sergio rizzo

Le ragioni (rivelate) di un licenziamento: Cottarelli non risulta legato alle lobby ma è preparato e autorevole. Forse troppo

Le ragioni (rivelate) di un licenziamento: Cottarelli non risulta legato alle lobby ma è preparato e autorevole. Forse troppo

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Carlo Cottarelli possiede tre caratteristiche apprezzabili in qualunque Paese impegnato a tirarsi fuori dai guai di una spesa pubblica non soltanto abnorme ma anche per molti aspetti insensata. Ha autorevolezza, che gli deriva dall’essere stato uno dei massimi dirigenti del Fondo monetario internazionale. Ha esperienza, grazie a più di un quarto di secolo trascorso a fare i conti con i conti. Ha soprattutto indipendenza: di tornare da Washington per dare una mano al Paese non gliel’ha ordinato il dottore e non risulta che sia legato a un partito, un singolo politico, una cordata o una lobby. Per giunta, è anche pensionato con un assegno più che dignitoso. E non vorremmo che fosse proprio questa sua terza caratteristica la causa dell’isolamento da lui sperimentato negli ultimi mesi. Progressivo e inesorabile al punto da fargli maturare la decisione estrema, quella di lasciare l’incarico.

È possibile che fra il commissario della spending review, nominato da Enrico Letta, e il premier Matteo Renzi non sia scoppiata la scintilla. Forse i due si stanno semplicemente antipatici. Non stupirebbe. Nelle vicende degli uomini la componente, appunto, umana è sempre fondamentale. Ma guai se quello che è successo fosse il segnale che in un compito delicato quale quello affidato a Cottarelli l’indipendenza rappresenta un handicap anziché una qualità. A un medico che deve fare una diagnosi accurata per una persona che presenta sintomi gravi non si chiede (fortunatamente) per chi vota, se è seguace di una particolare fede religiosa o preferisce il cibo vegetariano. Da lui tutto ci si aspetta, tranne che si mostri pietoso: deve soltanto scoprire la malattia e indicare il modo migliore per curarla. Ecco, il commissario alla spending review non è altro che questo: lo specialista incaricato di individuare gli sprechi, le inefficienze e anche le iniquità della spesa pubblica. Come un medico bravo e responsabile, senza farsi impietosire. E lo è tanto più in una situazione come quella italiana, dove le assurdità di una spesa cresciuta a ritmi frenetici a partire dal 2001, in concomitanza con l’approvazione del nuovo Titolo V della Costituzione che ha fatto esplodere le uscite regionali senza frenare quelle dello Stato centrale, rimanda a precise responsabilità della politica e dei partiti. Che dunque non sarebbero assolutamente credibili nell’indicare come, dove e quando tagliare.

L’indipendenza è quindi un elemento fondamentale, se dalla spending review ci aspettiamo risultati concreti e non soltanto pirotecnici. Perché mette al riparo da condizionamenti esterni che obbediscono a logiche spesso refrattarie a misure dolorose quanto necessarie. Non è un caso che il primo ad avviare nel nostro Paese la revisione della spesa sia stato, da ministro dell’Economia, l’ex direttore generale della Banca d’Italia Tommaso Padoa-Schioppa. Il quale, pur essendo una figura di primo piano nel secondo breve governo di Romano Prodi, non ha mai voluto rinunciare alla propria indipendenza: rifiutando per esempio la candidatura e un seggio sicuro alle elezioni politiche del 2008. La stessa scelta che aveva fatto dodici anni prima, guarda caso, l’ex governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Allo stesso modo non è un caso che il predecessore di Letta a Palazzo Chigi, l’ex rettore dell’Università Bocconi Mario Monti, avesse scelto per il ruolo successivamente ricoperto da Cottarelli un personaggio de calibro di Piero Giarda. Del quale certo non si può dire che fosse legato a qualche carro o carretto.

Al di là dell’esito della vicenda Cottarelli non è una questione che Renzi possa prendere alla leggera. Magari affidandosi a surrogati del commissario più fedeli e sensibili alle esigenze politiche. Per l’anno prossimo si prevede che la revisione della spesa contribuisca alle coperture con la cifra monstre di 17 miliardi di euro. D’obbligo ricordare che al 2015 mancano appena cinque mesi. E per come si sono messe le cose questa faccenda, già non facile, si presenta seria. Ameno che non ci sia un altro disegno, nel quale la spending review non ha più un posto, oppure è una cosa diversa. Ma in questo caso sarebbe doveroso saperlo. In fretta.

I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Niente di personale: almeno di questo siamo certi, nel caso in cui Carlo Cottarelli non dovesse fare marcia indietro rinunciando al proposito maturato negli ultimi tempi. E che avrebbe già anticipato al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Ovvero, quello di lasciare l’incarico dopo l’estate. Ottobre, è la data prevista.

Che Renzi non avesse con il commissario alla spending review la medesima sintonia di Enrico Letta, il quale lo aveva nominato, non era affatto un mistero. Del resto, a dispetto delle voci circolate contestualmente all’arrivo dell’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, che indicavano Cottarelli come candidato a prendere le redini del Dipartimento economico della presidenza del Consiglio, per lui i mesi trascorsi dall’insediamento del nuovo governo indiscutibilmente non sono stati i più facili. E certo non per la responsabilità del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, con il quale il commissario ha condiviso una lunga militanza negli organismi internazionali, a rappresentare il nostro Paese.

Gli ostacoli che ha dovuto affrontare sono stati fino in fondo politici. Probabilmente non del tutto imprevisti. Ma non nelle proporzioni e nelle forme che aspettava di trovarsi davanti quando è rientrato da Washington, dopo 25 anni passati al Fondo monetario internazionale, per occuparsi delle rogne italiane. Intanto un approccio tutto diverso da parte di Renzi rispetto a Letta, nei confronti del capitolo «tagli alla spesa pubblica» e dei compiti di Cottarelli. Un approccio che ha avuto l’effetto di ridimensionare oggettivamente il ruolo del commissario: declassato da una specie di autorità indipendente incaricata di individuare non soltanto gli sprechi e le diseconomie interne alla Pubblica amministrazione ma di proporre anche i tagli alle voci di spesa più ingombranti, a un semplice consulente esterno. Per quanto, ovviamente, autorevole: ma comunque un corpo estraneo alla stanza dei bottoni. Condizione diventata sempre più palpabile man mano che il tempo passava. Ed evidentemente sempre meno sopportabile.

Poi alcuni fatti che parlano da soli. Ieri su questo giornale Francesco Giavazzi si è opportunamente chiesto dove sia finito il lavoro di Cottarelli. Aggiungendo che il commissario alla spending review dovrebbe rendere coraggiosamente noto dove, come e quanto si dovrebbe tagliare, mettendo il governo di fronte alla responsabilità di non farlo. Sappiamo, perché l’ha scritto prima ancora sul «Corriere» Riccardo Puglisi, uno dei partecipanti al gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon a cui Cottarelli aveva chiesto un rapporto sui costi della politica, che da marzo sono pronte 25 relazioni su altrettanti segmenti della spesa pubblica preparate da team di esperti. Tutti dossier, immaginiamo ustionanti, che il commissario avrebbe già voluto pubblicare ma che invece restano nei cassetti. E la ragione è semplice: Cottarelli non ha ancora avuto il permesso del governo per renderli noti. Perché dopo tanti mesi non sia arrivato il via libera di Palazzo Chigi si può soltanto ipotizzare. Forse le conclusioni contenute in quei rapporti non sono del tutto condivise? Forse. Il che ci starebbe pure, ma è improbabile che il commissario, e lo stesso governo, non l’avessero calcolato.

Di sicuro la mancata pubblicazione dei 25 dossier ha reso ancora più evidenti, se ce ne fosse stato il bisogno, le difficoltà con cui Cottarelli si deve confrontare. A cominciare con quella forse più importante. Va benissimo intervenire sulle ottomila aziende pubbliche: è un buco nero gigantesco come dimostra l’esistenza di 2.761 società con più amministratori che dipendenti. Ma come si fa a individuare tagli per 17 miliardi di euro, almeno di tanto la spesa pubblica dovrebbe essere ridotta nel 2015, se non si possono nemmeno sfiorare i due capitoli più grossi? La sanità è uscita di fatto dalla spending review con il patto della Salute: un accordo fra il governo e le Regioni. Mentre le pensioni, per esplicita volontà dell’esecutivo, non ci sono mai entrate. L’agenzia «Adn Kronos» ieri ha fatto sapere che Cottarelli «continua a lavorare, come sempre, a stretto contatto con i suoi interlocutori naturali». E che «potrebbe presto affidare al suo blog, fermo all’ultimo intervento del 7 luglio, un post per tornare a evidenziare la necessità di tagli selettivi e non lineari, con riferimento anche al caso del pensionamento dei quota 96, appena affrontato nel decreto P.a.». Proprio le pensioni, guarda un po’… Poche ore dopo, sul blog c’era l’intervento annunciato dall’agenzia di stampa che ha subito suscitato reazioni politiche. Forse la sua ultima testimonianza (nemmeno questa autorizzata?) da commissario, magari prima dell’annuncio ufficiale del divorzio. Con il risultato che il prossimo taglio alla spesa pubblica frutto del lavoro di Cottarelli sarà il suo stipendio.

Troppa burocrazia blocca l’economia

Troppa burocrazia blocca l’economia

Stefano Micossi – Affari & Finanza

L’economia resta piatta come una tavola e metà dell’anno è andata: la crescita quest’anno può collocarsi tra lo zero e lo 0,3 per cento, l’inflazione viaggia anche lei intorno allo 0,3 per cento l’anno. In questo quadro, incomincia a serpeggiare qualche dubbio (anche in Europa) sulla determinazione del premier a portare avanti le riforme economiche necessarie. La cartina di tornasole saranno le decisioni sull’articolo 4 della legge delega sul lavoro – il famoso Jobs Act – ora ferme al Senato in attesa del voto sulle riforme istituzionali. Si tratta di vedere se sarà finalmente superato il contratto nazionale cum statuto dei lavoratori degli anni settanta del secolo scorso, gran distruttore di posti di lavoro e vero padre del precariato a vita dei nostri figli. Ma c’è molto altro da fare; più che provvedimenti bandiera, serve un’azione costante e determinata per rimuovere i blocchi e le rigidità che impediscono l’avvio di nuove attività, gli aggiustamenti industriali, le dissipazioni nelle società in mano pubblica. Faccio due esempi.

So di un giovane che decise due anni fa di aprire un bar gelateria in una località balneare del Lazio; l’iniziativa, che comportava un investimento non trascurabile, fu accolta con favore dall’amministrazione locale, che voleva favorire gli investimenti. Ci vollero sei mesi per ottenere un’autorizzazione preliminare della ASL sul progetto del locale, quella definitiva non è mai arrivata. Mesi di lavoro infaticabile furono necessari anche per le certificazioni sanitarie, di sicurezza, acustiche, sull’aerazione e antincendio; la complicazione delle pratiche consigliò di rivolgersi a consulenti-facilitatori, al costo di qualche migliaio di euro. Alla fine fu pronta la SCIA, segnalazione certificata d’inizio attività, che venne inviata per via telematica al SUAP, lo sportello unico attività produttive del Comune – che di unico non ha nulla, dato che tutte le attività preparatorie devono essere svolte dall’interessato prima di poter inviare la SCIA. Emerse allora che, trattandosi di zona artigianale, un oscuro allegato tecnico del regolamento urbanistico prevedeva che l’attività dovesse essere limitata solamente alla vendita di prodotti da asporto; niente somministrazione di bevande, niente servizio ai tavoli. In mancanza di ogni motivazione di interesse pubblico, la restrizione era chiaramente in contrasto con la direttiva europea sui servizi e vari decreti di liberalizzazione emanati dal governo Monti; su iniziativa del sindaco, il consiglio comunale deliberò di rimuovere la restrizione e inviò la delibera per l’approvazione alla Regione – la quale ha impiegato un anno ad approvarla, perché nel frattempo non era stato nominato l’apposito comitato tecnico. Simili restrizioni sono presenti in molti piani urbanistici comunali, con finalità protettive dell’esistente; l’autorità antitrust può solo avviare un ricorso al tribunale amministrativo, le regioni collaborano malvolentieri. Come si vede, la concreta realizzazione della libertà d’iniziativa sul territorio non ha semplici soluzioni, richiede interventi molteplici a vari livelli del sistema amministrativo; di questa azione minuta, continua e determinata per l’attuazione della direttiva europea dei servizi ancora non si scorge traccia.

Il secondo esempio riguarda gli aggiustamenti industriali, che l’Italia tende a rinviare il più a lungo possibile. Gli strumenti hanno cambiato nome nel tempo: mobilità lunga, cassa integrazione straordinaria, cassa integrazione in deroga e, naturalmente amministrazione straordinaria, il cuore pulsante del sistema. Questa è un lebbrosario di imprese in ristrutturazione presso il ministero dello sviluppo economico: originariamente costituito per assistere grandi imprese in crisi, l’intervento è stato esteso nel tempo anche a imprese di minore dimensione e ora – come rivelato da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – anche a ospedali ed enti sindacali. Le imprese mantenute nel lebbrosario a spese dei contribuenti sono quasi 500, alcune da molti anni. Si sa che intorno al meccanismo si affollano migliaia di professionisti; la nomina a commissario è una sinecura, dato che non c’è fretta di concludere. Il sindacato la fa da padrone. Il sistema è completamente opaco: non si sa quanto costa, non sono pubblicati rapporti regolari sull’esito delle procedure, non vi sono termini per il completamento degli interventi. Fa da contorno più largo il sistema dei crediti in sofferenza e delle moratorie bancarie nei confronti di imprese in difficoltà finanziarie: a seconda delle definizioni, stiamo parlando di qualcosa tra il 15 e il 20 per cento degli attivi bancari, difficile da smobilizzare anche per una legislazione fiscale penalizzante sul trattamento delle perdite e l’insufficiente sviluppo di veicoli di cartolarizzazione dei prestiti di dubbia qualità. Nel frattempo, il nostro paese si è dotato di una moderna legislazione per le crisi d’impresa, secondo i principi del Chapter 11 americano; ha anche introdotto il seme di meccanismi moderni per la gestione attiva dei lavoratori che perdono il lavoro, l’ASPI della legge Fornero, ma il sindacato lo vede come il fumo negli occhi. Dunque, di quegli strumenti non ci serviamo abbastanza, perché implicano di riconoscere quando un posto di lavoro non esiste più e di procedere alle ristrutturazioni, con connesso riconoscimento delle perdite. Emerge distinto il quadro di un paese che non vuole fare i conti con i suoi problemi e preferisce rinviare. Non ci si può stupire se l’economia resta piatta.

Quella spesa infinita per i giornali di partito

Quella spesa infinita per i giornali di partito

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Dal 1993 al 2012 lo Stato italiano ha speso 330 milioni per sovvenzionare 25 giornali legati ad altrettanti movimenti politici. Altri 90 milioni di contributi, c’è scritto nel rapporto sui costi della politica del commissario alla spending review Carlo Cottarelli e curato dal gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon, li abbiamo versati a partire dal 2003 a sole sei emittenti radiofoniche. Più di 37 a Radio Radicale, 26 a Ecoradio, quasi 17 a Città Futura, 5,2 a Veneto Uno, 3,6 a Galileo e persino 1,3 a Onda Verde. Tutte cifre che si devono sommare ad altre voci che hanno costituito il più imponente sistema di finanziamento pubblico dei partiti del mondo occidentale. Con la differenza che in questo caso ci troviamo di fronte a una zona grigia dove il confine tra l’attività politica vera e propria e un altro genere di interessi può essere veramente labile. Anche grazie a una normativa compiacente. Basta citare l’assurdità per cui, fino a un decreto legge approvato nel 2012 dal governo Monti, il contributo ai giornali veniva erogato sulla base delle tirature e non delle copie effettivamente vendute, raccontano sempre gli esperti del team di Bordignon. Segnalando come le rese dei quotidiani di partito si aggirino «in media intorno al 90%, da confrontarsi con il 22% del Corriere della sera e di Repubblica».

Ma questa zona grigia, insistono gli autori di questa parte del rapporto (Paolo Balduzzi, Marco Gambaro e Riccardo Puglisi), non è l’unica nella quale il limite fra finanziamento dei partiti e costi “indiretti” della politica è alquanto fumoso. Ci sono altre aree «che raggiungono dimensioni rilevanti e generano spesa strutturale» con «ordini di grandezza probabilmente superiori ai finanziamenti diretti ai partiti». Per esempio, i servizi reali di cui i politici godono nelle strutture di governo centrale e locale. Strutture nelle quali spesso «le remunerazioni sono inflazionate rispetto alle prestazioni richieste». E i politici «operano in modo da inserire persone appartenenti alla stessa area, indipendentemente dal merito e dal profilo professionale: si tratta in questo caso di premi o di pagamenti indiretti». Per non parlare di quelle «risorse degli apparati amministrativi che risultano di fatto al servizio dei politici», prefigurando «un uso privato e improprio di risorse pubbliche». Caso tipico, quello dell’impiego dei mezzi di un ministeri o di una Regione per i viaggi elettorali.

Poi ci sono le aziende pubbliche. Dove le nomine, dice il rapporto, sono politiche e dove spesso ai cambi di maggioranza corrispondono cambi di dirigenti apicali e a seguire dei livelli appena inferiori,senza che i precedenti dirigenti siano rimossi. Questi ultimi continuano a mantenere ruolo e salario, «pur essendo di fatto spinti in posizioni organizzative marginali». Non si spiega forse così il numero abnorme e crescente di società ed enti pubblici, che fra centro e periferia ha ormai superato ampiamente quota 8 mila e che Cottarelli ha definito «una situazione anomale nel contesto internazionale»?

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La Rai, per esempio. «A ogni cambio di governo, maggioranza e ad ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono 3-4 tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate. I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che ad esempio nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati». La mazzata alla tivù di Stato è tutta qui. Ma tremenda. E non tanto per la stoccata alla nave ammiraglia. Già un anno fa il deputato del Pd Michele Anzaldi denunciava che dei 113 giornalisti del Tg1 appena 32 erano redattori ordinari, mentre i soli capiredattori risultavano ben 34. Rapporto fra soldati semplici e graduati? Uno a 2,5.

La botta è micidiale perché nel rapporto sui costi della politica commissionato dal direttore d’orchestra della spending review Carlo Cottarelli a un pool di esperti coordinato da Massimo Bordignon, la Rai è assunta a simbolo poco edificante. L’emblema di quell’enorme indotto costituito dalle imprese pubbliche sulle quali la stessa politica scarica un peso economico non indifferente. Tanto da indurre gli autori del documento – che il governo ha deciso di rendere pubblico – a formulare una raccomandazione: quella che «le posizioni apicali nelle imprese pubbliche soggette a nomine politiche devono avere carattere temporaneo, con la previsione che la retribuzione segua la funzione effettivamente svolta». Vale per la Rai, come per tutte le altre migliaia di aziende controllate dal pubblico. Dove per pubblico si intende Stato, Regioni, Province e Comuni. E non è un caso che questo passaggio si trovi nell’ultimo capitolo, quello intitolato «Il sistema del finanziamento dei partiti», che comincia a pagina 86 del rapporto fino a ieri svanito e oggi finalmente ritrovato. Perché, come abbiamo tante volte ricordato, i canali attraverso cui la politica drena risorse pubbliche sono così numerosi da sfuggire a un calcolo preciso. Ragion per cui le raccomandazioni degli esperti di Cottarelli si sprecano. Come quella di «introdurre la massima trasparenza sui finanziamenti ai gruppi parlamentari», che nel solo 2012 hanno incassato 73 milioni: somma andata ovviamente ad aggiungersi ai rimborsi elettorali. O quella di alzare almeno al 10 per cento l’Iva sulle spese elettorali, che una legge d’altri tempi aveva fissato al 4 per cento appena: stesso livello vigente per i beni di prima necessità. Oppure quella di portare ad almeno 10 centesimi il francobollo per le lettere di propaganda politica, contro i 4 attuali. O ancora, quella di tagliare ancora del 20 per cento i sussidi alla stampa di partito. Anche se i risparmi non sarebbero certo dell’ordine di quelli che si potrebbero ottenere intervenendo sugli apparati istituzionali.

E qui viene il bello. Come abbiamo anticipato ieri, la relazione di 106 pagine consegnata nello scorso mese di marzo a Cottarelli contiene una radiografia approfondita dei costi della politica nei Comuni e nelle Regioni. Arrivando alla conclusione che su questo fronte si potrebbero realizzare economie per 630 milioni di euro l’anno oltre a quelle già portate a casa con le riforme fatte a partire dal governo di Mario Monti. Quasi metà, pari a 300 milioni e 698 mila euro l’anno, deriverebbe da interventi sulle amministrazioni comunali. Il rapporto suggerisce l’accorpamento dei piccoli Comuni (quelli sotto i 5 mila abitanti), la riduzione del 20 per cento del numero di consiglieri e assessori (oggi quasi 139 mila), l’eliminazione del trattamento di fine rapporto per i sindaci e il taglio compreso fra il 10 e il 20 per cento delle remunerazioni per il personale politico nei municipi al di sotto dei 15 mila abitanti. Tutte misure, si aggiunge nel documento, che andrebbero necessariamente estese anche alle Regioni a statuto speciale alle quali viene riconosciuta autonomia finanziaria nella gestione della finanza locale, quali Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. Altri 330 milioni sarebbero i risparmi attesi dall’applicazione dei «costi standard» agli apparati politici regionali. Alcuni dei quali, va detto, si sono mostrati decisamente riluttanti di fronte ai tagli già imposti sull’onda degli scandali di Batman&co. alla Regione Lazio. Innanzitutto sulla trasparenza. Nonostante in seguito al decreto Monti sia stata fissata una retribuzione lorda onnicomprensiva uguale per tutti i consiglieri (11 mila euro mensili), i dati pubblicati per legge sui vari siti «non dicono», sostiene il rapporto, «quanti consiglieri cumulano all’indennità di carica le varie indennità di funzione previste, ed è dunque impossibile calcolare la retribuzione effettiva». Poi c’è il caso della Sardegna, che ha fatto ricorso alla Corte costituzionale contro il decreto Monti e non l’ha applicato, dov’è fissata «un’indennità di carica molto più alta (14 mila euro) della soglia su cui possono cumularsi le altre indennità».

Del resto le differenze nei costi delle assemblee, fra Regione e Regione, restano rilevantissime anche dopo la quasi generale equiparazione delle indennità. La media nazionale per consigliere «è superiore ai 900 mila euro ma Lazio, Calabria e Sicilia spendono più di un milione e mezzo mentre Molise e Marche sono attorno ai 500 mila euro», rivelano gli autori. Affermando la necessità di ridurre anche qui, ulteriormente, di 266 unità il numero di assessori ed eletti, con un risparmio possibile di 35 milioni: più altri 25 se si allineasse lo stipendio del consigliere a quello del sindaco del capoluogo. In tutto, dunque, sessanta milioni. Che salirebbero a 107 se, come propone il rapporto, si eliminasse anche il rimborso forfettario mensile. «In fondo», scrivono gli esperti di Cottarelli, «ai percettori di redditi di lavoro dipendente non è in genere riconosciuto un rimborso per le spese attinenti alla loro attività». Non si capisce quindi per quale ragione i consiglieri regionali debbano averne diritto. Altri 50 milioni di minore spesa potrebbero derivare dalla revisione dei vitalizi pagati agli ex consiglieri in base ai cosiddetti diritti acquisiti: semplicemente ricapitalizzando i contributi effettivamente versati sulla base del sistema contributivo e ricalcolando così gli assegni mensili. I vecchi vitalizi rappresentano una fetta gigantesca del costo della politica regionale: 173,4 milioni nel 2012. Che continua a lievitare. Basti pensare che nella sola Regione Lazio l’esborso è salito di oltre il 30 per cento in due anni, da 15,9 milioni nel 2012 a più di 20 quest’anno.

Giro di vite su Regioni, Comuni e stipendi

Giro di vite su Regioni, Comuni e stipendi

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La prudenza. La necessità di non incattivire i rapporti con le Regioni mentre si ammorbidisce il Titolo V della Costituzione. O la voglia di non farsi altri nemici. Di ragioni per giustificare che il rapporto sui costi della politica sia in un cassetto anziché sul web come vorrebbe Carlo Cottarelli, ce n’è un migliaio: magari plausibili. Ma non accettabili. Non sono ragioni accettabili da un governo che ci ha promesso trasparenza assoluta e annunciato guerra agli sprechi. Anche perché se quella roba non diventa di pubblico dominio è come se non fosse mai esistita.

Ma cosa c’è in quel documento pronto da quattro mesi e ancora misteriosamente ignoto, come ha denunciato ieri con irritazione su questo giornale da Riccardo Puglisi, uno del gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon che l’ha curato? Per esempio, il fatto che il problema principale, come molti del resto ormai sostengono, è rappresentato dalle Regioni. Da qui la proposta di allineare il costo degli apparati politici regionali a parametri standard. Il che non significa soltanto gli stipendi degli eletti, ma anche il loro numero e quello del personale che gli ruota intorno, con tutte le spese relative. Garantirebbe un risparmio di almeno 300 milioni l’anno, e sarebbe un’operazione di puro buonsenso. Portata alle conseguenze più radicali potrebbe anche modificare la geografia politica. Un esempio? Secondo il rapporto la Regione Molise non avrebbe ragione di esistere. Ancora: chi ricopre un incarico pubblico ed elettivo non può avere uno stipendio e una pensione o un vitalizio, o magari addirittura due, come non raramente capita. Il tutto accompagnato anche da un articolato di legge bell’e pronto messo a punto con la collaborazione del predecessore del commissario alla spending review Cottarelli, Piero Giarda.

Il gruppo di lavoro incaricato di mettere a nudo gli aspetti più delicati (e scabrosi) di un sistema impazzito segnala circostanze incresciose nelle quali sono state rifiutate loro le informazioni. Il che tuttavia non ha impedito di scoprire come in molti casi norme moralizzatrici quali quelle del decreto Monti del 2012 sono state aggirate con autentiche furbate che hanno limitato la riduzione dei consiglieri prevista dalla legge, fatto rientrare dalla finestra spese uscite dalla porta, vanificato l’innalzamento dell’età pensionabile. Un fatto, quest’ultimo, clamoroso: Monti aveva previsto che dal 2012 in poi nessun consigliere regionale avrebbe più intascato il vitalizio prima di 66 anni, e ancora oggi alla Regione Lazio è invece possibile incassarlo a 50 grazie alla sopravvivenza delle vecchie regole. Per non parlare della Sardegna, dove l’ex presidente dell’assemblea regionale Claudia Lombardo, di Forza Italia, percepisce da pochi mesi un vitalizio da 5.129 euro all’età di 41 anni.

Il rapporto scomparso non risparmierebbe nemmeno i Comuni (un mondo da cui proviene il premier Matteo Renzi e alcuni dei suoi collaboratori più stretti a cominciare da Graziano Delrio) per i quali stima un minore esborso annuale di qualche centinaio di milioni grazie a una rigorosa politica di accorpamenti per quelli al di sotto dei 5 mila abitanti, i quali assorbono il 54 per cento della classe politica locale. Numerosissima, stando ai dati contenuti nella relazione della Corte dei conti sul rendiconto dello Stato, pubblicata qualche settimana fa. I politici comunali sono 138.834: uno ogni 427 cittadini italiani. Tanti. Troppi, anche se il loro costo unitario non è paragonabile a quello delle altre istituzioni. Con qualche significativa eccezione. Il documento cita il caso del Trentino Alto Adige, per sostenere la necessità, anche qui, di allineare gli esorbitanti stipendi dei suoi sindaci a quelli del resto d’Italia: considerando che il primo cittadino di Merano guadagna 3 mila euro al mese più di quello di Milano, città 35 volte più popolosa.

Per la Corte dei conti gli apparati politici comunali costano 1,7 miliardi l’anno, contro il miliardo e mezzo circa di Camera e Senato, che hanno 945 onorevoli più i senatori a vita, e il miliardo delle Regioni, dove si contano 1.270 fra eletti e assessori. Solo per pagare stipendi e pensioni di deputati e senatori si sono spesi nel 2013 ben 447 milioni, con un aumento di 8 milioni sul 2012. Ciò esclusivamente a causa della crescita della spesa per i vitalizi, pari ormai a metà del totale (220 milioni). Compresi gli europarlamentari e gli apparati provinciali, i politici italiani sono in tutto 145.591. Uno ogni 407 residenti nel nostro Paese. Il che la dice lunga sul peso della politica in Italia. I magistrati contabili riconoscono che nonostante l’aumento dei vitalizi le spese di Camera e Senato nel 2013 si sono ridotte rispettivamente del 5 e del 4 per cento. Inoltre il taglio dei vertiginosi stipendi del personale delle due Camere (arrivati a superare la media per dipendente di 150 mila euro l’anno) sarebbe ormai avviato. Mentre mancano pochi giorni alla rescissione dei costosissimi affitti dei palazzi Marini dell’immobiliarista Sergio Scarpellini, resa possibile da una legge voluta dal Movimento 5 stelle, che farebbero risparmiare a Montecitorio fra 32 e 37 milioni l’anno. Al netto s’intende, delle inevitabili cause giudiziarie che saranno intentate contro questa decisione. Vedremo. L’impressione è che per allineare davvero le uscite di Camera e Senato a quelle degli organismi equiparabili di altri Paesi la strada sia ancora lunga e insidiosa.

E se «il costo relativo al 2013» del Quirinale è stato di 228 milioni di euro, cioè «pari a quanto speso l’anno precedente», la Corte dei conti non manca di sottolineare che nel 2013 la presidenza del Consiglio ci è costata 458 milioni, con un aumento dell’11 per cento, e che gli apparati politici dei ministeri «hanno comportato una spesa di oltre 200 milioni». Le sforbiciatine saranno state dunque volenterose, ma di sicuro non sufficienti considerando la mole delle uscite delle sole strutture politiche istituzionali: 6 miliardi. Lo scorso anno le quelle centrali (Camera, Senato, Quirinale, Palazzo Chigi…) sono costate circa 3 miliardi, con un calo del 4 per cento sul 2012. Altri 3 miliardi sono stati spesi per mantenere quelle locali, giunte e consigli di Regioni, Province e Comuni: in flessione, secondo i magistrati contabili, del 5 per cento. Troppo poco, dopo un’indigestione di quella portata. I costi della politica «rappresentano una voce di spesa significativamente maggiore rispetto a quella sostenuta nei paesi demograficamente confrontabili con l’Italia, quali Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna. Ne consegue l’esigenza, non ulteriormente procrastinabile, di un’adozione di misure contenutive coerenti», conclude la Corte dei conti. Senza citare, per carità di patria, l’indotto. Innanzitutto quello dei partiti: sul quale si è fatta fin troppa melina. Tanto per dirne una, aspettiamo ancora la famosa legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, quella che dovrebbe regolamentare dopo quasi settant’anni natura e funzioni dei partiti. E la legge che ha riformato il finanziamento pubblico continua a suscitare perplessità. Non a caso quel rapporto svanito propone di anticipare l’abolizione dei rimborsi elettorali…

Sprechi pubblici, l’ultima moda travestirsi da privato

Sprechi pubblici, l’ultima moda travestirsi da privato

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Sale sulle ferite, le parole con cui Salvatore Nottola ha commentato pubblicamente giovedì 26 giugno il dilagare delle società pubbliche. Non solo al centro, dove il magma ribollente assume ormai dimensioni incontenibili. Il loro numero, intanto. Nessuno sa esattamente quante siano, considerando che «esse», spiega il procuratore generale della Corte dei conti, «sono soggette a frequenti modifiche dell’assetto societario». L’ultima rilevazione della stessa Corte ha censito 50 società partecipate dallo Stato: ma va tenuto conto che queste «a loro volta partecipano ad altre 526 società». Per un totale di 576 partecipazioni dirette e indirette. Poi ci sono quelle degli enti locali, e qui il numero sale vertiginosamente. Siamo infatti a quota 5.258. Alle quali, precisa ancora Nottola, «vanno aggiunti 2.214 organismi di varia natura» come «consorzi, fondazioni…» per una cifra complessiva che tocca quota 8.048.

I confini finanziari di tale universo sono sterminati. «Il movimento finanziario delle società partecipate dallo Stato, costituito dai pagamenti a qualsiasi titolo erogati dai ministeri nei loro confronti ammonta a 30,55 miliardi nel 2011, 26,11 miliardi nel 2012 e 25,93 nel 2013». Totale in tre anni 82,6 miliardi: come il costo annuale degli interessi sul nostro enorme debito pubblico. Ancora. «Il peso delle società strumentali sul bilancio dei ministeri», rimarca Nottola, «è stato di 785,9 milioni nel 2011, 844,61 milioni nel 2012 e 579,41 milioni nel 2013». Totale in tre anni, 2 miliardi 205 milioni: come la metà dell’Imu prima casa. «Quanto agli enti partecipati dagli enti locali», sottolinea il procuratore della Corte dei conti, «un terzo è in perdita». E non è molto difficile comprendere il perché. La ragione del proliferare di queste società tanto a livello centrale quanto locale ha ufficialmente a che fare con l’«esigenza di snellezza dell’azione amministrativa». Traduzione: siccome la burocrazia è lenta e inefficiente, allora ci si traveste da soggetti privati.

Peccato soltanto che questo abbia una serie di conseguenze piuttosto singolari. La prima è quella che portano con sé le società cosiddette in house, quelle controllate dal soggetto pubblico e costituite per erogare servizi in esclusiva a favore dell’azionista: l’effetto evidente, argomenta Nottola, è che la loro attività viene sottratta completamente alla concorrenza. Ma è niente al confronto di altri indigeribili riflessi. Come certe «scelte indotte da logiche assistenzialistiche o dall’intento di eludere i vincoli di finanza pubblica, specialmente riferibili all’attività contrattuale e alle assunzioni di personale». È sempre il procuratore generale della Corte che parla: «Tale enti spesso ricorrono, e la forma privatistica glielo consente, a reperire risorse lavorative all’esterno della struttura pubblica ricorrendo ad assunzioni e al conferimento di incarichi di prestazioni professionali e di consulenza esterna». Il travestimento da privato consente di aggirare in questo modo, per esempio, il blocco delle assunzioni stabilito per la pubblica amministrazione, per giunta evitando i concorsi. Le cronache degli ultimi anni, del resto, sono piene di scandali grandi e piccoli che si inseriscono in questo capitolo. Basti ricordare la famosa vicenda della “parentopoli” al Comune di Roma. Di fronte a tutto ciò, dice chiaramente Nottola, le armi a disposizione sono alquanto spuntate. «La carenza dei controlli favorisce episodi di cattiva gestione, non di rado di illeciti anche penali, i cui effetti dannosi si riflettono sul bilancio degli enti conferenti». In ultima istanza, quindi, sulle tasche dei contribuenti. Non vi chiedete perché finora nessuno abbia voluto mettere mano a una riforma radicale di questo sistema, imponendo regole chiare e controlli ineludibili. La risposta, ahimè, sarebbe scontata.