tito boeri

Quei prelievi da tagliare

Quei prelievi da tagliare

Tito Boeri – La Repubblica

L’ultimo bollettino economico di Banca d’Italia ha messo nero su bianco quanto ormai risulta evidente a tutti: il 2014, invece della tanto annunciata ripresa, ci porterà solo crescita zero, stagnazione. Il bonus di 80 euro non sembra aver avuto effetti apprezzabili sui consumi. Ed è illusorio aspettarsi nell’immediato stimoli a livello europeo. Del tutto fuori luogo l’entusiasmo con cui molti politici nostrani hanno celebrato il discorso di investitura di Juncker al Parlamento Europeo. Vero che il Presidente in pectore della Commissione ha detto che crescita e lavoro sono le priorità. Ma quando mai un politico europeo è stato, a parole, contrario alla crescita? In un momento in cui tutto il continente rallenta e ha un tasso di disoccupazione superiore alle due cifre chi potrebbe mai pensare di evitare di esser preso a pomodori esprimendosi contro la crescita? Il vero volto dell’Europa, oggi come oggi, è quello di Katainen, il nuovo commissario agli Affari economici, la cui prima dichiarazione è stata «Il patto di stabilità non si tocca».

Ancora più lontana dalla realtà la pretesa di alcuni di abolire l’austerità con un referendum che abroghi il nuovo articolo 81 della Costituzione, quello che vincola il nostro paese, con tanti se e ma, a tenere il bilancio in pareggio. Com’è possibile attribuire a un articolo che non è stato ancora applicato le colpe delle politiche di austerità degli ultimi anni? Quando mai la Costituzione italiana ha imposto l’austerità? Ricordiamoci che negli anni di esplosione del debito pubblico in Italia, questa imponeva che ogni «legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Perché allora sprecare soldi dei contribuenti per organizzare un referendum e abrogare con voto popolare qualcosa che viene sistematicamente disatteso?

Tutte le energie disponibili devono invece essere concentrate attorno all’obiettivo di rendere strutturale il bonus di 80 euro. Deve risultare credibile come un taglio permanente delle tasse finanziato da tagli alla spesa pubblica e non da nuove tasse che graverebbero sulle famiglie. Per farlo, senza incorrere nella procedura di disavanzo eccessivo, il governo deve sulla carta trovare 23 miliardi nel 2015. L’audizione alla Camera del ministro Padoan della scorsa settimana fa pensare che l’esecutivo sia ancora in alto mare. E l’impressione è che nella compagine di governo si stia rafforzando il partito delle nuove tasse su quello dei tagli alla spesa. Il governo Renzi, in verità, ha già aumentato delle tasse, dalle banche alle rendite finanziarie. Sotto la reggenza del presidente del Consiglio gli italiani hanno cominciato anche a pagare la Iuc, facendo conoscenza del trittico Imu, Tari e Tasi. I decreti attuativi della delega fiscale prevedono l’eliminazione di molte detrazioni. Al di là del merito di questa scelta, si tratta pur sempre di tasse più alte.

La sbandierata riforma del terzo settore vuole ampliare i trasferimenti alle imprese sociali definendo in modo più ampio che in passato i perimetri del terzo settore (allargato a imprese con partecipazione rilevante di aziende con fini di lucro). Si tratta di nuove spese che dovranno essere coperte da nuove tasse. A quanto pare questi soldi andranno a finanziare il servizio civile per i giovani quando, fra 18 mesi, si esauriranno le risorse per la Garanzia Giovani. Ma quando mai un servizio civile ha migliorato le prospettive di lavoro dei giovani? Perché allora spendere soldi pubblici? Solo per far finta di aver offerto qualcosa ai giovani? E non si sentiranno presi in giro, gli under 25, se viene loro chiesto di lavorare gratis?

La riforma del pubblico impiego, ammesso che ne esista una, non porta risparmi, semmai aggravi di spesa date le promesse di assunzioni e scivoli verso la pensione del ministro Madia. Si mormora che il commissario Cottarelli sia stato commissariato. Quel che è certo è che gli viene chiesto di tagliare le spese con soli atti amministrativi, senza passaggi parlamentari. Il problema è che c’è un limite a quanto si riesce a tagliare accentrando le autorizzazioni di spesa o intervenendo sulle società partecipate, senza toccare il numero dei dipendenti. Tra l’altro, con le nuove regole Sec molte società partecipate (e relativi debiti) finiranno nel perimetro pubblico. Questo avverrà presumibilmente dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, perché l’Istat ha annunciato che metterà in pratica le nuove definizioni solo dal 3 ottobre. Avremo così una nota di aggiornamento che viene a sua volta aggiornata nel giro di pochi giorni! Siccome siamo gli unici a essere così in ritardo nell’adeguamento contabile, il rischio è quello di alimentare sospetti sui livelli del nostro debito pubblico, la spesa e la pressione fiscale.

Renzi ha già incassato il suo bonus con gli 80 euro. Era dai tempi di De Gasperi che un governo non godeva di un consenso popolare così vasto. Deve essere utilizzato per costruire supporto a un’operazione sistematica e coraggiosa di riduzione della spesa pubblica, che apra la strada a nuovi tagli di imposte. Si possono fin da subito tagliare i cofinanziamenti statali ai fondi strutturali, senza contravvenire alle regole europee. Al contrario, il cofinanziamento è responsabilizzante solo se fatto da chi utilizza i fondi europei, dunque le Regioni. E poi ci sono leggi con tagli normativi alle spese da varare oggi ed attuare gradualmente. Perché un’operazione di razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe permetterci di invocare la cosiddetta “clausola delle riforme” guadagnando tempo prezioso per l’aggiustamento.

Dopotutto, quale migliore riforma strutturale della ristrutturazione della spesa pubblica? Se mostrasse di saper colpire le rendite annidate ai confini tra pubblico e privato, questa operazione risulterebbe più popolare di quanto si pensi. È questo il vero banco di prova dell’esecutivo. Oggi i partner europei chiedono dimostrazioni delle capacità del ministro Mogherini, che abbiamo candidato alla guida, sulla carta, della politica estera europea. Il ministro ha una grande occasione per mostrarsi all’altezza di questo compito: tagli davvero i privilegi della Farnesina, anziché far solo finta di farlo. Dopotutto investire nella politica estera comune significa saper ridurre le spese diplomatiche dei singoli paesi.

Se uno su dieci diventa povero

Se uno su dieci diventa povero

Tito Boeri – La Repubblica

Con la pubblicazione ieri da parte dell’Istat dei dati sulla povertà nel 2013, cominciamo ad avere un quadro abbastanza completo di cosa è successo alla distribuzione dei redditi in Italia in questa interminabile crisi. Bene chiarire subito che è stato uno shock senza precedenti nella storia repubblicana. Il reddito medio è calato in sei anni del 13 per cento, riportandosi ai livelli di un quarto di secolo fa. Per ritrovare un potere d’acquisto medio comparabile dobbiamo risalire al 1988, per capirci l’anno del disgelo fra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la visita di Ronald Reagan a Gorbaciov nel freddo inverno moscovita. Bene che i politici e coloro che fanno informazione si ricordino di questo meno 13% nel commentare le prese di posizione delle rappresentanze di interessi che lamentano il calo dei redditi delle categorie da loro rappresentate. Nelle ultime settimane, ad esempio, abbiamo assistito ad un florilegio di comunicati che lamentavano il crollo dei redditi dei pensionati proprio mentre partiva la campagna di Cgil-Cisl-Uil per estendere ai pensionati il bonus di 80 euro del governo Renzi. Ma anche i dati più allarmanti (quelli rilasciati da Confesercenti) segnalavano un calo dei redditi dei pensionati inferiore al 10 per cento, quindi ben al di sotto di quello vissuto dall’italiano medio in questo periodo. Se poi si guardano i dati dell’Istat, ci si rende conto che quello dei pensionati è l’unico gruppo sociale i cui redditi siano addirittura aumentati almeno durante la prima parte della crisi, nella Grande Recessione del 2007-9, e come la fascia di età al di sopra dei 65 anni sia l’unica in cui la povertà non è aumentata in questi lunghi anni di crisi.

La cosa forse più sorprendente che si impara leggendo le statistiche (lo fa in dettaglio Andrea Brandolini su lavoce.info) è il fatto che in Italia, a differenza che in molti altri paesi, le disuguaglianze non sono aumentate, se non marginalmente, durante la crisi. C’è stato come uno spostamento verso il basso dell’intera distribuzione dei redditi, senza che le forti disuguaglianze che la caratterizzavano in partenza siano sensibilmente aumentate. Non ci sono oggi ragioni in più di quelle che c’erano prima della crisi per preoccuparsi di queste disuguaglianze. Ce ne sono invece molte di più per preoccuparsi della povertà assoluta, delle persone che vivono al di sotto di standard di vita decorosi, raddoppiate in sei anni, passando da meno di 3 milioni a più di 6 milioni. Lo ha certificato ieri l’Istat sulla base di dati sulla spesa delle famiglie, peraltro in coerenza con i dati sui redditi del rapporto Caritas.

Un altro luogo comune che viene fortemente messo in discussione da queste statistiche è quello sul ridimensionamento della cosiddetta classe media. Non c’è stata una polarizzazione dei redditi, con uno schiacciamento di chi sta in mezzo. Nel calo generalizzato dei redditi, la quota di reddito nazionale del 60 per cento di persone che hanno redditi superiori a quelli del 20 per cento più povero e inferiori a quelli del 20 per cento più ricco della popolazione è rimasta praticamente invariata dal 1985 ad oggi. C’è stato addirittura un incremento della percentuale di persone che appartengono alla classe media, definita come persone che guadagnano meno del doppio e più di tre quarti di chi si posiziona esattamente a metà nella distribuzione dei redditi. Questo perché non pochi far quanti erano inizialmente nelle parti alte della distribuzione sono scesi al di sotto del 200 per cento del reddito mediano, finendo così per approdare nella cosiddetta middle class. Questa al contempo ha perso famiglie che dalla classe media sono scivolate in condizioni di povertà.

Questi dati sono molto importanti per capire i problemi distributivi che stanno di fronte alla politica economica in Italia. Nel declino economico generalizzato del nostro paese e nelle due pesanti recessioni che abbiamo attraversato sembra esserci stato un arretramento complessivo, in cui tutti i decili della distribuzione del reddito hanno subìto un peggioramento assoluto. L’Italia è un paese in cui i problemi distributivi sono al contempo sempre più marcati e sempre più difficili da risolvere perché anche chi potrebbe “dare di più” ha già assistito a una erosione del proprio reddito e, dunque, in qualche misura si sente di avere già dato. È davvero il momento di preoccuparsi per la prima volta in Italia dei più poveri, degli ultimi degli ultimi, ignorati anche dai bonus di Renzi, che ha escluso i cosiddetti incapienti e i disoccupati. Bisogna offrire protezione di base anche a chi ha meno di 65 anni. Bene che chi ci governa sia consapevole del fatto che è illusorio pensare di costruirsi le proprie fortune elettorali con trasferimenti alla classe media. Oggi la classe media è troppo numerosa (si tratta di più di 34 milioni di persone) per i nostri vincoli di bilancio: nessun governo potrà mai attuare trasferimenti (o riduzioni di tasse) sufficientemente grandi per essere percepiti da chi appartiene alla middle class. Mentre la costruzione di un efficace paracadute contro la povertà per tutti costerebbe molto meno e verrebbe apprezzata anche dall’elettore medio. La lezione della crisi è infatti che anche chi ha redditi a metà tra i più ricchi e i più poveri rischia di precipitare nell’indigenza. È una lezione che capiscono molto bene le famiglie con figli minori: ne bastano due per avere un rischio di povertà doppio rispetto a quello dell’italiano medio. Ne sono perfettamente consapevoli anche gli elettori mediani, coloro che appena al di sopra dei 50 anni sono al contempo troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per essere riassunti in caso di perdita del lavoro, per colpa di istituzioni, di regole contrattuali e regimi di contrattazione salariale che ci ostiniamo a non voler riformare.