silvio berlusconi

Nazareno Economico

Nazareno Economico

 Davide Giacalone – Libero

La recessione, confermata dai dati Istat, è una sorpresa solo per chi ha voluto credere alle favole. La contemporanea crescita della produzione industriale non smentisce quel quadro fosco, semmai conferma che scivoliamo perché continuiamo a mettere sulle spalle dell’Italia che corre la zavorra insopportabile dell’Italia inerte. Della seconda fa parte anche una politica tutta concentrata nel mostrarsi dinamica su temi che, nel migliore dei casi, daranno frutti in un tempo troppo lungo. Al contrario di quanti non riescono ad accettare l’idea stessa che esista un patto fra Renzi e Berlusconi, pertanto, a me sembra che quello sia destinato a restare roba politicista, se non sarà in grado di estendersi alle scelte economiche. Serve un Nazareno dell’economia. Altrimenti il primo sarà solo una parentesi nel nulla.

Ne trovo conferma nelle parole di Pier Carlo Padoan, che, rispondendo alle domande di Roberto Napoletano, si mostra ripetutamente stralunato e isolato. Assicura, il ministro dell’economia, che non supereremo il 3% del rapporto fra deficit e prodotto interno lordo. Il direttore del Sole 24 Ore, gli chiede, incredulo, come questo sia possibile, visto che la spesa corre, il debito sale e il pil scende. Risponde: «In base alle informazioni che ho adesso …». Siamo ad agosto, mancano quattro mesi alla fine dell’anno. Se quelle informazioni sono esatte, ci dica quali sono e in che consistono. Se sono campate per aria vuol dire che al ministero dell’economia guidano bendati. In ogni caso, il tema della stagnazione recessiva non è un esclusivo problema di contabilità pubblica, lo scivolare indietro e il non riuscire a far presa sul terreno e riprendere a camminare, non è un malanno solo dal punto di vista dei parametri e dei conti statali, è un dramma collettivo, un danno economico, un segno che il guasto è profondo. E mentre sui numeri statali si può raggiungere un qualche accordo (ci credo poco), o anche barare (non è bello, ma neanche nuovo), i conti con la realtà non si possono eludere. Non ho visto la faccia di Padoan quando il capo del governo di cui fa parte, Matteo Renzi, ha detto che punto più punto meno, cosa volete che cambi, oppure che l’estate, prima o dopo, arriva (affermazione inesatta anche dal punto di vista meteorologico). Non l’ho vista, ma la immagino.

Dice, Padoan, che si deve accelerare sulle riforme. Vero. Ma quali? Quella del Senato arriverà a compimento, in un epico scontro fra chi sostiene che nulla si deve toccare e chi ritiene che basta deformare per poter dire che è bello cambiare, nella prossima primavera. Quando sarà arrivata non servirà a nulla, senza passare da uno scioglimento del Parlamento. Sono tempi manco parenti di quelli dell’economia. Ma, dice Padoan, conta la riforma del mercato del lavoro. Vero. Ma quale? Si rende conto che, fin qui, siamo solo a un decreto sui contratti a tempo determinato? Senza contare che lo si è fatto passare dicendo che non intacca l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, il che, a parte che lo ignora, supera e seppellisce, dimostra una dipendenza ideologica da un conservatorismo che non possiamo permetterci. Per il resto, al momento mancano anche solo i progetti. Poi c’è la riforma della pubblica amministrazione, dice Padoan. Vero, ma dimostra il contrario di quel che lui crede: nel corso di quella discussione non solo una maggioranza parlamentare, ma il governo stesso di cui fa parte, per bocca di ministri, sottosegretari e del suo presidente, festeggiavano l’idea di mandare anticipatamente in pensione i dipendenti pubblici, in modo da assumerne altri. Supporlo significa non avere capito nulla di quel che ci accade. È vero che a fermare questa roba è stata la Ragioneria generale dello Stato, quindi un’amministrazione che dipende da Padoan, ma ciò ripropone la dicotomia dissociata fra chi imposta la politica e chi garantisce i conti. Fatto non nuovo e comunque pessimo. A questo aggiungete che Padoan dice di apprezzare molto il lavoro di Carlo Cottarelli, spettacolarmente scaricato da Renzi, e avrete composto l’immagine di un ministro isolato. Quasi estraneo al governo. Come se ce lo avesse messo un altro. Che è proprio quel che è accaduto.

Alcune cose sono state realizzate, dice Padoan, come la delega fiscale. Vero, ma dimostra che serve un Nazareno economico. Perché quella delega è stata resa possibile anche dal lavoro di Daniele Capezzone, in qualità di presidente dell’apposita commissione parlamentare, esponente dell’opposizione. È la conferma di quel che sosteniamo, da mesi.

Non mi disturba affatto l’esistenza del Nazareno. Sostengo, però, che l’equivoco va chiarito al più presto: se porta alle elezioni, per consentire a Renzi di restare capo del partito maggioritario e a Berlusconi di restare dominus di quello indispensabile affinché il primo non pedali a vuoto, allora ci si deve sbrigare; se, invece, punta alla legislatura, allora deve allargarsi all’economia. Altrimenti diventerà un patto fra incoscienti, incapaci e disperati.

 

L’altro Nazareno

L’altro Nazareno

Davide Giacalone – Libero

Silvio Berlusconi e Matteo Renzi hanno contemporaneamente riunito i propri parlamentari e simultaneamente chiesto loro di essere leali e avere fiducia nelle capacità dei loro capi. Ovvero di loro due. Hanno stretto un patto, denominato “del Nazareno”, da quel patto è nato il governo Renzi, da quello s’è avviato il cambiamento della Costituzione, come la riforma del sistema elettorale. Ciascuno dei due ha pagato un prezzo, ciascuno ha avuto la propria convenienza, entrambe si mostrano fermi nel mantenere la parola data. Sarebbe tutto assai bello, se non fosse che il patto verte su ciò che forse è necessario, ma non su quello che certamente è urgente.
La sera del 25 febbraio 2013, quando si contarono le schede elettorali, fui tra quelli che ebbero modo di dirlo subito: questa legislatura si governa ed ha un senso solo se si stringe un accordo fra la destra e la sinistra. L’accordo deve reggersi su due punti: la messa in sicurezza dei conti e il cambiamento del sistema elettorale. Il Partito democratico, allora nelle mani di Bersani, rifiutò questa impostazione e si massacrò. Mi sento, quindi, un nazareniano ante Nazareno. Così come, del resto, fui tra quanti guardarono con interesse e simpatia al giovane sindaco di Firenze e ai suoi primi tentativi di dire la sua sulla scena nazionale. Il fatto è, però, che sia dall’accordo che dall’azione di governo è stato cancellato il primo, più urgente e più importante punto: i conti. Anzi, leggo (incredulo) che si sostiene la possibilità di animare l’intesa sulla Costituzione e lasciare dilagare la rissa sull’economia. Questo significa che i due ritengono prioritario controllare le frizioni e i conflitti all’interno dei gruppi parlamentari, piuttosto che provare a governare gli inevitabili conflitti sociali connessi a riforme economiche che, se vere, non sono indolori. È una davvero curiosa inversione delle priorità. Che risponde ad una logica culturale e politica: governare veramente non è possibile, ma è necessario controllare le Aule parlamentari, possibilmente riducendole al singolare, perché da quelle dipende non la continuità di governo, ma la stabilità dei governanti. Rassegnarsi a questo è suicida.
Tanto più che senza un Nazareno economico la sfida continuerà a svilupparsi in senso dannoso. Come Berlusconi volle alzare le pensioni minime così Renzi ha voluto alzare alcuni redditi, entrambe convinti che da quello dipenda il consenso e ambedue speranzosi che la spinta della domanda interna regga il prodotto interno lordo. Il tandem, purtroppo, pedala in senso opposto: crescendo i redditi (di poco per ciascuno, ma abbastanza nell’insieme) senza che cresca il lavoro diminuisce la produttività e la competitività, azzoppando la sola parte d’Italia che ancora prova a correre. E siccome senza sviluppo e con più spesa non si può far crescere il debito (che cresce per i fatti suoi), né sfondare il deficit (che è il preludio di nuovo debito), ne discende che, oggi come ieri, quel che si da con una mano si toglie con quella fiscale. Magari non esattamente agli stessi, ma in un forsennato gioco a non cambiare nulla. Questa logica non solo non cura il male, ma è il male.
Siccome tutto questo è evidente, e siccome è altrettanto chiaro che dominare i conflitti sociali, in un Paese che s’impoverisce, è difficile se altri si mettono a soffiare sul fuoco o bassamente speculano sulle difficoltà oggettive, ecco che aveva ed ha un senso che su quel terreno si stringa un accordo: mettiamo in equilibrio i conti, tagliamo la spesa pubblica da tagliare (tanta), dismettiamo patrimonio e abbattiamo il debito, nel frattempo riformiamo il sistema elettorale e lasciamo che sia il tempo a dimostrare quanto siamo stati ragionevoli, rimandando a subito dopo la ripresa della normale e sana dialettica fra diversi. E se qualche parlamentare scalpita, provando a farsi famoso intralciando questo importante lavoro, che si usi pure la frusta. Invece ci si è incaponiti su una cosa, la riforma costituzionale, che se la guardi da lontano ti sembra utile, ma non certo risolutiva, e se la guardi da vicino preferisci sperare che sia inutile. Il metodo giusto per la cosa sbagliata. Una maledizione.