei Conti

Valentina Melis – Il Sole 24 Ore

Il cinque per mille ha portato in dote al mondo del non profit tre miliardi e mezzo di euro, dal 2006 a oggi. Sulla destinazione dei fondi, però, la Corte dei conti adesso vuole vederci chiaro. I beneficiari, ormai, sono quasi 50mila, dagli enti di ricerca alle associazioni sportive dilettantistiche, e si contendono le firme degli italiani sulla dichiarazione dei redditi a colpi di pubblicità, newsletter e altre iniziative.

Ma le scelte dei contribuenti sono veramente “libere”, come prevedono le regole? Perché non tutti gli enti rendono pubblica la gestione degli incassi? E non sarebbe forse il caso di selezionare in maniera più rigorosa i potenziali beneficiari? Se lo chiedono anche i magistrati contabili, che hanno preso carta e penna e hanno scritto a sette ministeri, alle Entrate, al Coni, agli Ordini dei commercialisti e dei consulenti del lavoro e alla Consulta dei Caf, per chiedere quali iniziative metteranno in campo per una maggiore trasparenza.

La Corte dei conti dice che sì, semplificare le farraginose procedure del cinque per mille sarebbe opportuno, ma anche imporre alle organizzazioni l’obbligo di pubblicare i bilanci, usando «schemi chiari, trasparenti e di facile comprensione». E qui sta il primo nodo. Accanto a grandi organizzazioni, come l’Airc, Emergency, l’Associazione italiana contro le leucemie (solo per citarne alcune), che sul proprio sito spiegano come hanno speso i soldi assegnati dai contribuenti, ce ne sono altre, anche nelle prime posizioni della classifica, che non pubblicano un numero.

In effetti, mettere in rete il rendiconto non è obbligatorio: il documento deve essere mandato ai ministeri che erogano il contributo solo dagli enti che incassano più di 20mila euro. Ma questo passaggio rischia di essere solo formale, senza alcuna informazione chiara per i contribuenti che hanno premiato un’organizzazione con la propria firma.
La scelta, poi, dovrebbe essere libera, ma secondo la Corte dei conti non sempre lo è. Nella sua lettera ai ministeri, la Corte sottolinea che «risulterebbe assai utile un’attività di audit dell’agenzia delle Entrate sul comportamento degli intermediari, allo scopo di individuare eventuali scorrettezze».

La Corte evidenzia inoltre il «potenziale conflitto di interesse con gli optanti» da parte di quelle realtà che gestiscono direttamente una rete di Caf (come le Acli e il Movimento cristiano dei lavoratori) o di quelle associazioni «che possono fruire dei Caf dei sindacati di cui sono emanazione». E qui i magistrati contabili citano gli esempi della Cgil (Auser e Federconsumatori) e della Cisl (Adiconsum e Iscos). Alcuni di questi soggetti si piazzano da sempre in ottime posizioni della classifica per fondi ricevuti, ma questo ovviamente non dimostra niente di illecito: piuttosto, è la prova che le regole attuali tendono a favorire i soggetti più grandi (per numero di uffici, risorse da investire in pubblicità e così via).

Ma ci sono altri casi che balzano agli occhi. La Federazione nazionale agricoltura, in una comunicazione ufficiale inviata dal segretario generale Cosimo Nesci ai dirigenti del sindacato, ai responsabili del patronato Epas – presieduto dal figlio Denis Nesci – e ai responsabili dei centri di raccolta Caf Italia Srl (legati alla stessa Fna), garantisce che riconoscerà un euro in più di rimborso per ciascun modello 730 «riportante l’adesione volontaria del contribuente del 5 per mille a favore della Assipromos». Quest’ultima è un’associazione di promozione sociale che ha come unica fonte di finanziamento il cinque per mille, ed è nata nel 2007, l’anno successivo all’introduzione del contributo. L’Assipromos ha visto crescere continuamente i fondi assegnati dai contribuenti, passando da 154mila euro del 2007 a 1,5 milioni del 2012.

Tra le migliaia di organizzazioni del “volontariato” presenti negli elenchi, si piazza al quindicesimo posto. In tutto, contando anche la tranche 2012 (non ancora versata, ma attribuita dall’agenzia delle Entrate), l’Assipromos ha ottenuto 4,4 milioni. Ma come è stato speso questo robusto finanziamento? Sul sito dell’associazione, alla pagina «iniziative», ci sono solo due progetti: il bando «Crea il tuo futuro», uno stage di sei mesi per 50 ragazzi presso la stessa associazione (con un rimborso spese di 400 euro al mese), che si è concluso pochi giorni fa, e un corso di italiano per stranieri.

Dai rendiconti inviati al ministero del Lavoro, risulta che l’Assipromos ha acquistato un immobile a Roma, in via Falcognana, per 1.350.000 euro, con l’obiettivo di creare una «casa di riposo a prevalente accoglienza alberghiera». Obiettivo però non raggiunto, perché, secondo il Comune di Roma, l’immobile non è adatto a questo utilizzo. L’Assipromos ha dunque sottoscritto un preliminare d’acquisto per un altro immobile, sempre a Roma, in via Omboni, con lo scopo di creare una piscina per persone disabili e uno studio medico riservato a pazienti che si trovino in disagio economico. «Vorrei sottolineare – precisa la presidente di Assipromos Maria Mamone (subentrata nel ruolo a settembre 2013 allo stesso Cosimo Nesci) – che neanche un euro è stato utilizzato per versare un’indennità al presidente o ai consiglieri dell’associazione, e che tutti i fondi del cinque per mille sono impiegati per progetti sociali».

Passando all’elenco degli enti di ricerca scientifica, non mancano altre sorprese. L’Università telematica «Pegaso» di Napoli si piazza all’undicesimo posto, sorpassando tutti gli atenei pubblici e privati d’Italia, escluso il Politecnico di Milano. Per il 2012, grazie alla scelta di 224mila contribuenti, la Pegaso incasserà 421.895 euro, il 380% in più rispetto all’anno prima, quando il contributo era stato di 108.435 euro. Qual è il segreto di un simile balzo in avanti?
Un aiuto potrebbe essere arrivato da decine di convenzioni sottoscritte dall’Università Pegaso con Ordini professionali e con i sindacati sul territorio, anche se – precisa il direttore generale dell’ateneo online Elio Pariota – queste convenzioni nulla hanno a che vedere con il cinque per mille, ma solo con la formazione».
Nella sua lettera, la Corte dei conti cita esplicitamente un altro esempio: l’intesa tra il centro di ricerca Biogem di Ariano Irpino e l’Ordine dei dottori commercialisti di Avellino. Il presidente di Biogem, Ortensio Zecchino, ha dichiarato (come riporta la stessa Corte): «Ci rivolgiamo ai commercialisti perché hanno una grande forza di orientamento». Con buona pace della libertà di scelta.

Semplificare a metà non serve allo sviluppo

Semplificare a metà non serve allo sviluppo

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Nel suo ultimo rapporto «Going for growth», l’Ocse invita il nostro paese a migliorare l’efficienza della struttura del fisco semplificando le norme e combattendo l’evasione. E al tema delle semplificazioni è dedicato proprio il primo decreto attuativo della delega fiscale, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri lo scorso 20 giugno e attualmente all’esame delle competenti commissioni parlamentari. Apprezzabile l’intento, poiché è del tutto evidente che un fisco più semplice e a «misura di contribuente» è la precondizione per accrescere quella che i tecnici definiscono la «tax compliance», vale a dire l’adesione spontanea all’obbligo tributario. Potente antidoto antievasione, al tempo stesso, almeno di quella fetta di evasione che sicuramente va imputata a un sistema fiscale complesso e caratterizzato da un eccesso di adempimenti. Se l’obbligo tributario si trasforma in una corsa a ostacoli per i contribuenti onesti, in un confuso e contraddittorio rincorrersi di norme, accresce la propensione ad evadere.
La semplificazione fiscale è in effetti la madre delle riforme fiscali. Presuppone in primo luogo che i relativi decreti legislativi vengano attuati pienamente, ed è questa – come del resto per gran parte della legislazione primaria – l’incognita maggiore. Senza un’attenta vigilanza, senza un monitoraggio costante dell’intero processo attuativo (a partire dai regolamenti), anche i più apprezzabili intenti di snellimento di adempimenti e procedure rischiano di non produrre gli effetti sperati. Pare quindi quanto mai opportuno l’invito, rivolto ieri da Andrea Bolla, presidente del Comitato tecnico per il Fisco di Confindustria, in un passaggio dell’audizione davanti alla Commissione Finanze del Senato: per semplificare il sistema fiscale non basta eliminare adempimenti inutili o razionalizzare quelli onerosi, occorre una normativa lineare, coerente e di facile interpretazione. In questa direzione dovranno muoversi gli ulteriori decreti delegati, a partire da quelli sui temi della stabilità e certezza del diritto relativi, in particolare, alla revisione del sistema sanzionatorio e alla necessità di introdurre una norma generale che definisca l’abuso di diritto.
Se – come ha documentato il Sole 24Ore – la mancata attuazione delle riforme costa almeno 5 miliardi, di certo le semplificazioni fiscali consentirebbero di accrescere la base imponibile, sia per effetto dell’accresciuta tax compliance che grazie al recupero implicito di evasione. L’intera partita delle semplificazioni amministrative, se effettivamente si traducesse nell’eliminazione dei vincoli che soffocano l’intero sistema imprenditoriale, di certo immetterebbe linfa finale nel motore inceppato della crescita. È lo stesso Governo, nel «Programma nazionale di riforma» presentato a Bruxelles lo scorso aprile, a indicare nello 0,8% l’effetto sul Pil delle misure di semplificazione e liberalizzazioni nel 2015, che salirebbero al 2,2% nel 2020 e al 4,5% nelle stime di «lungo periodo».
All’interno di questo percorso, le semplificazioni fiscali giocano un ruolo determinante. Rendere meno complessi gli adempimenti fiscali per famiglie e imprese – si legge nel «Pnr» – «è la precondizione per un riavvicinamento del fisco ai cittadini». Nel 2015 partirà in via sperimentale la trasmissione diretta del 730 precompilati, che di certo semplificherà la vita a milioni di contribuenti persone fisiche, ma che rischia – come ha rilevato Bolla – di complicare quella delle persone giuridiche («occhio che queste norme non implichino maggiori oneri per i sostituti d’imposta»). Un motivo in più per vigilare attentamente su tutti gli aspetti e le implicazioni delle novità in arrivo.
Perché le semplificazioni producano pienamente i propri effetti, occorre un’amministrazione pronta ed efficiente. Non a caso fin dal 1965, in vista del varo della «grande riforma» del 1973, un personaggio del calibro di Cesare Cosciani ammoniva: «Rimontare la corrente che ha portato gli uffici in tale delicata situazione è opera difficile, paziente, lunga e ingrata per il ministro che deve attuarla. Ma è il presupposto per ogni riforma». Come dire che reiterati interventi legislativi possono anche naufragare, se non sostenuti da una profonda riorganizzazione della macchina fiscale. Strada imboccata alla fine degli anni Novanta con la nascita delle Agenzie, e che ora va ulteriormente rafforzata.

La burla del 730 “a domicilio”

La burla del 730 “a domicilio”

Franco Bechis – Libero

La dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo (quella relativa al 2014) non arriverà a casa dei contribuenti, come più volte annunciato da Matteo Renzi. Sarà disponibile solo per via telematica, e per leggersela bisognerà effettuare tutte le procedure di registrazione presso il sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, passaggio questo che risulterà particolarmente ostico a una parte della platea a cui la semplificazione è rivolta: quella dei pensionati. La stessa condizione riguarderà i lavoratori dipendenti, unici altri ammessi al beneficio della dichiarazione dei redditi precompilata. La novità emerge dal testo dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali trasmesso al Senato dal governo lo scorso primo di luglio. Un testo di 34 articoli ben più complesso e insidioso di quel che appariva dalle premesse.

L’idea di Renzi era quella di sollevare una parte dei contribuenti italiani dal milione di contestazioni formali che arrivano ogni anno dall’Agenzia delle Entrate, facendo arrivare loro a casa una dichiarazione dei redditi precompilata dal fisco italiano, che è in grado di attingere alle varie banche dati del Grande Fratello fiscale anche per controllare già le detrazioni e le deduzioni cui il contribuente avrebbe diritto. Idea semplice, che Renzi ha rubato ad uno dei suoi alleati (la proposta era di Angelino Alfano), facendola sua e rivendendosela subito all’opinione pubblica. Ma quella semplicità si è complicata molto con il decreto attuativo che la fa entrare in vigore in parte dal 2015 (quando anche le spese mediche saranno calcolate dall’Agenzia). Perché il testo arrivato in Parlamento fa entrare i contribuenti in un vero e proprio labirinto, causa non pochi problemi alle aziende da cui dipendono e che fungono da sostituti d’imposta, e rischia di provocare una rivolta da parte degli intermediari fiscali, siano essi Caf o commercialisti. Non solo, ma grazie alla apparente “semplificazione” del governo il costo della dichiarazione dei redditi rischia di lievitare per gran parte dei contribuenti, a meno che rinuncino alla dichiarazione precompilata e continuino a presentarla come hanno fatto in tutti gli anni precedenti.

La prima novità che sicuramente causerà disagio alle imprese sarà l’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate entro il «7 marzo di ogni anno i dati relativi alla certificazione unica che attesta l’ammontare complessivo delle somme erogate, delle ritenute operate, delle detrazioni d’imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali trattenuti». Significa un anticipo di un mese e mezzo rispetto ad oggi, e con le imprese che devono chiudere i bilanci dell’anno precedente e ottemperare agli altri adempimenti consueti sarà non piccolo il problema. In caso di ritardo o di errata trasmissione, alle imprese sarà comminata una multa fissa di 100 euro per ogni dipendente. Tra gli anticipi obbligatori anche la modifica del termine (dal 30 aprile attuale al 28 febbraio che scatterà nel 2015) «per la trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi ad alcuni oneri deducibili e detraibili sostenuti nell’anno precedente, quali interessi passivi sui mutui, premi assicurativi, contributi previdenziali, previdenza complementare». Raccolti tutti i dati entro il 15 aprile, per i lavoratori dipendenti e pensionati sarà disponibile solo per via informatica la dichiarazione precompilata da parte dell’Agenzia delle Entrate. I contribuenti che potranno accedervi avranno due opzioni: accettarla così com’è o cambiarla, inserendo detrazioni o deduzioni che non erano state previste. Ma anche se si accetta così com’è, la storia è appena all’inizio. Perché quella dichiarazione precompilata va poi presentata alla stessa Agenzia. Come? Da soli, sempre per via telematica. O chiedendo al proprio datore di lavoro di prestare assistenza fiscale. Oppure attraverso un Caf o tramite il proprio commercialista. In questi due casi però quella dichiarazione che resta intonsa rispetto a come era stata compilata dall’Agenzia delle Entrate dovrà essere accompagnata da visto di conformità del Caf o del commercialista. E se risulteranno errori l’Agenzia delle Entrate multerà e sanzionerà il commercialista o il Caf, e non il contribuente. È un aspetto grottesco della rivoluzione di Renzi: lo Stato compila la dichiarazione dei redditi del cittadino, il commercialista deve dire se lo Stato ci ha preso o no, e se questo suo giudizio è errato verrà punito lui e non lo Stato che ha inserito un dato errato. Che cosa significa questo? Che di fatto Caf e commercialisti avranno la responsabilità civile di quelle dichiarazioni dei redditi che però sono compilate dall’Agenzia delle Entrate. Cercheranno quindi di assicurarsi, e trasferiranno quel costo suppletivo sulla clientela. Non solo: pretenderanno dal contribuente ogni documentazione immaginabile per controllare i dati dell’Agenzia, perché sono loro a poterci rimettere le penne in caso di errore. E il possibile errore dello Stato non è eventualità remota: già oggi quasi tutti gli avvisi bonari e le contestazioni dell’Agenzia si basano su dati errati. Proprio per questo non ha senso scaricare sui professionisti la responsabilità di uno Stato che lavora male. Più che una semplificazione, quindi, una presa in giro.