Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire
Walter Passerini – La Stampa
Ha sessant’anni e li dimostra tutti. L’apprendistato, che trae le origini della sua attuale sistemazione normativa nella legge 25 del 1955, è l’unica forma di contratto di lavoro a fini formativi. Nato nelle botteghe artigiane rinascimentali, l’istituto ha subito diverse modifiche nel tempo, per arrivare al Testo unico del 2011, che così lo definisce: un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione ed all’occupazione dei giovani. L’apprendistato è un contratto a causa mista, nel quale accanto alla causa di scambio (lavoro contro retribuzione), tipica del contratto di lavoro dipendente, si aggiunge la finalità formativa (D.Lgs. 14 settembre 2011, n.167). L’ultima modifica è il Decreto Poletti (D.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in Legge 16 maggio 2014, n. 78).
Negli ultimi anni il contratto di apprendistato è stato definito il canale privilegiato per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma il suo successo nel frattempo ò colato a picco. Negli anni d’oro è arrivato a superare una media di oltre 600mila contratti l’anno. Tra il 2010 e il 2012 è passato da 528.183 contratti a 469.855, per crollare subito dopo l’entrata in vigore del Testo unico ai suoi minimi: nel 2013 ci sono stati 240mila contratti di apprendistato, nel 2014 meno di 200 mila nei primi nove mesi, che dovrebbero portare il numero finale di quest’anno sotto quota 300 mila.
Come mai questo dimezzamento di contratti mentre la normativa e la politiche del lavoro tendono a sostenerlo? Ci sono tante ragioni. La presenza di un pacchetto di ore di formazione ha sempre ottenuto tiepidi consensi da parte delle imprese, quando non vere opposizioni: il decreto Poletti di quest’anno ha alleggerito il problema, ma non basta. I vantaggi economici per le imprese sono tanti: decontribuzione totale per tre anni per le imprese sotto i nove dipendenti; al 10% per le altre. Anche il vincolo di stabilizzazione è stato abbassato dal decreto Poletti: la quota di stabilizzazioni prima di assumere altri apprendisti è passata dal 50% al 20%. Ma anche questo evidentemente non è sufficiente. Nelle ultime settimane sembra poi che le aziende intenzionate ad assumere giovani si siano fermate, in attesa dei nuovi provvedimenti previsti dal Jobs Act.
Una delle ragioni del rovinoso cammino del contratto di apprendistato consiste proprio nella concorrenza spietata che altre formule di assunzione gli fanno, essendo ritenute più convenienti da parte delle aziende (contratto a termine, in primis). Infine, l’attesa dell’arrivo del nuovo contratto a tutele crescenti ha eroso ulteriore fascino all’apprendistato, e assomiglia a un’eutanasia: strano un contratto a tempo indeterminato che può avere una scadenza, come è l’apprendistato. Non si può escludere che le complessità burocratiche abbiano giocato in ruolo. E forse anche la scarsa conoscenza, per non dire confusione, sulle tre tipologie: apprendistato per la qualifica, professionalizzante o di mestiere, in alta formazione e ricerca. A cui se ne aggiunge una quarta, destinata ai lavoratori in mobilità. È soprattutto la terza tipologia a soffrire: sembra proprio che usare uno stesso nome (apprendistato) per riunire garzoni di officina, impiegati di banca e laureati, masterizzati o dottori di ricerca non sia molto efficace; anche se per realizzare il miracolo di una nuova vita dell’apprendistato non basterà certo un semplice cambio di nome.