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Trattamento di fine futuro

Trattamento di fine futuro

Massimo Gramellini – La Stampa

Sono completamente d’accordo a metà con l’Annunciatore di Firenze, quando gigioneggia di inserire la cara vecchia liquidazione in busta paga. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe persino apprezzabile il tentativo di trasformare il lavoratore in un adulto. Per decenni lo si è trattato come un irresponsabile che andava protetto da se stesso. Non gli si potevano dare tutte le spettanze nel timore che le divorasse, arrivando nudo alla meta, solitamente micragnosa, della pensione. Sminuzzando il Tfr in rate mensili, si affida al beneficiario lo scettro del proprio destino: toccherà a lui, non più al datore di lavoro o allo Stato Mamma, decidere la destinazione dei suoi soldi.

Purtroppo la realtà non è fatta della stessa sostanza degli annunci. Intanto il Tfr è un denaro che esiste solo come promessa: nel momento in cui lo si trasformasse in moneta sonante, per pagarlo i datori di lavoro sarebbero costretti a indebitarsi. Quanto allo Stato, passerebbe da Mamma a Matrigna: l’astuto Annunciatore si è dimenticato di dire che in busta paga la liquidazione soggiacerebbe a un’aliquota fiscale più alta. L’imprenditore ci perde, lo Stato ci guadagna. E il lavoratore? Incamera qualche euro da gettare nell’idrovora boccheggiante dei consumi, ma smarrisce l’idea di futuro con cui erano cresciute le generazioni precedenti. La liquidazione era un tesoretto intorno a cui coltivare speranze e progetti per il tempo a venire. Il suo sbriciolamento rischia di diventare l’ennesimo sintomo di un mondo che si sente a fine corsa e preferisce un uovo sodo oggi a una gallina di fine rapporto domani.

Strane idee sul futuro del Tfr

Strane idee sul futuro del Tfr

Walter Passerini – La Stampa

Nei giorni scorsi è ventilata la notizia che il governo stia pensando a un provvedimento per anticipare mensilmente il Tfr futuro, vale a dire l’accantonamento annuale che alla fine del rapporto di lavoro si trasforma in liquidazione. Si tratta di quasi 30 miliardi all’anno, di cui, questa è la proposta, la metà finirebbe ogni mese in busta paga, mentre la metà resterebbe in azienda. Ovviamente la mensilizzazione del Tfr potrebbe far gola a molti, con un interrogativo: meglio 1’uovo oggi o la gallina domani?

L’idea nasce dall’esigenza di stimolare i consumi, immettendo nel mercato una liquidità di 13-15 miliardi. Per le imprese, vi sarebbero delle compensazioni, finanziarie e fiscali, dal momento che il Tfr è una pura posta contabile e non viene fisicamente accantonato ogni anno. Per le persone vi sarebbe l’opportunità di avere ossigeno in busta paga (l’ammontare è una mensilità all’anno da suddividere mensilmente), trasferendo la somma o in consumi o in risparmio.

Da qualche tempo una parte di Tfr viene accantonata per la previdenza integrativa, ed è questa la sua destinazione naturale. Alla fine del rapporto di lavoro o del lavoro tout court, il lavoratore avrebbe a disposizione un certo capitale e un’integrazione pensionistica. Con l’aria che tira sulle future pensioni contributive, forse sarebbe meglio essere previdenti, avere pazienza e aspettare, piuttosto che consumare, ritrovandosi poi con un pugno di mosche in mano.

I conti non tornano

I conti non tornano

Giuseppe Turani – La Nazione

Se io prendo cento euro e li sposto dalla tasca sinistra a quella destra, non per questo divento più ricco. L’idea di mettere mezzo Tfr in busta paga subito, mese per mese, è un po’ la stessa cosa. Da una parte si dice che è urgente diminuire il costo del lavoro per le imprese, dall’altra lo si aumenta. La logica sarebbe quella di dare subito più soldi ai lavoratori, così i consumi ripartono. Il Tfr è un accantonamento che l’azienda deve fare. Di solito, come dice il nome, quando il lavoratore esce dall’azienda, gli viene consegnata una somma equivalente appunto a un mese di stipendio per ogni anno lavorato. L’idea, degna del mago Houdini, è questa: poiché quei soldi sono già del dipendente e poiché abbiamo bisogno di rilanciare l’economia, diamoglieli subito, così si compra un paio di scarpe nuove e l’economia riparte.

È un ragionamento che farebbe bocciare all’esame di economia in qualsiasi università (ma forse anche a ragioneria). Si tratta infatti di un aumento «artificiale» delle paghe, ottenuto non grazie a un miglior andamento dell’economia, ma grazie a una distribuzione immediata di quelli che sono i risparmi del lavoratore, custoditi dall’azienda. I soldi del Tfr, infatti, non sono depositati dall’imprenditore in un salvadanaio a forma di porcellino che viene rotto quando il dipendente se ne va (magari fra vent’anni). Anzi, quei soldi non esistono proprio.

L’imprenditore li segna in bilancio perché così va fatto, ma in realtà usa quei soldi per le necessità correnti dell’azienda. Poiché sa quando i suoi lavoratori lasceranno l’azienda, si organizza in modo da avere nel momento dell’uscita il Tfr per 10, 20, 30 lavoratori. L’anno dopo se ne andranno altri 10, e l’imprenditore verserà l’equivalente di 10 Tfr. Se ha 200 dipendenti e se ne vanno 20 all’anno, dovrà avere in contanti i soldi per questi 20 Tfr. Il resto rimane nell’azienda. Se si decide che invece almeno metà del Tfr va versato mese per mese si ottiene certo di aumentare la paga dei dipendenti (a carico dell’azienda), ma in compenso si aggrava il costo del lavoro (subito) di una mezza mensilità, che a quel punto va tirata fuori per tutti i dipendenti e non solo per quelli che se ne vanno. Abbiamo passato mesi a dire che era centrale far scendere i costi per le aziende, e adesso andiamo a aumentarli?