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Renzi, Padoan e l’incognita del Pil

Renzi, Padoan e l’incognita del Pil

di Luca Fornovo

Dopo le pagelle poco incoraggianti dell’Europa sull’economia italiana, stamattina arriva un test importante per il governo del premier Matteo Renzi che lo metterà alla prova sia sulla bontà delle sue previsioni che sulla credibilità di cui potrà godere in un futuro prossimo in Europa.

L’Istat diffonde tra poche ore i dati su Prodotto interno lordo (Pil) e indebitamento nel 2015 e la stima su occupati e disoccupati a gennaio del 2016. Manco a dirlo, gli occhi sono puntati sul debito, che si sa è più alto del previsto, ma soprattutto sulla crescita che stenta a decollare.

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Pensioni, dal 2016 le donne dovranno lavorare 22 mesi in più

Pensioni, dal 2016 le donne dovranno lavorare 22 mesi in più

di Francesca Schianchi – La Stampa

Ventidue mesi di lavoro in più per le donne impiegate nel settore privato, per agguantare la sospirata pensione di vecchiaia. Quattro mesi in più per tutti, come adeguamento alla speranza di vita: si vive più a lungo e allora bisogna anche lavorare più a lungo. E poi, arriva la revisione dei coefficienti necessari per determinare la quota contributiva della pensione: quello che si apre fra pochi giorni è un anno di novità non esattamente piacevoli per quanto riguarda il ritiro dal lavoro.

Per tradurre in esempi la fredda contabilità delle leggi, lo scalino in più che, in base alla legge Fornero, scatterà dal 2016 per le donne lavoratrici del privato, fa sì che potranno lasciare il lavoro per vecchiaia a 65 anni e sette mesi (63 anni e nove mesi sono stati sufficienti nel 2015); per le autonome non prima di 66 anni e un mese, mentre sono già equiparate agli uomini le dipendenti pubbliche. Cioè all’età di 66 anni e sette mesi: gli uomini potranno altrimenti andare in pensione anticipata se hanno versato 42 anni e dieci mesi di contributi; 41 anni e dieci mesi le donne.

Chi sarà particolarmente penalizzato dal meccanismo messo in piedi dalla legge sono le signore nate nel 1953: nel 2018, quando avranno raggiunto il traguardo dei 65 anni e sette mesi, sarà scattato un nuovo scaglione per spostare in avanti l’eta pensionabile (salvo revisioni della legge) e nel 2019 l’asticella dell’età sara spostata ancora più in alto da un nuovo adeguamento alle aspettative di vita. Morale, queste lavoratrici rischiano di potersi mettere a riposo solo nel 2020. Ma questo 2016 è anche l’anno scelto per far scattare i nuovi coefficienti di trasformazione, ossia quelli che servono per trasformare i contributi versati in assegno: nemmeno questa è una notizia allegra, se si considera che tra 2009 e 2016 l’importo calcolato col contributivo, prendendo a riferimento come età di uscita i 65 anni, è diminuito del 13 per cento. E nel 2016, secondo i calcoli di Antonietta Mundo, già coordinatore generale statistico attuariale dell’Inps, riportati dall’Ansa, gli uomini perderanno sulla quota contributiva circa l’1 per cento.

E se queste sono le (fosche) previsioni per le pensioni nel 2016, a tracciare un bilancio degli anni passati, per quanto riguarda invece il lavoro e la crisi, ci ha pensato il Centro studi ImpresaLavoro, partendo da dati Istat: 656.911 sono i posti persi nel periodo 2008-2015, di cui 486mila andati in fumo al sud e nelle isole e 249mila a nord, mentre il centro ha fatto segnare un sorprendente più 78mila, tanto che il Lazio è, insieme al Trentino Alto Adige, l’unica regione che ha visto in questi anni di crisi aumentare gli occupati. Una crisi che, però, secondo la ricerca di ImpresaLavoro, sta forse finalmente allentando la presa: nel terzo trimestre del 2015, sottolinea, c’e stato un aumento di 154mila occupati su base annua.

Nello stesso periodo, 2008-2014, rivela uno studio dell’Istat diffuso ieri, tra gli stranieri, che per il 57 per cento arrivano in Italia per cercare un impiego e per il 29,9 per cento ritengono di svolgere mansioni poco qualificate rispetto al proprio titolo di studio, il tasso di occupazione ha subito un calo molto più accentuato rispetto agli italiani (6,3 punti contro 3,3). E la disoccupazione tra loro è quasi raddoppiata in quei sei anni, facendo registrare un più 7,1 contro il più 5,2 degli italiani.

I tagli e l’aritmetica del consenso

I tagli e l’aritmetica del consenso

Alberto Mingardi – La Stampa

Negli Anni Sessanta, l’economista statunitense Milton Friedman, durante un viaggio in Asia, venne portato a vedere i lavori di costruzione di un canale. Friedman constatò sorpreso che c’erano pochissime ruspe in cantiere e gli operai si aiutavano solo col badile. Non doveva meravigliarsi, gli spiegò uno zelante funzionario, quella «grande opera» faceva parte di un programma per aumentare l’occupazione. Par di vederlo, Friedman, che alza un sopracciglio e dice: «Pensavo doveste costruire un canale. Se volete creare posti di lavoro, dovreste dare a queste persone dei cucchiai, non dei badili».

Si dirà che il mondo è cambiato: è tempo di spending review. Ma come si fa a ridurre le spese, se non è cambiata la mentalità delle pubbliche amministrazioni? L’ultimo Documento di Economia e Finanza ha riacceso i riflettori sui tagli al servizio sanitario nazionale. Nell’estate scorsa, governo e Regioni si erano accordati, col cosiddetto Patto per la Salute, sull’ammontare delle spese per questo comparto nel triennio 2014­-2016. Più di recente, la legge di stabilità ha previsto un aumento del contributo a carico delle Regioni per il contenimento della spesa pubblica. Potendo scegliere dove tagliare, le Regioni hanno deciso di aumentare la sforbiciata ai servizi sanitari. In pochi si sono lamentati. È vero che quasi l’80% del budget dei governi regionali è impiegato per la sanità, ma è difficile immaginare che non si possano limare le uscite anche in altri settori. E nella sanità, che cosa hanno scelto di tagliare le Regioni?

Potremmo pensare che la «spending review» fosse il momento buono per mettere mano a un riordino della rete ospedaliera. Se ne parla da anni: sono molti i piccoli ospedali che potrebbero essere accorpati, recuperando efficienza. La moltiplicazione dei nosocomi serviva alla salute dei partiti: l’idea di avere un ospedale vicino rassicura gli elettori. Ci sono però buoni motivi per «concentrare» risorse e persone in strutture più grandi: la probabilità di morire nel corso di un intervento chirurgico è minore in un ospedale in cui se ne fanno molti, di interventi di quel tipo. Le Regioni non hanno scelto di rivedere la rete ospedaliera: al contrario, hanno annunciato tagli, e importanti, all’acquisto di beni e servizi e all’ospedalità privata.

È una decisione assennata? Le ruspe costano di più dei badili, ma aumentano la produttività degli operai e accorciano i tempi di realizzazione del canale. Fuori di metafora, ogni tanto un farmaco può ridurre le giornate da trascorrere a letto. Ogni tanto un macchinario può aiutare ad individuare per tempo una malattia, consentendo il ricorso a terapie meno debilitanti. Ogni tanto acquistare prestazioni dagli ospedali privati (che col 15% della spesa coprono il 24% dei ricoveri) significa spendere in modo più efficace i soldi di tutti.

Al contribuente, non interessa che i suoi quattrini finiscano nelle tasche della pubblica amministrazione o di fornitori «esterni»: interessa che «comprino» una sanità d’eccellenza. Se le Regioni preferiscono rivedere gli acquisti che gli stipendi, è perché gli scanner per la risonanza magnetica non votano, ma i percettori di un salario statale invece sì. I tagli lineari non piacevano a nessuno. Pareva incredibile che la politica non sapesse scegliere cosa fare e cosa ridurre. Ma quando la politica sceglie, l’impressione è che lo faccia secondo l’unica aritmetica che conosce: l’aritmetica del consenso.

Liberalizzazioni dimezzate, così funziona la lobby del rinvio

Liberalizzazioni dimezzate, così funziona la lobby del rinvio

Paolo Baroni – La Stampa

È solo un caso se in Italia, che ha il numero di farmacisti più alto d’Europa, ben 79mila contro i 72mila della Francia o i 52mila della Germania, non si riesce più a fare passi avanti sul fronte delle liberalizzazioni di farmaci e farmacie? Dal 2006, ovvero da quando il decreto Visco-Bersani ha aperto la prima breccia istituendo le parafarmacie, in questo campo l’apertura alla concorrenza s’è fermata. Ci aveva provato Monti nel 2011 a proporre di rendere libera la vendita dei medicinali di fascia C, ma poi ha dovuto fare dietrofront. E stessa sorte tocca ora a Renzi, che pure l’altro giorno ha iniziato a incrociare le spade con molte lobby varando un disegno di legge che interviene in tanti settori e intacca molti privilegi. Una cura di cui l’Italia ha particolarmente bisogno se si considera che il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa con un indice di apertura alla concorrenza del 66%, stima l’Istituto Bruno Leoni, contro il 94% del Regno Unito. Solo Grecia e Lussemburgo fanno peggio di noi.

Medicina amara
Non solo sulle farmacie non si passa, ma non è passata nemmeno la richiesta avanzata a suo tempo dall’Antitrust di aumentare la diffusione di prodotti equivalenti, misura che oltre a disturbare i farmacisti non fa piacere nemmeno agli industriali del settore che sfornano prodotti “firmati” ben più cari. Cassate pure le proposte che puntavano ad aumentare il numero dei punti vendita. Potenza della lobby forse oggi tra le più potenti del Paese, ma non certo l’unica ad essersi attivata in queste settimane. Non importa che anche nelle parafarmacie e nei corner dei supermercati sia presente un farmacista e non importa che per questo genere di prodotti (antidolorifici e anti infiammatori) serva comunque la ricetta medica: è bastato evocare il rischio di favorire un abuso di farmaci su larga scala, e tirare il ballo il ministro della Salute Lorenzin (che non ha indugiato un attimo a schierarsi coi farmacisti, anziché coi loro clienti), per stroncare ancora una volta l’idea di sbloccare la vendita dei farmaci di fascia C.

Uber resta al palo
I taxisti non hanno dovuto fare lo stesso can-can. O meglio è bastata bloccare Torino per mezza giornata per mandare a “quelli di Roma” un messaggio chiaro: volete che vi blocchiamo il Paese nell’anno dell’Expo? Detto fatto, l’articolo che doveva fare cadere le barriere che ostacolano l’attività di Uber o dei noleggi con conducente è svanito. Rinviato ad una legge delega già prevista dal Milleproroghe, si è affrettato ad assicurare il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi. Intanto la questione è stata rinviata.

Salvi porti e aeroporti
Rinviata anche la riforma del porti che, tra l’altro, avrebbe certamente guastato molti affari a tante autorità semplicemente impedendo a questi enti di gestire direttamente l’attività portuale o di farlo indirettamente attraverso società controllate che svolgono attività industriali o commerciali (altra richiesta specifica dell’Antitrust). Anche in questo caso Lupi ha spiegato di aver in cantiere una legge ad hoc avendo così buon gioco nel pretendere lo stralcio. Mai entrate nel menù nemmeno le richieste dell’Antitrust sugli aeroporti (gestione aree commerciali messe a gara) e sul trasporto pubblico locale.

Il muro di Comuni
L’Antitrust nella sua segnalazione annuale, che ha fatto da guida al lavoro dei tecnici del ministero dello Sviluppo, tra l’altro aveva evidenziato «la necessità di intervenire nei servizi pubblici locali e nelle società pubbliche al fine di superare quel “capitalismo pubblico” che non consente di raggiungere adeguati livelli di efficienza e di qualità dei servizi». Ed in particolare, nel comparto del trasporto locale, proponeva aprire a imprese diverse dai concessionari pubblici servizi di carattere commerciale come i trasporti turistici e i collegamenti con porti, aeroporti e stazioni ferroviarie, prevedendo anche la possibilità di fornire servizi in sovrapposizione alle linee gestite in regime di esclusiva. Niente da fare anche in questo caso in cui non è difficile intravedere lo zampino del “partito dei sindaci”, sempre geloso delle attività delle partecipate. Come del resto sui rifiuti, le cui attività di raccolta andrebbero messe una buona volta a gara.

Ania passa all’incasso
Anche norme come quelle sulle assicurazioni, che prevedono un severo giro di vite sulle truffe, anche se vengono presentate come importanti risultati a favore dei cittadini, lette con gli occhiali delle associazioni dei consumatori si trasformano in un “bel regalo” per la potentissima lobby delle assicurazioni, che questa volta sarebbe riuscita a far passare la legge scritta dalla loro associazione di categoria, l’Ania, garantendosi così un forte taglio dei rimborsi. Mentre i paventati sconti sulle tariffe rischiano di essere vanificati dall’aumento dei costi a cominciare da quelli legati all’installazione della scatola nera. Infine va detto che anche edicolanti e librai, questa volta l’anno fatta franca, ma in questo caso più che le pressioni dei settori interessati ha fatto premio la situazione ancora molto disastrata in cui versa il nostro comparto editoriale. Ovviamente la carica delle lobby non è finita. Adesso il disegno di legge arriva in Parlamento e il ministro dello Sviluppo Federica Guidi è preoccupata. Tanto più che tra la bozza iniziale e il ddl approvato venerdì si sono già persi per strada almeno 15 articoli sui 50 previsti.

Per il lavoro una politica industriale

Per il lavoro una politica industriale

Walter Passerini – La Stampa

Quella di oggi pomeriggio è un’occasione importante. L’incontro tra governo e parti sociali, sindacati e imprese, officiato a nome dell’esecutivo dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, suscita aspettative al di là dell’ordine del giorno formale, che parla soprattutto di Jobs act e di revisione delle tipologie contrattuali. «Speriamo non sia un monologo», commenta Susanna Camusso (Cgil). «È una pagina nuova da scrivere», incalza Anna Maria Furlan (Cisl). «Sono pronto a stupirmi», rincara Carmelo Barbagallo (Uil). Il summit cade due giorni prima del prossimo Consiglio dei ministri, che avrà nell’agenda molti temi e qualche sorpresa, se si sta alle parole di Matteo Renzi, che alla Direzione Pd ha affermato: «Finalmente approveremo cose di sinistra».

All’opinione pubblica e ai cittadini interessa una risposta chiara: che cosa sta facendo il governo per agganciare la ripresa? L’Istat ha comunicato che l’Italia vede la fine della recessione ma la crescita rischia di restare al palo. Quello 0,0% del nostro Pil invariato nell’ultimo trimestre 2014 brucia di fronte allo 0,7% della Germania, allo 0,7% della Spagna e allo 0,3% dell’Eurozona. Bisogna fare di più e in fretta. Sindacati e imprese porranno al governo anche temi includibili: crescita, fisco, pensioni. Va bene disegnare un mercato del lavoro più flessibile, tutelato e dinamico, ma le regole da sole non bastano più, ci vuole sostanza.

Il Jobs Act ha portato a casa troppo poco: venerdì verranno approvati gli unici due decreti operativi (contratto a tutele crescenti e nuovi ammortizzatori), ma molti provvedimenti viaggiano con il freno a mano. Altri tre ne verranno annunciati (cassa integrazione, semplificazione contrattuale e maternità), ma tra quelli rinviati e che più contano ci sono le politiche attive, i servizi per il lavoro e l’Agenzia nazionale per l’occupazione. Regole e contratti sono importanti, ma c’è una poltrona vuota al tavolo delle trattative: le nuove politiche industriali. Un’assenza stridente, un silenzio assordante. Lo testimonia la stessa Confindustria con il direttore generale, Marcella Panucci («Positivo l’investment compact, ma va potenziato»): si tratta di disegni e cornici più fiscali che industriali.

Quali sono i settori economici e produttivi su cui vogliamo puntare? Una domanda oggi senza risposta. Eppure i liberisti Obama e Angela Merkel lo hanno fatto per le loro due locomotive, individuando i settori su cui investire e incentivare. Noi ancora no. Quanto investiremo in made in Italy, nelle quattro A (alimentare, abbigliamento, arredamento, automazione), nel digitale e nel green? Senza dimenticare l’industria manifatturiera, senza la quale non ci sara alcuna ripresa. Lo ricorda la Fondazione Edison con orgoglio: nel manifatturiero siamo sesti al mondo per valore aggiunto, quinti per bilancia commerciale, secondi per quota di esportazione di prodotti dopo la Germania e davanti agli Stati Uniti. Il fatturato manifatturiero dal 2008 al 2013 è cresciuto nell’estero del 17%, ma è calato del 16% all’interno. Le imprese italiane sono tra le più competitive al mondo. La zavorra è il crollo della domanda interna, non la competitività dell’industria.

Giochi, stretta del governo: via una slot machine su tre

Giochi, stretta del governo: via una slot machine su tre

Roberto Giovannini – La Stampa

Per adesso, più che una notizia è soltanto un avvertimento, visto che la novità scatterà soltanto a partire dal 2017. Sempre che non ci siano ripensamenti. Parliamo delle slot machine, le fatidiche macchinette mangia soldi che tanti considerano un fenomeno sociale non certo edificante, se non davvero pericoloso. Nell’ultima bozza del decreto in tema di giochi in attuazione della delega fiscale – che il governo dovrebbe approvare venerdì prossimo in Consiglio dei ministri – si prevede infatti una drastica riduzione del numero delle slot: dal 2017 ne dovranno sparire almeno un quarto del totale. Altre misure, come un aumento del prelievo fiscale sulle vincite, e una nuova stretta sugli (imperversanti) spot televisivi sui giochi sembrano invece pronte ad entrare in vigore in tempi più stretti. Il testo, dicono i bene informati, potrebbe pero avere bisogno ancora di ulteriori approfondimenti e potrebbe quindi non arrivare, come annunciato nei giorni scorsi, sul tavolo del Consiglio dei ministri del 20 febbraio – quando saranno esaminati i nuovi testi su catasto, compliance, fiscalità internazionale, fatturazione elettronica e probabilmente anche sulle partite Iva.

Scendono le entrate
Per adesso, a leggere la bozza, il taglio delle slot machine (rinviato però al 2017) comporterà certamente una riduzione delle entrate per le casse dell’Erario. Sicuramente sarà una pessima notizia per i tanti bar e locali pubblici che fanno tornare i loro conti con persone che trascorrono ore a premere pulsanti e (quasi sempre) a perdere i loro soldi. Oggi ne sono operative circa 350mila, ma tra un paio di anni con le nuove regole – si potrà installare una macchina ogni 7 metri quadri di superficie del locale pubblico, e in ogni caso non più di 6 macchine in cifra assoluta – si calcola che spariranno dalla circolazione circa 80-100mila «macchinette». Un po’ più di un quarto del totale. Oltre a stabilire vincoli legati a metri quadri e numero massimo di slot, per bar e sale scommesse il decreto stabilirà anche che le slot non devono essere visibili dall’esterno dei locali, devono avere uno spazio dedicato e devono essere, come già previsto, assolutamente vietate ai minori. Le sale da gioco (gaming hall), invece, per avere le «macchinette», devono avere «una superficie non inferiore a 50 metri quadrati» e rispettare il parametro di «un apparecchio ogni 3 metri quadrati».

Giro di vite sulle pubblicità
Scatterà invece immediatamente l’aumento dal 6 all’8% della cosiddetta «tassa sulla fortuna», il prelievo introdotto dal 2012 su giochi numerici, lotterie istantanee e videolottery. La bozza del decreto sui giochi non ha ancora però identificato la soglia di vincita oltre la quale scatterà il prelievo: attualmente è fissata a 500 euro. In arrivo anche una nuova stretta sulla pubblicità: oltre a recepire le norme già in vigore (introdotte con un decreto del governo Monti) che vietano gli spot durante e mezzora prima e dopo programmi destinati ai minori – in tv, in radio, al cinema – si aggiunge infatti lo stop anche in fascia protetta, tra le 16 e le 19. Fatta eccezione per i canali e le trasmissioni sportive o quelli dedicati al gioco.

Troppe “bad bank” in casa

Troppe “bad bank” in casa

Francesco Manacorda – La Stampa

La «bad bank» con i soldi pubblici? In attesa che si concretizzi, una buona fetta del sistema bancario pare impegnata – suo malgrado – a farsela in casa, accumulando perdite record su crediti concessi nel passato e che adesso non si riescono più a esigere dai clienti. Solo ieri Mps ha annunciato perdite nell’esercizio per 5,3 miliardi dopo rettifiche sui crediti per quasi 8 miliardi, mentre il Banco popolare perde 2 miliardi a fronte di 3,5 miliardi di rettifiche sui crediti, e il piccolo Credito Valtellinese accumula comunque oltre 300 milioni di perdite. Nello stesso giorno, mentre nuovi atti giudiziari raggiungono i vertici di Ubi Banca, la Banca d’Italia commissaria Banca Etruria per problemi patrimoniali legati guardacaso a «consistenti rettifiche sui crediti».

Un panorama drammatico che da una parte deve spingere a considerare se sono stati fatti errori in fase di negoziazione con la Bce sui criteri con cui valutare la qualità del credito – le maxisvalutazioni di questi giorni sono figlie anche delle nuove regole di Francoforte – e dall’altra porta a chiedersi se dopo questa ennesima operazione-pulizia i bilanci bancari siano adesso davvero in ordine. Insomma, è finita la lunghissima fase in cui il crollo dell’economia reale ha colpito i bilanci bancari e adesso si può sperare che il settore creditizio possa finalmente servire da volano per una ripresa dell’economia? La questione è essenziale, perché il Quantitative easing, l’iniezione di liquidità che la Banca centrale europea farà da marzo per spingere l’economia, deve passare proprio dal sistema creditizio per arrivare al suo obiettivo e curare l’Eurozona dal male della deflazione. Le banche maggiori dimostrano di essere abbastanza in salute e quindi pronte anche ad assumere questo ruolo, ma quando si scende un po’ più in basso nel sistema creditizio i problemi non mancano.

Il governo ha messo mano in modo assai deciso alla riforma delle banche popolari, anche per sciogliere un groviglio di interessi che il più delle volte manteneva al potere per decenni una casta di banchieri di provincia – e non solo – al tempo stesso padroni assoluti della banca e fedeli servitori dei loro creditori di riferimento, spesso presenti in veste di azionisti. È stata una scelta giusta, ma non è la sola scelta che andrebbe fatta. Il Pd guidato dal segretario Matteo Renzi, azionista di maggioranza del governo guidato dal premier Matteo Renzi, non può ignorare degenerazioni come quella del Mps, legata storicamente – come e più di tante Popolari – alla politica locale, ovviamente targata Pd. Chi si è preso la briga di fare qualche calcolo ha visto ieri che in tre anni sono stati oltre 10 miliardi i crediti di Mps finiti sostanzialmente in fumo. L’ennesima prova che il binomio banca&politica, che sia declinato in chiave iperlocale o meno, è garanzia quasi sicura di scadente qualità del credito.

La doppia morale di Tsipras

La doppia morale di Tsipras

Alberto Mingardi – La Stampa

Ci sono diversi modi per raccontare la crisi greca. Uno, molto semplice, punta l’attenzione su un dato di fatto. Per certo, sappiamo che una delle parti in trattativa è il governo, piaccia o non piaccia, democraticamente eletto (quand’anche con poco più di un terzo dei suffragi) dal popolo greco. Chi sia la controparte è meno chiaro. C’è la Banca centrale europea, monumento di sapienza tecnocratica che suscita sospetto e diffidenza. C’è il Fondo monetario internazionale. E poi la Commissione europea: non c’è un solo europeo che si senta «rappresentato» da questo esecutivo continentale, che non si capisce bene cosa faccia né tantomeno a chi risponda. Sono della partita anche i governi nazionali: Matteo Renzi ha chiuso la porta a soluzioni «creative» del problema greco, non prima di aver regalato una cravatta ad Alexis Tsipras. I governi nazionali temono una Grecia insolvente, perché essi stessi le hanno prestato quattrini. Sui giornali sono apparse le simulazioni del costo pro capite di un default di Atene, per gli altri cittadini europei. La gente, però, presta poca attenzione. Sono decisioni che sente lontane. Alzi la mano chi, alle scorse elezioni europee, ha votato pensando non a vaghi ragionamenti sulla «austerità» ma alle concrete modalità di funzionamento dei meccanismi anti-crisi.

La narrazione, lo storytelling, democrazia contro tecnocrazia è appassionante. Ecco perché ci sta investendo proprio Tsipras, il cui motto è «democrazia dappertutto». Nel suo discorso al Parlamento, ha rinnovato gli impegni elettorali: aumenterà il salario minimo, fermerà le privatizzazioni, alzerà la soglia della no tax area. Un programma centrato su un aumento di spesa pubblica, senz’altro non bilanciato dalla riduzione del 50% del parco macchine blu e neppure dalle sforbiciate ai costi della politica o dalla lotta all’evasione. Auguri ai greci, ma almeno in Italia sembra il solito libro dei sogni delle coperture. Secondo Tsipras, «l’austerità non ha soltanto impoverito il nostro popolo ma lo ha privato del diritto di decidere». Decidere, ma coi soldi di chi? Nello storytelling democrazia contro tecnocrazia, il «diritto di decidere» viene sottratto ai popoli per la vendetta di entità misteriose, i «mercati», che si divertirebbero a calpestarne le prerogative. A questi «mercati», gli Stati, fra cui la Grecia, hanno per anni chiesto prestiti: che per definizione a un bel momento devono essere ripagati. Questi prestiti li hanno chiesti per «decidere», direbbe Tsipras. Decidere stanziamenti, programmi, sussidi.

Indebitarsi non è mai stato obbligatorio. Se uno Stato vuole fare più cose, può sempre aumentare le tasse. In questo caso, la popolazione si accorge immediatamente del costo di «solidarietà», «investimenti» e «Stato sociale». Accorgendosene, potrebbe pensare che è meglio vivere in un Paese dove la spesa pubblica è un po’ meno generosa, ma le persone possono decidere da sé che fare di una quota maggiore dei propri redditi. Se lo Stato s’indebita, il problema non si pone: qualcuno un bel giorno il conto lo dovrà pagare, ma non gli elettori che votano alle prossime elezioni. La classe politica promette allegramente: nel lungo periodo, saremo tutti morti. Non ha torto chi ricorda che gli Stati hanno sempre disposto dei loro debiti in modo diverso dalle famiglie o dai comuni cittadini: cioè che hanno sempre evitato, quando possibile, di onorarli. Il ricorso alla svalutazione li aiutava a diluirne il peso. Grazie all’odiata Troika, la Grecia di Tsipras oggi ha un avanzo primario e potrebbe, nel breve, continuare a pagare gli stipendi. Nel medio periodo, farebbe fatica a chiedere nuovi prestiti, come qualsiasi debitore insolvente.

Diceva Adam Smith: «Ciò che è saggezza nella gestione di ogni privata famiglia, difficilmente può risultare follia nel governo di un grande regno». La questione è tutta qui. È giusto che ci sia una «doppia morale»? Gli Stati già fanno cose che nessun altro può fare: se vengo fermato dopo aver rapinato una banca, ho un bel dire alla polizia che volevo soltanto ridurre le diseguaglianze. È auspicabile che gli Stati possano considerare i loro debiti carta straccia? Se così fosse, non si capirebbe perché qualcuno debba prestar loro dei soldi: e non solo alla Grecia. Tanto peggiore è la reputazione dei governi, tanto più alti sono gli interessi che dovranno corrispondere, per avere credito. E perché di uno Stato che non paga i suoi debiti i cittadini dovrebbero fidarsi quando promette loro la pensione, quando giura che non abuserà dei dati confidenziali in suo possesso, quando dice la sua verità alle famiglie delle vittime di un dirottamento aereo? Dove passa il confine fra le bugie lecite e quelle illecite? Per «decidere» Tsipras intende: scegliere senza subire le conseguenze delle proprie scelte. È un diritto che tutti sogniamo, ma che nessuno dovrebbe avere.

Con la nuova delega la caccia agli evasori è più difficile

Con la nuova delega la caccia agli evasori è più difficile

Paolo Baroni – La Stampa

Altro che soglia del 3%, si potrebbe dire. Nel decreto sulla certezza del diritto, quello della famigerata norma salva-Berlusconi, alla luce delle novità sulla lista Falciani, c’è un altro “buco” grande come un paradiso fiscale. È la norma che elimina il raddoppio degli anni di indagini in caso di reati fiscali. Oggi, infatti, se il Fisco ha 4 anni di tempo per richiedere il pagamento di una tassa evasa e notificarlo al contribuente infedele, sul piano penale i tempi sono doppi, 8 anni. E questo perché tra quando è stato commesso il reato in questione e quando lo si scopre, occorre molto più tempo per disporre delle relative prove, condurre le indagini, attivare rogatorie internazionali, indagare su paradisi fiscali e triangolazioni internazionali, e misurarsi con marchingegni contabili alquanto complessi e sofisticati.

E per venire al caso Falciani-Swissleaks, acclarato che chi era presente nella prima lista di 5439 nomi (ora lievitata a 7437) e non è stato pizzicato per tempo vede il suo reato prescritto, va detto che anche i nuovi nomi presenti nella lista di qui a breve non potrebbero assolutamente più essere perseguiti penalmente, come ad esempio ha già annunciato di voler fare la Procura di Roma.

La nuova strategia contenuta nei decreti delegati in via di approvazione, che parte dal sacrosanto bisogno semplificare i rapporti col fisco e affermare in questo campo la certezza del diritto, potrebbe avere l’effetto di spuntare le armi contro eventuali reati. Introducendo, al rovescio, nel nostro ordinamento una norma pro-evasori. Le nuove norme, che avevano già ricevuto il via libera del consiglio dei Ministri, contenevano infatti un articolo che di fatto in pochi hanno notato (e contestato) con «modifiche alla disciplina del raddoppio dei termini» per presentare le denunce penali. «Il raddoppio – recita il nuovo testo – opera a condizione che la denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza dei termini ordinari».

La lista Falciani purtroppo è del 2009, la magistratura e il fisco italiano l’hanno acquisita poi l’anno seguente. Il Fisco nel passato ha già attivato controlli e contestazioni e ieri la Guardia di Finanza ha presentato il suo rapporto sull’attività di riscossione svolta (su 740 milioni di evasione accertata, 30 milioni di tasse da incassare ma appena 3,3 già messi a ruolo), ma sul piano penale (senza tornare alla questione della possibilità o meno di utilizzare dossier ottenuti in maniera fraudolente), di fatto non si può combinare nulla. La preoccupazione che circolava in ambienti tributari, raccolta ieri dall’Agenzia Ansa, è che se dovessero emergere nuovi nomi o nuovi reati il tempo risulterebbe scaduto: non potrebbero essere più contestati davanti al giudice. L’unica chance rimasta è quella di una corsa contro il tempo, prima dell’approvazione delle nuove norme che torneranno al consiglio dei ministri del 20 febbraio: una corsa ad ostacoli impossibile vista la complessità tecnica degli adempimenti necessari per avviare una contestazione penale.

L’Agenzia delle entrate, informalmente, nelle scorse settimane aveva fatto presente che il riallineamento dei termini di prescrizione avrebbe creato grossi problemi nel campo delle indagini, ma le sue proteste sono rimaste inascoltate. Oltre alla vicenda che tiene banco in questi giorni infatti c’è un problema generale, di prospettiva, visto che in questo modo si complica in maniera esponenziale la vita ai magistrati chiamati ad indagare sugli evasori fiscali. L’ex ministro Vincenzo Visco, in più occasioni, ha segnalato il problema: non solo sarebbe molto più complicato istruire i processi, ma questo cambiamento – tra l’altro – rischia di provocare una perdita di gettito davvero ingente, una perdita sia immediata (e poi permanente) di molti miliardi in quanto verrebbero vanificati moltissimi accertamenti.

Fornitori dello Stato in rivolta: «Versare subito l’Iva ci uccide»

Fornitori dello Stato in rivolta: «Versare subito l’Iva ci uccide»

Roberto Giovannini – La Stampa

Per lo Stato è quasi 1 miliardo di gettito atteso aggiuntivo; dunque una marcia indietro è praticamente impossibile. Parliamo dello «split payment», la misura introdotta dalla Legge di Stabilità che impone alle pubbliche amministrazioni di girare direttamente all’Erario l’Iva sui pagamenti ai loro fornitori di beni e servizi. Apparentemente sembra una misura di buon senso: invece di perdere tempo lasciando per qualche mese l’Iva alle aziende che lavorano col “pubblico”, a un certo punto poi costrette a girarla all’Erario, si evitano passaggi intermedi. E soprattutto si evitano le tristemente note «truffe carosello» con false compensazioni Iva. Eppure in queste settimane i costruttori dell’Ance e le associazioni di piccola e media impresa che compongono Rete Imprese Italia hanno lanciato l’allarme: «È una norma killer», affermano le associazioni, sostenute da M5S, Forza Italia e Lega, «il conto per noi è insostenibile». E come afferma il presidente dei costruttori dell’Ance Paolo Buzzetti, «per centinaia di imprese di costruzione sarà la fine». Protestano anche i professionisti, che pure sono esentati dalla novità.

Una vicenda, si capisce, che la dice lunga sulla stato di salute (pessimo) e sulla competitività (risibile) del nostro sistema d’impresa. Perché è davvero misero un paese in cui tante imprese rischiano di chiudere soltanto perché non disporranno più della liquidità rappresentata dall’Iva (dal 10 al 22% per ogni lavoro svolto) che fino all’anno scorso potevano utilizzare per qualche mese, e che oggi invece passa direttamente tra la pubblica amministrazione committente e l’Erario. E in effetti, spiega l’Ance, è proprio il «forte ammanco di liquidità rispetto a quanto attualmente incassato» a spaventare. Tenendo conto, dicono le aziende, che come noto lo Stato non solo ritarda moltissimo i pagamenti per i lavori svolti, ed è pure lentissimo nell’effettuare i rimborsi Iva alle aziende che ne hanno diritto.

E parlando con gli esperti di fisco e con quelli di governo, si capisce che è proprio il nodo della compensazione tra crediti e debiti Iva la ragione che ha spinto il governo a varare lo «split payment», e che preoccupa tante aziende. In precedenza, un’azienda che lavorava col «pubblico», prima di girare all’Erario l’Iva temporaneamente incassata, poteva detrarre da quella somma i crediti Iva, ovvero l’Iva versata a fornitori, subappaltanti e acquisti vari effettuati. Molto banalmente, spiegano al ministero di Via Venti Settembre, quasi sempre tra i crediti Iva si inserivano acquisti discutibili o fatture un po’ gonfiate, contando sull’inefficacia dei controlli fiscali. Per non parlare delle truffe vere e proprie con le fatture false create dalle cosiddette «cartiere». Non è un caso se dallo «split payment» lo Stato si attende moltissime entrate aggiuntive, blindate peraltro con una «clausola di salvaguardia» sulle accise dei carburanti. E il ritardo nei rimborsi Iva «onesti»? Il governo assicura che impiegherà non più di sei mesi per restituire l’Iva «passiva», ma le imprese non ci credono. L’Ance ha varato una raccolta di firme, Rete Imprese chiede correzioni nel «milleproroghe».