spesa pubblica

Sulla spesa il fronte più difficile

Sulla spesa il fronte più difficile

Stefano Lepri – La Stampa

La questione non è più tanto se la Commissione europea accetterà questi numeri, quanto se li considererà verosimili. Gli obiettivi che il governo si pone con la legge di stabilità approvata ieri sera appaiono validi. Le risorse per raggiungerli non è chiarissimo come saranno trovate; 3,8 miliardi dalla lotta dell’evasione fiscale e 15 da tagli alle spese sono cifre di grande ambizione. Matteo Renzi l’ha definita una manovra di bilancio «anticiclica», ossia, in gergo economico, volta a rilanciare l’economia. Non è esattamente così. Nelle grandi cifre, è grosso modo neutrale; scelta corretta rispetto all’intervento ulteriormente recessivo che sarebbe risultato da una applicazione schematica delle regole europee. Potrà essere espansiva se sarà costruita bene, sostituendo soldi ben spesi a soldi mal spesi. Al calo del prelievo fiscale, 8 miliardi aggiuntivi ai 10 già promessi, dovrebbe accompagnarsi una vera riduzione di spese poco utili. Potrà esserlo se le grandi riforme, come spera Piercarlo Padoan, avranno effetti pronti sulla fiducia di chi lavora e di chi investe.

Tre ipotesi sono possibili. Primo, gli interventi sulla spesa saranno maldestri; l’esperienza passata sui «tagli lineari» ci dice che cambiano poco e per di più non durano. Secondo, i tagli sono fittizi e il deficit 2015 oltrepasserà la soglia del 3%, con rialzo dei tassi sul debito e sanzioni europee. Terzo, i tagli saranno ben concepiti, e proprio per questo solleveranno una tempesta di resistenze. Purtroppo incidere sulle cattive erogazioni di denaro pubblico per una cifra così grande, 12,3 miliardi aggiuntivi rispetto alle misure già in corso, richiede che si colpiscano interessi costituiti ben capaci di difendersi. È già partita al contrattacco la politica locale, dove gli sprechi sono assai diffusi. Vedremo nelle prossime ore chi altri alzerà le barricate.

Solo riforme efficaci e un uso migliore delle risorse possono azzittire chi in Europa vorrebbe costringerci a una regola – quella dell’«obiettivo di medio termine» – sorpassata dall’evolversi della crisi. L’Italia l’aveva fatta propria, inserendola anche nella Costituzione, dopo gli enormi rischi corsi nel 2011; rispettarla quest’anno significherebbe altri posti di lavoro in meno. Tutta l’economia mondiale non riesce ad uscire appieno dalle difficoltà, come mostrano anche i dati giunti ieri dagli Stati Uniti; il ribasso del greggio segnala timori di recessione. E’ assurdo dare la colpa di tutto all’austerità nell’area euro, visto che anche Svezia e Svizzera sono in deflazione; varie sono le cause se anche la gran parte dei Paesi emergenti rallenta. In passato, il vincolo delle regole esterne ha fatto solo bene all’Italia, ponendo freni alla cattiva politica. Ora una azione di rilancio spetterebbe alla Germania, che ha i bilanci in ordine. Non lo vuole fare, per una debolezza politica interna che ributtata all’esterno sembra forza; e allora il male di gran lunga minore è che l’Italia temporaneamente vi si sottragga.

I rischi ci sono. Lo mostra la Grecia, che nell’attuale fase di calma dei mercati finanziari progettava di sottrarsi in anticipo alla sorveglianza della troika (Commissione europea, Bce, Fmi). Meglio che non lo faccia – si vede in queste ore – soprattutto perché politicamente non è stabile, elezioni anticipate non possono essere escluse, con una vittoria dell’estrema sinistra. L’Italia non è né fragile come la Grecia né altrettanto malmessa; però è anche otto volte più grande. Per questo gli altri Paesi dell’area euro diffidano di noi. Dobbiamo loro chiarezza di propositi; e, magari, anche la lucidità di indicare verso quali regole migliori potremmo muoverci tutti insieme.

Si sa dove tagliare, se si vuole

Si sa dove tagliare, se si vuole

Marco Bertoncini – Italia Oggi

Peccato che il lavoro svolto da Carlo Cottarelli sia destinato a restare in larga misura inattuato. Eppure basterebbe applicare anche soltanto una parte dei suoi suggerimenti, consigli, riflessioni, per ottenerne ampi vantaggi. Citiamo un solo caso, venuto fuori ieri nel corso della seduta della commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria: il numero dei Comuni. Il commissario alla revisione della spesa, ormai in limine vitae, ha osservato che 8.000 Comuni sono troppi, che bisognerebbe ridurli (così da consentire fra l’altro un più facile coordinamento), che occorrerebbero «meccanismi premiali» per favorire gli accorpamenti.

Andrebbe osservato che anche venti regioni sono troppe: il Molise potrebbe costituire una provincia non una micro regione a sé, popolosa come un municipio di Roma Capitale. Sono troppe pure le centodieci e oltre province: ovviamente, se ne era annunciata prima la riduzione, poi la soppressione completa, ma finora si è vista solo la soppressione del suffragio popolare. E poi sono troppe le aziende partecipate i consorzi, gli enti intermedi… Basterebbe pensare a quel che succede in questi giorni, in conseguenza dei malanni ambientali: si rimpallano le responsabilità regioni e autorità di bacino (o come si chiamano), consorzi di bonifica e comuni, protezione civile e perfino tribunali amministrativi, senza dimenticare che ci sono perfino le non dissolte province a introitare il loro sempre vivo tributo ambientale, con destinazione ignota ma pagato come addizionale sulla Tari.

Sì, Cottarelli ha ragione: bisognerebbe promuovere gli accorpamenti. Non la semplice nascita di unioni fra comuni, ma la totale dissoluzione di più comuni piccoli in un solo comune maggiore, più esteso e più popoloso. La questione non va ristretta ai cosiddetti oneri per la politica, perché in tal caso il risparmio (pur presente) sarebbe ridotto: va invece inserita in un discorso di semplificazione dei troppi e troppo invadenti e spesso conflittuali enti pubblici, per diminuirne sia il numero sia la prevalenza nella vita civile. Secondo recenti dati dell’Istat, oltre 3.500 Comuni contano meno di 2.000 abitanti ciascuno, più di 2.100 hanno una popolazione fra i due e i cinque mila abitanti, altri 1.100 e passa stanno sotto i 10mila amministrati. Sarebbe fuori luogo chiedere di accorpare, tempo un anno, almeno i quasi 140 enti che hanno meno di 150 abitanti, a livello cioè di un condominio nemmeno troppo popoloso?

Una scossa da realizzare con serietà

Una scossa da realizzare con serietà

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Fosse solo una partita di poker, tra lanci e rilanci, sarebbe divertente. Ma non lo è. La posta in gioco è tremendamente più seria e cruciale: la ripresa di un Paese stremato e il suo rapporto con l’Europa e con i mercati. Dietro e davanti l’annuncio del premier Matteo Renzi di una legge di stabilità da 30 miliardi senza aumenti fiscali; la spending review per 16 miliardi; l’abbattimento dell’Irap per 6,5 miliardi; il taglio per 3 anni dei contributi per chi assume a tempo indeterminato; la possibilità di ricevere il Tfr in busta paga ci sono questi numeri e questa impostazione. Mix che se confermato in modo chiaro nel testo di legge può segnare la svolta attesa. Oppure, in caso contrario, aprire una finestra sul burrone.

Renzi ha messo sul piatto la credibilità sua e della terza economia dell’Eurozona. Lo ha fatto tirando dritto su una strada dove non mancano le curve pericolose (a partire dall’esame non scontato dell’Europa sulla deviazione dal pareggio di bilancio) e che può essere attraversata da molte incognite. Le preoccupazioni formulate da Bankitalia hanno un loro spessore di veridicità e sarebbe un errore non tenerne in debito conto. Sarebbe sbagliato sottovalutare anche le contestazioni. Infine, ieri come oggi, non è possibile trattare il tema delle coperture finanziarie con un’alzata di spalle. D’altra parte gli impegni assunti dal premier suonano con toni diversi da quelli di uno spot di giornata. Al contrario. La strategia d’attacco prospettata indica una scelta di politica economica e non un compromesso dove tutto “si tiene”. Di queste mezze soluzioni inservibili ne abbiamo collezionate a bizzeffe e l’Italia ha pagato un prezzo altissimo. Se ne ricordi, domani, il Governo.

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Paolo Russo – La Stampa

La legge di stabilità rischia di falciare i servizi sanitari delle regioni più virtuose e i treni dei pendolari. Il contributo richiesto ai governatori è ancora di 2 miliardi, anche se si tratta per abbassare l’asticella a 1,5-1,2 miliardi. Un taglio «fai da te», perché il governo non indicherebbe alcuna misura per conseguire il risparmio, ma lascerebbe mani libere alle Regioni. Libere per modo di dire, visto che 1’80% dei loro bilanci è assorbito dalla sanità e la restante parte in larga misura dal trasporto regionale. Messa così la sforbiciata altro non sarebbe che un taglio lineare, destinato a mettere con le spalle al muro proprio chi in sanità la spending review l’ha già fatta. Per indorare la pillola potrebbe non essere iscritta a deficit la spesa per investimenti, mentre un aiutino alle Regioni arriverebbe dalla conferma anche per il 2015 del 5% di taglio dei prezzi dei dispositivi medici.

Per risparmiare quei 2 miliardi il menù sanitario esiste già. È quello del Patto per la salute, sottoscritto appena a fine luglio da governo e Regioni che contiene misure per 10 miliardi di risparmio in tre anni. Quel Patto prevede prima di tutto la centralizzazione degli acquisti, sconosciuta a larga parte delle Asl del Sud. Poi la razionalizzazione della rete ospedaliera, con la chiusura e il riaccorpamento dei reparti sottoutilizzati o con performance scadenti. Tutte misure largamente applicate dalle regioni a Nord del Lazio. Dietro l’angolo potrebbe esserci l`aumento di ticket. A fine novembre i tecnici di Stato e Regioni sforneranno la proposta che riduce il numero degli esenti per rendere meno salato il contributo chiesto per visite specialistiche e accertamenti diagnostici.

Coraggio, tagli senza illusioni

Coraggio, tagli senza illusioni

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Matteo Renzi dice che «sarà la più grande opera di taglio delle tasse mai tentata». Non possiamo che augurargli (e augurarci) successo. Ma abbiamo il dovere di chiedere chiarezza su certi numeri. La manovra da 30 miliardi con riduzione di imposte per 18 sarà finanziata allargando i cordoni della borsa? O ridimensionando in modo deciso e intelligente la spesa pubblica improduttiva, come sarebbe doveroso? Il sospetto che prevalga la prima ipotesi non può essere scartato. Spiega il premier che la spending review prevede tagli per 16 miliardi. Ed è proprio questo il punto più delicato: si ha la sensazione che dietro a quel numero ci sia ben poco.

Alla notizia che Cottarelli avrebbe gettato la spugna, Renzi era rimasto impassibile. Promettendo: «La spending review la faremo anche se lui va via». E aggiungendo: «Abbiamo una strategia». Ma quale fosse non è mai stato chiarito. Il piano che avrebbe dovuto far risparmiare 34 miliardi in tre anni è finito in chissà quale cassetto. Mentre arriva semmai qualche segnale opposto e disarmante. Le famose partecipate, per esempio. Punto qualificante della spending review di Cottarelli era il taglio della pletora di società pubbliche spesso tenute in vita solo per assicurare poltrone a ex politici, amici e sodali. Con il risultato di portarle dalle attuali 8 mila a circa mille, ottenendo risparmi miliardari. Obiettivo sacrosanto condiviso da Renzi in pubbliche dichiarazioni. Intanto però il solito deprecabile andazzo proseguiva. Qualche caso? In agosto la Sogesid, società che nonostante 118 dipendenti nel 2013 ha pagato 380 consulenze spendendo 8,5 milioni e che il governo Monti avrebbe voluto chiudere ritenendola inutile, è stata rianimata e affidata a una vecchia conoscenza: il supercasiniano Marco Staderini.

Un mesetto prima l’ex deputato del Pd Pier Fausto Recchia, rimasto senza seggio, era diventato ad di Difesa servizi: spa inventata dall’ex ministro La Russa fra le feroci contestazioni della sinistra. Oggi, magicamente svanite. Sempre in agosto ecco alla presidenza di Mistral Air, compagnia aerea delle Poste di cui si ipotizzò lo scioglimento in Alitalia, un altro ex onorevole pd cessato dal mandato nel 2013: Massimo Zunino. La storia si ripete. E il verso, lo diciamo con amarezza, sembra sempre lo stesso.

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Serena Uccello – Il Sole 24 Ore

Nel 2013, i cittadini che hanno beneficiato di un ammortizzatore sociale (Cassa integrazione guadagni, mobilità e indennità di disoccupazione, Aspi e MiniAspi) sono stati quasi 4,6 milioni, con un aumento del 6,5% rispetto al 2012 (280mila unità in più). Se si paragonano, invece, i dati del 2013 con quelli del 2008 (ultimo anno senza la piena crisi), l’aumento è stato di 2,4 milioni di persone (+113,6%), in quanto in quell’anno le persone beneficiarie di ammortizzatori sociali furono 2,1 milioni. A rivelarlo è il terzo Rapporto del Servizio Politiche del Lavoro della Uil, secondo cui nel 2013 sono stati spesi 23,8 miliardi, segnando un aumento del 5% rispetto all’anno precedente (1,1 miliardi di euro in più).

«Un gran numero di persone – sottolinea Guglielmo Loy, segretario Confederale Uil – circa un terzo dei lavoratori del settore privato, ogni anno conosce l’esperienza, spesso amara e angosciante, in alcuni casi un sollievo per l’aver evitato comunque il licenziamento, di avere una forma di sostegno al reddito». Un sistema di protezione sociale che, tra indennità e contributi figurativi, nell’ultimo anno è costato 23,8 miliardi di euro, (+13,8 miliardi di euro rispetto al 2008). Il tutto finanziato per 9,1miliardi di euro con i contributi di lavoratori e aziende e per 14,7 miliardi di euro a carico della fiscalità generale.L’importo medio, tra sussidi e contribuzione figurativa, per ogni beneficiario di ammortizzatori sociali, è di 5.191 euro pro capite (4.353 euro per la cassa integrazione, 18.589 euro per la mobilità e 4.768 euro per l’Aspi, Mini Aspi e indennità varie di disoccupazione). Nello specifico – spiega Loy – le persone protette dalla cassa integrazione guadagni, tra ordinaria, straordinaria e deroga, sono state 1,5 milioni (in diminuzione del 3,9% rispetto al 2012); mentre aumentano dello 0,9% le persone in mobilità, ordinaria e in deroga (arrivando a 187mila unità complessive); mentre tra Aspi, MiniAspi e Indennità di disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, i benefieiari sono stati 2,8 milioni con un aumento del 13,6% rispetto al 2012 (+341mi-
la).

Tornando ai costi, perla cassa integrazione la spesa è stata di 6,7 miliardi di euro, in aumento del 9,9% rispetto al 2012 (604 milioni di euro); per le indennità di mobilità ordinaria e in deroga il costo è stato di 3,5 miliardi di euro, con un aumento del 19,6% sul 2012 (+568 milioni di euro); perAspi, Mini Aspi e disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, il costo è stato di 13,6 miliardi di euro in leggera diminuzione rispetto al 2012 (-0,3%). Il capitolo degli ammortizzatori in deroga, finanziati completamente dalla fiscalità generale, nel 2013 e stato, tra cassa integrazione in deroga e mobilità in deroga, di 2 miliardi di euro.

Una dote ridotta

Una dote ridotta

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Rispetto al target di 16 miliardi di tagli indicato nel Def di aprile, sarà una “spending” in formato ridotto quella che troverà posto nella legge di stabilità. A confermarlo è l’obiettivo minimo di 3 miliardi, come effetto sull’indebitamento netto Pa, che si sono dati i ministeri con le loro proposte di riduzione della spesa.

A sostenere il peso maggiore dei tagli sembrano destinati ad essere, ancora una volta, le Regioni e gli enti locali. Dopo aver deciso di azionare la leva del deficit per 11,5 miliardi, rimanendo comunque sotto il tetto del 3%, il Governo per completare la prossima legge di stabilità da 23-24 miliardi dalla fisionomia “espansiva” conta di recuperare almeno 10 miliardi dalla spending. E quasi la metà dei questa dote, ovvero 4-4,5 miliardi, dovrà essere garantita dai Governatori e dai sindaci. Questi ultimi avranno comunque in cambio un allentamento del Patto di stabilità interno per un miliardo. Il risultato dei ministeri, anche se dovesse essere superiore all’obiettivo minimo di 3 miliardi, appare quindi al di sotto delle aspettative, anche alla luce del pressing del premier per rendere operativa sulla maggior parte delle voci di spesa la regola del taglio secco del 3%. Regola che comunque in molti casi è stata recepita, come al ministero dell’Economia dove proprio con questo strumento sono fine nel mirino Agenzia fiscali e Guardia di finanza.

La mappa, ancora non definitiva, confezionata sulla base delle ipotesi di intervento mese a punto dai singoli dicasteri, e sulla quale sono chiamati a operare le scelte finali il premier Matteo Renzi e il ministro Pier Carlo Padoan, mette comunque in evidenza un atteggiamento non passivo come in passato rispetto alla necessità di scovare sprechi e spesa inefficiente. Non a caso le proposte di intervento arrivate a palazzo Chigi produrrebbe un effetto superiore ai 6 miliardi sul saldo netto da finanziare. Anche se con contributi diversi: molto più alto e con scelte non sempre semplici da parte di ministeri come il Lavoro e l’Istruzione che hanno elaborato un pacchetto di tagli non del tutto soft, e a volte non proprio mirati, come dimostra l’ipotesi di intervento sugli sgravi contributivi per la contrattazione di secondo livello; ridotto al minimo e con proposte di intervento non proprio numerose da parte dei ministeri della Salute e delle Infrastrutture.

Prima i tagli fiscali, poi quelli alla spesa

Prima i tagli fiscali, poi quelli alla spesa

Jean Pisani-Ferry – Il Sole 24 Ore

Mentre l’eurozona discute di come sfuggire alla trappola della stagnazione, c’è una domanda che sta diventando sempre più importante: i governi saranno in grado di ridurre in modo credibile la spesa pubblica in futuro evitando tagli immediati? Per fortuna la risposta è senz’altro affermativa: i modi per garantire che un accomodamento fiscale venga poi seguito da un consolidamento ci sono sempre. La crescita e l’inflazione nell’eurozona continuano a essere troppo deboli. Il quadro che la Bce ha fatto di recente è avvilente e il presidente della Bce Mario Draghi ha ammesso chiaramente che i rischi permangono. È il tipo di situazione in cui la politica fiscale dovrebbe venire in aiuto.

In un recente articolo Francesco Giavazzi e Guido Tabellini dell’Università Bocconi hanno proposto tagli fiscali permanenti seguiti da tagli graduali alla spesa. Se accompagnato da riforme pro-crescita dei prodotti e dei mercati del lavoro, un programma del genere potrebbe generare vantaggi a lungo termine sul fronte dell’offerta (grazie a una pressione fiscale minore) e uno stimolo temporaneo alla domanda che contribuirebbe a rilanciare la crescita dell’eurozona. Ci sono due obiezioni a questo approccio. La prima è che un’azione del genere violerebbe i requisiti stabiliti dal fiscal compact dell’Ue. Cosa che non è del tutto vera. Dei diciotto membri dell’eurozona, dieci non hanno più deficit considerati eccessivi e anche per quelli sotto stretta sorveglianza, come Francia e Spagna, esistono delle clausole scappatoia: in caso di “un prolungato periodo di bassissima crescita annua del Pil” l’Ue può concedere un’esenzione dall’aggiustamento annuale previsto. La seconda obiezione è che i governi non riusciranno a mantenere le loro promesse. Per rispondere a Giavazzi e Tabellini, Roberto Perotti (sempre della Bocconi) ha osservato che la strategia graduale non sarebbe semplicemente credibile. I tagli alla spesa sono decisioni politiche difficili e i governi non possono impegnarsi ad adottarle con certezza, perciò Perotti dice che la combinazione “tagli fiscali adesso e alla spesa poi” comporterebbe un rischio morale enorme. Perotti non ha torto. Il commissario italiano per la spending review, Carlo Cottarelli, ha notato di recente che ancora prima di essere attuati, i tagli alla spesa venivano utilizzati per finanziare nuove spese. L’economia politica della riforma della spesa pubblica è delicata e i programmi macroeconomici ben congeniati rischiano di venire strumentalizzati da politiche elettorali.

Tuttavia una soluzione a questo problema c’è: i governi e i parlamenti possono procrastinare l’azione senza ritardare le decisioni. Nulla impedisce loro di decidere adesso che le pensioni verranno ridotte nel giro di tre anni o che un dato sussidio industriale non ci sarà più a partire dal primo gennaio 2017. Se i parlamenti vogliono legarsi le mani da soli, possono farlo semplicemente varando una legge. Inoltre, l’Europa ha gli strumenti per verificare che gli impegni presi mantengano il loro valore sul lungo periodo. Una strategia “tagli fiscali adesso e alla spesa poi” è dunque praticabile. Anche se sarebbe impegnativa da realizzare e far osservare, potrebbe essere credibile ed essere compatibile con la responsabilità fiscale se venisse accompagnata da forti meccanismi vincolanti a livello nazionale ed europeo. Naturalmente non tutti pensano che questa strategia, per quanto possibile, sia auspicabile, ma questa è un’altra storia.

Renzi ha perso le forbici

Renzi ha perso le forbici

Francesco Forte – Il Giornale

Dove è finita la spending review, il taglio delle spese che doveva essere effettuato nella legge di stabilità triennale 2015-2017? Dalla montagna di Matteo Renzi è saltato fuori il topolino. Aveva assicurato un taglio di spese per 16 miliardi. Poi lo ha diminuito a 13. Per il 2015 è di soli 5. Mentre per il 2016 niente riduzioni: sono state infatti approvate le cifre del “bilancio tendenziale”, quello che si forma automaticamente, ossia che i singoli ministeri e Regioni, Province e Comuni hanno preventivato per conto proprio. Con in più una deroga al patto di stabilità degli enti locali che consentirà di sforare il loro deficit in certi (numerosi) casi.

Se il risultato fosse una legge di stabilità che genera crescita, questo mancato taglio di spese e questo invito agli enti locali a spendere potrebbero essere accettabili come mezzo per mettere benzina nel motore dell’economia. Ma la previsione di crescita del Pil per il 2015 è meschina: +0,6 per cento contro il -0,3 del 2014, periodo per il quale il premier aveva, sino a pochi mesi fa, assicurato che ci sarebbe stata una crescita grazie agli 80 euro in busta paga. Dunque il governo ammette che la sua legge di stabilità non avrà effetti positivi, nonostante la manovra espansiva che la Bce di Mario Draghi ha già messo in campo e nonostante la svalutazione dell’euro del 10 per cento, misura che dovrebbe stimolare le nostre esportazioni e ridurre le nostre importazioni.

Non si può neppure dire che il mancato taglio delle spese, ossia l’affossamento della spending review del commissario Cottarelli (rispedito a Washington), sia giustificato dall’esigenza di agevolare la riforma del mercato del lavoro, che causa proteste sindacali e divisioni politiche nel Pd. Quest’ultima sta annacquandosi. La Bce ha purtroppo rinviato a dicembre le misure di credito diretto alle imprese perché il disegno di legge delega sul lavoro, già vago, rischia di peggiorare. Draghi continua a dire che senza le riforme l’ampliamento del credito all’economia è poco efficace, perché non c’è abbastanza convenienza a investire. E, insieme alla riforma del lavoro, raccomanda di tagliare le spese per ridurre le imposte.

Invece con la legge di stabilità attuale c’è un rischio di aumento preoccupante delle imposte. Il testo governativo, infatti, viola le regole europee sulla riduzione del deficit di bilancio per il 2015 e per il 2016. Per il 2015 lo sforamento è di 5,5 miliardi di euro. Per il 2016 potrebbe aggirarsi sui 16, in caso di peggioramento. Ciò viene tamponato con l’utilizzo della clausola di salvaguardia, che contempla l’aumento dell’Iva e di altre imposte indirette per 16 miliardi. L’aumento dell’Iva ordinaria dal 22 al 23% può portare nelle casse pubbliche 5 miliardi di euro. Vi è dunque il rischio di una maxi manovra con l’aumento delle aliquote del 10% e del 4%, di accise sulla benzina eccetera.

Eppure il commissario Cottarelli, prima di andarsene, aveva reso pubblico un diligente studio sulle società partecipate dagli enti locali, che sono 7.700, con mezzo milione di dipendenti. Dal documento risulta che i deficit ufficiali di bilancio sfiorano i 2 miliardi. C’è un ulteriore deficit occulto di quasi 18 miliardi ripianato con sovvenzioni degli enti locali. Dallo studio del commissario alla spending review si evince che nel giro di un biennio si potrebbero ricavare risparmi di 4-5 miliardi, pur senza liberalizzazioni thatcheriane. Inoltre, c’è una ampia area di risparmio di spesa che riguarda lo Stato, gli enti previdenziali, le imprese e gli enti del settore pubblico. Cottarelli, nell’autunno del 2013, considerava come obbiettivo minimo una riduzione della spesa di 22 miliardi di euro fra il 2015 e il 2017 e riteneva possibili ulteriori risparmi con scelte politiche.

Renzi ha licenziato Enrico Letta, ha piazzato i suoi nel governo, nelle imprese e negli enti pubblici. Poi ha licenziato Cottarelli, dicendo che i tagli li faceva lui. Però ha abbassando l’asticella a 5 miliardi. E ora paventa la minaccia di nuove imposte per 18 miliardi, sostenendo che con maggiori tagli di spesa creerebbe depressione, mentre è vero il contrario, soprattutto se, insieme a ciò, si riducono in misura sostanziale le imposte sul costo del lavoro delle imprese. Come l’Irap.

Conti pubblici, scompare la spending review. Nel Def i tagli del 2015 si fermano a 5 miliardi

Conti pubblici, scompare la spending review. Nel Def i tagli del 2015 si fermano a 5 miliardi

Mario Sensini – Corriere della Sera

Nelle 144 pagine del documento viene citata solo un paio di volte, e sempre per inciso. E nei numeri del bilancio si vede assai poco, anzi quasi per niente. Della «spending review», a cui il governo Renzi affidava il finanziamento di buona parte dei nuovi programmi di spesa, a cominciare dal bonus degli 80 euro ai lavoratori dipendenti, si è persa la traccia. Nella Nota di Aggiornamento al Documento di economia e finanza, varata martedì, quasi non se ne parla, mentre il bilancio programmatico, che tiene conto delle misure da varare con la prossima Legge di Stabilità, prevede solo una minima riduzione della spesa pubblica. La correzione dovuta alle nuove misure di bilancio, per l’aggregato della spesa della pubblica amministrazione, è pari ad appena 0,3 punti di Pil. Una misura molto lontana dalle attese sulla spending review.

I nuovi tagli del 2015 si fermano a 5 miliardi di euro, quando solo fino a poche settimane fa si ipotizzava, con la spending review, una sforbiciata di almeno 13 miliardi, obiettivo già ridotto rispetto a quello di 15-16 da cui si era partiti. Nel 2016, addirittura, la spesa tendenziale e quella programmatica coincidono, quindi non è previsto nessun taglio. Però, per il 2016, è spuntata fuori una clausola di salvaguardia che prevede un aumento dell’Iva e delle imposte indirette per 12,4 miliardi destinata a garantire il raggiungimento del pareggio, che nel 2017 sale a 17,8 e nel 2018 a 21,4 miliardi di euro.

Non è detto che finisca così, ma allo stato c’è un aumento delle tasse al posto di quello che avrebbe dovuto essere un taglio di spesa. Sicuramente ha inciso la necessità di offrire garanzie solidissime a Bruxelles, già preoccupata per la decisione di rallentare il risanamento: uno scatto automatico dell’Iva o delle accise deciso già ora con la legge di bilancio tranquillizza molto più di un taglio di spesa scritto solo sulla carta. Può esserci anche un’altra ragione: un aumento delle tasse di quella dimensione, come dice il governo, ridurrebbe il Pil di 0,7 punti l’anno, ma un pari taglio della spesa farebbe danni quasi doppi, alla crescita. E oggi non sarebbe un buon segnale per un governo che, per avere più tempo per risanare, deve convincere Ue, partner e mercati che questa sua politica economica porterà il Paese a crescere molto di più in futuro.

Fatto sta che oggi almeno nelle carte la revisione della spesa si è sgonfiata. La manovra 2015, cioè i soldi del bonus, gli sgravi Irap, i fondi alla scuola e ai Comuni, i nuovi ammortizzatori sociali, si farà per 11,5 miliardi in deficit. Altri 3 miliardi nel 2015 verranno, spiega la Nota, dai risparmi di spesa già decisi, che quest’anno porteranno 2,1 miliardi. Poi ci sono i tagli ai ministeri. Si parlava di un 3% del budget, per almeno un paio di miliardi, ma dalle nuove carte del governo vengono fuori non più di 240 milioni. E in un biennio. Di più, sui tagli, non si dice.