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Il part-time era un’opportunità, con la crisi diventa una condanna

Il part-time era un’opportunità, con la crisi diventa una condanna

Walter Passerini – La Stampa

In pochi anni è cresciuto del 40%, passando da tre milioni a oltre quattro milioni di persone, ma il suo cammino è lastricato di trappole. Il part time, vale a dire un orario di lavoro ridotto rispetto all’orario pieno, è passato quasi indenne dalle polemiche contro i finti contratti autonomi (lavoro a progetto, false partite Iva), ma viene spesso citato dalle statistiche nella sua versione di part time involontario, a definire un lavoro accettato in mancanza di alternative full time. Secondo l’Istat la riduzione di orario involontaria ha un’incidenza del 63,6% sul totale dei lavoratori a tempo parziale. La formula è tradizionalmente più femminile che maschile, anche se il mix sta cambiando. Che sia verticale, orizzontale, dipendente o indipendente, il part time oltre all’involontarietà nasconde un altro terribile segreto, figlio della crisi.

Lo hanno scoperto due ricercatori Istat, Carlo De Gregorio e Annelisa Giordano, che ne scrivono in un working paper passato del tutto inosservato: «Nero a metà, contratti part-time e posizioni full-time fra i dipendenti delle imprese italiane». Dietro il linguaggio delle cifre, i ricercatori rivelano e documentano una triste pratica, quella dei falsi part time. La formula è cresciuta molto in questi anni di crisi, in particolare nel Mezzogiorno, e ha coinvolto un numero crescente di uomini. Ma mentre in Germania, per esempio, la crescita del part time si accompagna alla crescita di tutta l’occupazione, in Italia si manifestano fenomeni inversi: il part time sembra una risposta autoctona, “all’italiana”, alla crisi. Come?

I ricercatori mettono sotto la lente un campione di 113mila lavoratori dipendenti, corrispondenti all’universo di 11,8 milioni. Ne emergono un paio di eclatanti incoerenze, che fotografano due situazioni speculari e opposte: i falsi part time e i falsi full time. Incrociando i dati delle ore lavorate con quelli economici e retributivi, i ricercatori hanno scoperto che “i falsi part-time mostrano una quota pro capite di ore lavorate di poco inferiore, ma una retribuzione netta oraria di oltre il 20% più bassa, un imponibile contributivo per ora lavorata pari a circa la metà e un rapporto fra imponibile e retribuzione netta inferiore di un terzo. Questi squilibri si accentuano nel caso della componente maschile e sembrano evidenziare sia la presenza di ore lavorate e non retribuite sia la presenza di ore retribuite fuori busta, cui corrisponde evidentemente un imponibile contributivo non dichiarato”. La quota maschile di falsi part time è arrivata al 40%.

Queste incongruenze rivelano che dietro il falso part time c’è un’evasione contributiva e retributiva. Il lavoro effettivo è a tempo pieno, ma le aziende versano contributi e retribuzioni ridotte. Viene retribuito regolarmente solo il 65-70% delle ore lavorate, il resto è al nero o non pagato, come se fosse una tassa per avere un lavoro. È la prova dell’incrocio di ricatti e connivenze, di risposte illegali ai costi delle imprese e al bisogno di lavoro dei lavoratori. Ai falsi part time si accompagnano i falsi full time. Perché dichiarare un orario pieno e in realtà lavorare di meno? Per le aziende ci sono vantaggi fiscali e la costituzione di una banca di ore al nero. Per un lavoratore facilitazioni nelle graduatorie, pur avendo lavorato meno o senza essere pagato. Tragica consolazione dover pagarsi in parte un lavoro o lavorare gratis, pur di avere un lavoro.

Questione di Censis

Questione di Censis

Massimo Gramellini – La Stampa

L’Italia è un Paese che umilia i giovani, denuncia l’ultimo rapporto Censis del diversamente giovane Giuseppe De Rita. Solo una sparuta minoranza immagina che l’intelligenza serva a farsi strada nella vita. Anche la cultura e l’istruzione godono di scarsa considerazione. I ragazzi italiani credono che per fare carriera servano le conoscenze giuste e i legami familiari, registra il presidente del Censis con sorpresa e, gli va riconosciuto, un certo dispiacere. Dopo di che procede alla nomina del nuovo direttore generale del Censis, l’ingegner Giorgio De Rita.

Sulle prime molti pensano a un caso di omonimia. Invece no, Giorgio è proprio figlio di Giuseppe. Fortunatamente non si tratta di raccomandazione, familismo o conflitto di interesse, fenomeni già catechízzati da De Rita (Giuseppe) in una dozzina di rapporti Censis. Dc Rita (Giuseppe) ha scelto De Rita (Giorgio) in quanto è il più bravo di tutti. E se tuo figlio è il migliore, non dargli il posto solo perché la nomina dipende da te sarebbe una discriminazione all’incontrario. Qualsiasi interpretazione diversa, sostiene De Rita (Giuseppe, ma probabilmente anche Giorgio), significa «cercare a oltranza il capello».

Il ragionamento ha una sua audacia, ma forse sottovaluta il fatto che qualsiasi altro padre interpellato dal Censis affermerebbe che suo figlio è il più bravo di tutti. Per questo nelle nazioni diverse dalla Corea del Nord vige l’usanza di impedire a un padre di assegnare incarichi di rilevanza pubblica a un figlio, sia pur bravissimo. Si tratta di clausole curiose dal nome a noi ignoto di regole. Ne scoprirà l’esistenza il prossimo rapporto del Censis.

Disoccupazione record figlia delle riforme mancate

Disoccupazione record figlia delle riforme mancate

Walter Passerini – La Stampa

Non possiamo dare del tutto ragione a Jean Baudrillard, quando diceva che «le statistiche sono una forma di realizzazione del desiderio, proprio come i sogni», ma a volte sembra proprio così. Un’analisi distaccata dopo le recenti polemiche sui dati Istat della disoccupazione in Italia richiede cautela, per non confondere dati veri e interpretazioni forzate, tassi percentuali e valori assoluti, stock di numeri e flussi.

Le chiavi di lettura sono importanti ma dovremmo convenire almeno che non si possono attribuire a governi dimissionati o in carica da pochi mesi colpe che vengono da lontano. Un punto di osservazione condiviso può essere l’inizio della crisi, che in sette-otto anni ha cambiato radicalmente il gioco. Dal 2007 il tasso di disoccupazione in Italia è più che raddoppiato: allora era del 6,1%; oggi, come rivela l’Istat, è del 13,2%, un livello insostenibile. Nel primo trimestre 2014 raggiunse addirittura il picco del 13,6%, ma ciò non suscitò guerre. Il Mezzogiorno è passato dall’11% al 21,7% (primo trimestre 2014). Anche il tasso di occupazione segnala l’allarme, passando dal 58,8% del 2007 al 55,6%. In valori assoluti gli occupati passano da 23,3 milioni a 22,3 milioni. I disoccupati dal 1997 al 2007 si sono dimezzati (da 2,7 a 1,5 milioni), ma da 1,5 milioni del 2007 sono più che raddoppiati ai 3,4 milioni di oggi. Questi i numeri.

Oltre che di quantità, che comprendono pur sempre persone in carne e ossa, per capire le sfide del lavoro occorre però parlare anche di qualità: qualità del lavoro e produttività. È a partire dalla metà degli Anni 90 che le riforme del lavoro hanno innovato le regole del gioco, ma i loro effetti oggi appaiono fragili. La riforma Treu (1997) e la riforma Biagi (2003) hanno sicuramente innovato, ma in parallelo con la crisi hanno contribuito al dualismo del mercato del lavoro. Entrambe hanno aumentato l’occupazione, ma al margine, lasciando relativamente invariati gli stock di occupazione stabile, e incentivando a fisarmonica l’occupazione temporanea nelle sue diverse forme, confinandola all’area dei servizi a minore produttività.

Il dualismo del mercato del lavoro italiano, se da un lato ha permesso di far emergere nuovo lavoro, in parte nascosto dal nero, dall’altro ha alimentato un girone infernale di precarietà, disoccupazione di lunga durata e scarse tutele, penalizzando soprattutto i giovani, anche se laureati e masterizzati. Ora è necessario guardare avanti e non polemizzare sul passato. Anche perché l’universo a cui guardare è composto, oltre che da disoccupati ufficiali (3,4 milioni), da cassintegrati senza scampo, part-time involontari, precari e rassegnati, per un totale di circa 9 milioni di persone a forte disagio occupazionale. In un Paese che non cresce da vent’anni, l’occupazione non può certo aumentare.

E non bastano le regole del mercato del lavoro a creare nuovi posti: serve una politica di sostegno degli investimenti e della domanda delle imprese, da cui potrà scaturire nuova occupazione. Lo stesso Job Act, che contiene alcuni positivi cambiamenti, affronta solo in parte il dualismo del mercato con il contratto a tutele crescenti, riproponendo però il rischio di un doppio binario tra nuovi assunti e vecchi tutelati e riducendo, paradossalmente, mobilità e turn-over: difficile che un occupato lasci il suo posto protetto per un posto meno tutelato.

Tre sono le sfide che abbiamo di fronte, che riguardano imprese, lavoratori e politici. La prima è quella del sostegno della domanda senza la quale non si crea lavoro; è necessario abbassare i costi dell’energia e della burocrazia, incentivare le innovazioni per aumentare la produttività, favorire gli investimenti, dare maggiori certezze alle aziende, ridurre il cuneo fiscale. I sindacati e i lavoratori, ed è la seconda sfida, dovranno dimostrare che tra miglioramento della produttività e difesa delle tutele non c’è contraddizione alcuna; una quota del cuneo fiscale servirà a dare una boccata di ossigeno a salari e stipendi, per aiutare i consumi, ma sarà la contrattazione decentrata l’arma per una maggiore produttività. Ai politici e ai governanti, infine, ed è la terza sfida, occorre chiedere di abbandonare il clima e i toni di una permanente battaglia elettorale, che per avere consensi sul breve oscura le visioni sul futuro e la capacità di fare progetti. La guerra su cui orientare le forze è quella dell’innovazione e delle competenze, nella quale si giocano i destini della competitività oltre che del capitale umano. Siamo al bivio di una nuova transizione, dentro la quale il lavoro gioca una partita decisiva: passare alle politiche attive significa liberare risorse, economiche e umane, e liberarsi dal gorgo di una spesa pubblica fuori controllo, per costruire un nuovo welfare a misura di futuro.

Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia

Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia

Luca Ricolfi – La Stampa

È incredibile, la capacità dei governanti di manipolare i fatti pur di non dirci come vanno le cose. Negli ultimi giorni l’Istat ha fornito i dati sulle forze di lavoro nel terzo trimestre, e ha anticipato i dati provvisori di ottobre. Dati drammatici, ad avere il coraggio di guardarli in faccia. E invece no, immediatamente dopo la diffusione delle cifre Istat si è scatenata la corsa a travisarli. È così che abbiamo appreso che i dati trimestrali dell’Istat ci presentano «una sostanziale e progressiva crescita degli occupati nell’ultimo anno», quantificata in 122 mila occupati in più. E che anche l’incremento della disoccupazione, pari a 166 mila disoccupati in più, non ci deve preoccupare perché «va messo in relazione alla crescita del numero di persone che cercano lavoro». Come dire: se aumenta il tasso di disoccupazione è perché la gente è meno scoraggiata e «più persone tornano a cercare lavoro». Sui trucchi usati per manipolare i fatti non vale neppure la pena soffermarsi, tanto sono ingenui e vecchi (alcuni li insegniamo all’università, sotto il titolo «come si fa una cattiva ricerca»). Sui fatti, invece, è il caso di riflettere un po’.

Occupati in termini reali
Primo fatto: l’occupazione in termini reali sta diminuendo. Che cos’è l’occupazione in termini reali? È la quantità di occupati al netto della cassa integrazione. Se, per evitare le distorsioni della stagionalità, confrontiamo l’ultimo dato disponibile (ottobre 2014) con quello di 12 mesi prima (ottobre 2013), la situazione è questa: gli occupati nominali (comprensivi dei cassintegrati) sono rimasti praticamente invariati (l’Istat fornisce una diminuzione di 1000 unità), le ore di cassa integrazione sono aumentate in una misura che corrisponde a circa 140 mila posti di lavoro bruciati. Dunque negli ultimi 12 mesi l’occupazione reale è diminuita. Apparentemente la diminuzione è di circa 140 mila unità, ma si tratta di una valutazione ancora eccessivamente ottimistica: gli ultimi dati Istat, relativi al terzo trimestre 2014, mostrano che, sul totale degli occupati, si stanno riducendo sia la quota di lavoratori a tempo pieno sia la quota di lavoratori italiani. Il che, tradotto in termini concreti, significa che aumentano sia il peso dei posti di lavoro part-time «involontari» (donne che lavorano poche ore, ma non per scelta) sia il peso dei posti di lavoro di bassa qualità, tipicamente destinati agli immigrati.

I senza lavoro
Secondo fatto: la disoccupazione sta aumentando. I disoccupati erano 3 milioni e 124 mila nell’ottobre del 2013, sono saliti a 3 milioni e 410 mila nell’ottobre del 2014. L’aumento è di ben 286 mila unità, di cui 130 mila nei 4 mesi del governo Letta, e 156 mila negli 8 mesi del governo Renzi. La spiegazione secondo cui l’aumento sarebbe dovuto a una maggiore fiducia, che farebbe diminuire il numero di lavoratori scoraggiati, riprende una vecchia teoria degli Anni 60 ma è incompatibile con i meccanismi attuali del mercato del lavoro italiano, che mostrano con molta nitidezza precisamente quel che suggerisce il senso comune: gli aumenti di disoccupazione dipendono dal peggioramento, e non dal miglioramento, delle condizioni del mercato del lavoro. Sulla disoccupazione, tuttavia, ci sarebbe qualcosa da aggiungere. In questi giorni sentiamo ripetere, dai giornali e dalle tv, che il tasso di disoccupazione non solo è ulteriormente aumentato rispetto a 12 mesi fa (1 punto in più), non solo è molto alto in assoluto (13,2%), non solo è fra i più alti dell’Eurozona, ma sarebbe anche il più alto degli ultimi 37 anni, ossia dal 1977.

I dati del 1977
Ebbene, anche questa, già di per sé una notizia drammatica, detta così è ancora troppo ottimistica. Se dici che siamo al massimo storico dal 1977, o che «siamo tornati al 1977», qualcuno potrebbe supporre che nel 1977 il tasso di disoccupazione italiano fosse più alto di oggi, o perlomeno fosse altrettanto alto. Non è così. Nel 1977 il tasso di disoccupazione era molto minore rispetto ad oggi (7,2% contro 13,2%). La ragione per cui si continua a parlare del 1977 come una sorta di spartiacque è che la serie storica dell’Istat con cui attualmente lavoriamo parte dal 1977. Ma questo non significa che sugli anni prima del 1977 non si sappia niente. Prima del 1977 c’era la vecchia serie 1959-1976. E prima ancora c’erano i dati del collocamento, della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, dei censimenti demografici, a partire da quello del 1861, anno dell’unità d’Italia. Tutte fonti meno sofisticate di quelle di oggi, ma sufficienti a darci un’idea degli ordini di grandezza. Mi sono preso la briga di controllare queste fonti, nonché i notevoli lavori che sono stati pubblicati sui livelli di disoccupazione dal 1861 a oggi e la conclusione è tragica.

Unità d’Italia e dopoguerra
Mai, nella storia d’Italia, il tasso di disoccupazione è stato ai livelli di oggi. Altroché 1977. La disoccupazione era più bassa di oggi anche nel periodo 1959-1976, per cui abbiamo una serie storica Istat. Era più bassa anche negli anni della ricostruzione, dal 1946 al 1958. Ed era più bassa durante il fascismo, persino negli anni dopo la crisi del 1929. Quanto al periodo che va dall’unità d’Italia all’epoca giolittiana, è difficile fare paragoni con l’oggi, se non altro perché è proprio allora che prende lentamente forma il concetto moderno di disoccupazione, ma basta un’occhiata ai censimenti e agli studi che li hanno analizzati (splendidi quelli di Manfredi Alberti, borsista Istat) per rendersi conto che, comunque si definisca il fenomeno, siamo sempre abbondantemente al di sotto dei livelli attuali.

Una stangata sulle bollette dell’acqua

Una stangata sulle bollette dell’acqua

Luigi Grassia – La Stampa

L’Autorità per l’energia elettrica e il gas è responsabile anche (dal 2012) del settore acqua, e ieri in questa sua funzione ha approvato lo schema delle nuove tariffe idriche. Per la prima volta il Garante di settore ha stabilito un criterio omogeneo in tutta Italia, che interesserà le bollette circa 40 milioni di utenti. Con quali conseguenze sui bilanci delle famiglie? In massima parte ne risulteranno dei rincari, condizionati però a investimenti delle aziende idriche per migliorare la qualità del servizio e ridurre 1’impatto ambientale. Se si guarda ai numeri medi (che nascondono una realtà locale frastagliatissima) l’Authority di Guido Bortoni ha deciso rincari di quasi il 10% in un biennio, sommando il +3,9% del 2014 e il +4,8% nel 2015. Però, come detto, questo non varrà per tutti: quasi 6 milioni di consumatori avranno non un aumento ma una riduzione di tariffa, addirittura del 10%.

Scomponendo i numeri in maniera più precisa, dai numeri dell’Autorità si scopre che in Italia le aziende che forniscono l’acqua sono più di 1.600. Una minoranza di queste, circa 350 con 34 milioni di clienti, si vedrà riconosciuto un aumento della remunerazione di quasi il 10% cumulativo attraverso le bollette. Invece le rimanenti 1.250 aziende idriche, che sono quasi tutte municipalizzate piccole o piccolissime, con 6 milioni di utenti, avranno tariffe ridotte in misura quasi speculare del 10%. Come mai quei 6 milioni di clienti sono cosi fortunati? La loro fortuna corrisponde alla sfortuna delle compagnie. Infatti le 1.250 compagnie i cui utenti pagheranno meno sono quelle che non hanno comunicato all’Autorità i dati necessari a determinare le tariffe (per esempio le cifre degli investimenti); quindi queste compagnie vengono punite della loro inadempienza.

Ma perché agli altri 34 milioni di utenti bisogna infliggere un rincaro in bolletta? Il fatto è, spiega l’Authority, che gli investimenti nel settore idrico erano fermi da decenni, e questo ha portato a molti disguidi: forti perdite d’acqua dalle tubature, in certi casi interruzioni del servizio, soprattutto d’estate quando dell’acqua c’è più bisogno, e anche problemi di impatto ambientale (ne creano tutte le attività industriali e di servizio, comprese quelle che sembrano più neutre, come appunto l’acqua). Nei prossimi quattro anni, in cambio dei rincari in bolletta saranno attivati 4,5 miliardi di investimenti, divisi in vari capitoli: le nuove infrastrutture, il miglioramento dei servizi esistenti e la tutela dell’ambiente. Grosso modo l’importo di questi investimenti sarà pari al valore totale degli impianti finora realizzati.

Se si tiene conto dello schema deciso dall’Autorità, si ridimensiona anche una storia particolare come quella di Torino dove l’acqua (è stato detto) rincarerà perché i consumi sono calati e l’azienda idrica locale vuole garantire comunque i suoi introiti. In realtà le compagnie non possono fare quello che vogliono: l’Autorità offre loro una specie di menù, nel quale le aziende possono scegliere il modello tariffario più congruente con gli investimenti fatti e quelli da fare. Fra le associazioni dei consumatori, l’Adusbef calcola che sul complesso delle famiglie italiane si abbatterà «una stangata tariffaria di oltre 130 euro a famiglia nel 2014-2015». L’Autorità non conferma. Quanto al canone Rai da inserire nella bolletta elettrica (come ipotizzato), il garante Bortoni ha ripetuto che sarebbe una scelta «impropria e molto difficile». Adesso spunta l’ipotesi di inserire il canone nella dichiarazione dei redditi.

Gli e-book come i videogame: l’Ue boccia l’Iva agevolata

Gli e-book come i videogame: l’Ue boccia l’Iva agevolata

Marco Zatterin – La Stampa

Salvo miracoli, i giochi sono chiusi. Una decina di stati dell’Ue resta convinta che un libro di carta e uno elettronico siano due oggetti diversi che richiedono tassazioni differenti. Il tentativo di cucire il consenso unanime necessario per rivedere la rotta risulta fallito, così da gennaio i volumi tradizionali saranno ancora assoggettabili all’Iva ridotta (4%), mentre sugli e-book graverà l’aliquota normale, che in Italia è del 22%. Brutta storia. Perché i prezzi aumenteranno e un’editoria già in difficoltà avrà nuovi problemi di domanda, provocati da una scelta bizzarra che aiuta molti fra i Ventotto a fare i propri interessi più che quelli dei cittadini.

L’ultima chance poteva essere il Consiglio Cultura del 25 novembre, ma le speranze sono ridotte al lumicino. Questa settimana la riunione del Coreper – il conclave dei rappresentanti dei governi che prepara i lavori dei ministri – è finita con un nulla di fatto. Italia e Francia hanno spinto per convincere i partner che «un libro è un libro, comunque lo si serva». Inutile. Per motivi vari – esigenze nazionali e questioni procedurali – Commissione, britannici, nordici e centroeuropei hanno detto «no» a Roma e Parigi, mentre i tedeschi hanno fatto tattica e non si sono pronunciati. Risultato: la bozza di conclusioni per il Consiglio Cultura con l’«invito» ai titolari di cattedra dell’Ecofin perché equiparino letture digitali e cartacee non è stata accolta.

L’oggetto del contendere è la direttiva 112/2006 con cui gli stati dell’Unione intendono delineare dal primo gennaio 2015 un «sistema comune d’imposta sul valore aggiunto». È un dispositivo che nelle intenzioni armonizza l’Iva in modo da limitare al massimo la concorrenza fiscale. Si vuole evitare che si possa scegliere un bene o un servizio in un paese, piuttosto che in un altro, solo per ragioni fiscali. Vuol dire omologare aliquote e criterio di applicazione. E, nel caso degli acquisti online, applicare la tassa del paese dove si consegna e non quella della sede in cui la transazione viene registrata.

La contesa sui libri nasce dalle nozze del nuovo criterio di fatturazione con l’Iva «ridotta». Il testo in discussione prescrive che possano usufruire della minore tassa la «fornitura di libri, gli album, la musica stampata, le mappe, i giornali, non il materiale pubblicitario». Bene, sin qui. Però colpisce ciò che manca, gli ebook che i giuristi della Commissione considerano prodotti elettronici come i videogame, che sono soggetti all’aliquota ordinaria. Se vanno sul Kindle non sono libri, l’essere dietro uno schermo li snatura. «Come se l’uomo dentro la doccia non fosse più un uomo», scherza una fonte Ue. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, si batte da sempre per l’equiparazione delle letture, ma non è agevolato dall’essere presidente dell’Ue sino a fine mese, deve per definizione mediare. Con lui sono i francesi che nel 2012 hanno abbassato d’arbitrio l’Iva sugli e-book al 7%, sfidando l’Ue e rischiando la condanna in Corte. Più Olanda, Grecia e Slovenia. L’alleato insolito è il Lussemburgo, in nome delle tasse basse più che per la diffusione della cultura. La ragione è presto spiegata: Amazon fa capo al Granducato; un libro venduto a un residente italiano è attualmente tassato al 3% lussemburghese, ma da gennaio passerà al nostro 22.

Londra ambisce a una zona «no tax» per i servizi finanziari, poi però accetta l’Iva alta sugli ebook, confortata dal mercato «reale» che comunque tira. In settembre la Corte Ue ha deliberato che il doppio binario Iva è legittimo, perché «dipende dalla percezione del consumatore». L’Associazione italiana Editori teme che l’Iva normalizzata geli un mercato digitale che decolla a fatica: era il 3% del totale nel 2013, è salito al 5% nel 2014. Il governo Renzi studia cosa fare, ma non pensa al momento di imitare lo strappo di Parigi. «Si stronca la diffusione di un media che piace ai giovani», fanno notare a Bruxelles, dove ammettono che al Consiglio Cultura una fumata bianca sarà difficile. È una di quelle cose difficili da spiegare ai cittadini, una direttiva che tassa gli ebook al 22% e non la vendita di navi da guerra. Cose che fanno male all’Europa.

«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

Luigi Grassia – La Stampa

Continuano ad arrivare stime sulla propensione dei lavoratori italiani a incassare subito il Tfr maturato nel 2015 anziché aspettare la fine del rapporto d’impiego, nonostante lo svantaggio fiscale per chi sceglie la prima soluzione. Un’indagine della Confcommercio e della società Format Research rivela che i dipendenti che vogliono prendere i soldi al più presto sono una quota abbastanza piccola, solo il 18,1%. Peraltro questo già basta a preoccupare le aziende sul piano finanziario. Il campione riguarda i dipendenti delle imprese fino a 49 addetti; sono quelle per cui la scelta farà la differenza, infatti fino a ora trattenevano tutte le somme accantonate per il Trattamento di fine rapporto e le usavano come liquidità propria – mentre le aziende da 50 dipendenti in su versano i fondi all’Inps, quindi per loro niente cambia con una diversa destinazione del Tfr.

L’indagine si occupa in via preliminare di un problema di informazione e rivela che il 91,9% dei lavoratori dipendenti sa della possibilità di ricevere in busta paga il Tfr che maturerà nel 2015. Quanto alle intenzioni, il 18,1% dice di voler approfittare di questa opportunità, il 18% è indeciso e ben il 63,9% dei lavoratori dice di non volerlo assolutamente fare. Ma queste sono cifre medie, che vanno scomposte. L’intenzione di anticipare l’incasso del Tfr è più forte della media fra i lavoratori di sesso maschile, fra i giovani fino a 34 anni, fra i dipendenti delle imprese del Nord-Ovest, fra i «single», fra coloro che vivono ancora con la famiglia di origine, e fra chi è operaio o comunque svolge mansioni a carattere esecutivo. Come saranno usate le somme che i lavoratori incasseranno in anticipo? Il 60% di chi vuole subito il Tfr lo utilizzerà per maggiori consumi o per spese di cui ha necessità urgente, mentre l’altro 40% dice che ritirerà il denaro extra per risparmiarlo. Se ne deduce che un certo effetto di espansione dei consumi, come spera il governo, dovrebbe esserci. Naturalmente lo scotto è che peggioreranno le prospettive previdenziali.

Le imprese italiane con un numero di addetti fino a 49 sono circa un milione e mezzo. Una parte di queste nel 2015 dovrà versare un extra a una parte dei dipendenti e questo peggiorerà la condizione finanziaria media delle aziende, che sono già provate da anni di crisi economica e da una domanda interna ferma. Difficile valutare l’impatto positivo dei maggiori consumi, ma è certo che l’eventuale beneficio andrà a tutte le imprese, anche a quelle sopra i 50 addetti, mentre l’aggravio finanziario sarà solo per le più piccole. Dall’indagine risulta che a trovarsi più in difficoltà per le nuove regole sul Tfr saranno le aziende con un numero di dipendenti compreso fra 20 e 49, quelle che operano nel ramo industriale (anziché nel terziario) e quelle collocare nelle regioni del Nord Ovest e del Nord Est. Fra le imprese dell’industria (cioè manifattura e costruzioni) il 34,3% (circa 170 mila) subirà richieste di anticipo del Tfr in busta paga da parte di alcuni dipendenti. La quota sarà invece più bassa, attorno al 10%, fra le aziende del terziario (cioe commercio, turismo e servizi) e questo corrisponderà ad altre 110 mila imprese coinvolte, in totale 280 mila.

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Paolo Baroni – La Stampa

Ci sono parrucchieri ed estetiste, spesso ex dipendenti licenziati, che continuano ad esercitare a casa loro o direttamente a casa dei clienti, tassisti completamente abusivi o che magari «sforano» in comuni limitrofi a quelli per cui hanno la licenza, idraulici ed elettricisti che tirano giù la serranda ma che poi continuano come se nulla fosse a prestare i loro servizi, e ancora trasportatori per conto terzi senza la necessaria abilitazione. Per non dire poi di imbianchini e muratori. C’è gente che fa il doppio lavoro e ci sono anche tanti cassintegrati che in questo modo cercano di arrotondare. Complice la crisi l’esercito degli abusivi cresce anno dopo anno. Oggi sono un milione, o quasi, calcola l’ufficio studi di Confartigianato. O meglio sono 881mila, ma visto in media lavorano molte più ore dei regolari «valgono» come 1 milione e 34mila persone, o «unità di lavoro equivalenti a tempo pieno» (ula) per usare il termine dei tecnici. Il tasso di irregolarità, tra i lavoratori autonomi, tocca così il 13,8%. Ovvero, un occupato su 7 è in nero. Se poi si allarga lo sguardo al totale dell’economia il conto degli irregolari, calcolando anche i 2.204.000 lavoratori dipendenti a loro volta «in nero», sale a quota 3 milioni e 85 mila, con un tasso complessivo di irregolarità del 12,4%.

Concorrenza sleale
Questo esercito di abusivi non solo «fa concorrenza sleale alle imprese regolari – è scritto nel rapporto di Confartigianato, che ha elaborato i dati contenuti nei conti nazionali pubblicati dall’Istat a settembre, e che La Stampa pubblica in esclusiva – ma determina una rilevante evasione fiscale». Usando come reddito la media rilevata dagli studi di settore, Confartigianato stima che la presenza di una fetta così ampia di lavoro irregolare determini un’evasione fiscale e contributiva da parte dei soli lavoratori autonomi pari a 11,78 miliardi: 3,8 miliardi di Iva, 2,8 di Irpef, 604 milioni di Irap e 4,54 miliardi di contributi sociali. Tanto per fare un paragone: l’importo evaso dagli abusivi, in media 14.209 euro a testa all’anno, rappresenta lo 0,7 del Pil ed equivale alla spesa sanitaria di Veneto e Marche messe insieme.

Chi è più esposto
Ovviamente le imprese artigiane regolari sono tra le più esposte alla concorrenza sleale del sommerso: circa i due terzi del settore (923.559 imprese, 1.750.427 di addetti) sono a rischio. In cima alla lista “altri servizi alla persona” con un tasso di esposizione del 24,5%, servizi di alloggio e ristorazione (22,1%) e le attività di trasporto e magazzinaggio (19,5%) che in tutto assommano 333.748 imprese e 650.743 addetti. Particolarmente esposti anche parrucchieri ed estetiste, settore che conta 126.790 imprese e 229.300 addetti. In valori assoluti tra le regioni più «colpite» ci sono Lombardia (con 172.688 imprese, pari 18,7% del totale dell’artigianato più esposto), Emilia-Romagna (10,2), Veneto (9,6) e Piemonte (9,5). Commenta il presidente nazionale di Confartigianato, Giorgio Merletti: «Smettiamo di tollerare l’abusivismo e le attività irregolari come se fossero un male necessario. Il fenomeno del sommerso è un’emergenza nazionale, una grave minaccia per il Paese e per il sistema produttivo, soprattutto per artigiani e piccole imprese. Noi piccoli imprenditori siamo le prime vittime della concorrenza sleale di chi opera senza rispettare le leggi, sottraendo gettito alle casse dello Stato e minacciando la sicurezza dei consumatori».

Il record in Campania
In termini assoluti la metà degli occupati irregolari totali si concentra in cinque regioni: l’11,6% in Campania con 357.400 unità, il 10,7% in Sicilia (329.400), il 10,1% in Lombardia (312.600), il 9,4% in Lazio (290.900) e l’8,2% in Puglia con 253.400 unità. In Calabria un terzo (35,3%) degli occupati è irregolare, in Molise, Sardegna, Basilicata e Sicilia viaggiano sul 25%, Campania e Puglia sono attorno al 20. Il tasso di irregolarità più basso è pari al 5,9% e si rileva nella Valle d’Aosta. Un terzo (34,2%) degli occupati irregolari, pari ad oltre un milione (1.054.600 unità), si concentra nelle sette prime province: Roma (222.500 unità), Napoli (200.900), Milano (157.300), Torino (126.700), Bari (106.500), Palermo (87.900), Cosenza (78.500) e Salerno (74.300). Ma a livello provinciale i picchi si toccano a Crotone con il 40,1%, a Vibo Valentia (39,3%) e Catanzaro (37,8%).

Come rimediare a tutto ciò? «Non servono interventi spot e dichiarazioni di buone intenzioni – spiega Merletti -. Il fenomeno del sommerso va combattuto senza ipocrisie e in modo strutturale, intervenendo sulle cause che lo favoriscono, vale a dire tutto ciò che ostacola l’attività delle imprese che lavorano alla luce del sole, a cominciare dal carico fiscale e contributivo troppo elevato e dall’eccesso di burocrazia».

 

Finiamola con l’alibi dell’Europa

Finiamola con l’alibi dell’Europa

Luca Ricolfi – La Stampa

Uno degli episodi che più mi aveva colpito, nella campagna elettorale per le elezioni del 2013, era stata una trasmissione di «Porta a Porta» nella quale Renato Brunetta e Stefano Fassina, ossia due esponenti di parti politiche opposte (Forza Italia e Pd), si erano trovati perfettamente d’accordo su un punto: l’allentamento dei vincoli europei. Il che, tradotto in soldoni, significava e significa: lasciateci fare più deficit, se no l’economia non riparte. Ora constato, tutti i santi giorni, che la stessa idea, ovvero che il patto di stabilità sia «stupido», è condivisa quasi universalmente: lo dice Renzi, lo ripetono i politici di governo e opposizione, lo pensano i sindacati, lo scrivono i giornali. E la teoria che sta alle spalle di questo giudizio è sempre quella: se l’economia europea non si è ancora ripresa è per la debolezza della domanda interna, e il rigore sui conti pubblici, nella misura in cui deprime la domanda, non fa che aggravare la malattia. Il che, tradotto in termini politici, significa: se l’economia non riparte la colpa è della Merkel e dei burocrati europei, che con la loro ottusa ostinazione sul rispetto delle regole bloccano la ripresa.

Questa visione del problema italiano (ed europeo) è indubbiamente suggestiva, se non altro perché alcuni pezzi del ragionamento che la sorregge stanno perfettamente in piedi. Difficile negare i sacrifici degli ultimi 7 anni. Difficile pensare che ci possa essere ripresa se non ripartono consumi e investimenti. Difficile non vedere la lentezza, e spesso l’ottusità, della macchina europea (a proposito: si è votato a maggio, e ancora non abbiamo un governo europeo nel pieno dei suoi poteri). Difficile non cogliere il feticismo di certe regole, come quella che si affida a un algoritmo matematico-statistico controverso (quello del calcolo dell’output gap) per stabilire quanti miliardi di deficit può fare un Paese. E tuttavia…

Tuttavia, detto e riconosciuto tutto questo, mi sembra che un simile modo di mettere le cose non faccia completamente i conti né con la logica, né con la realtà. Non fa i conti con la logica, perché il fatto che gli ultimi anni siano stati (peraltro non sempre e non ovunque) anni di rigore non implica che lasciando correre i conti pubblici le cose sarebbero andate meglio. Forse sarebbero andate ancora peggio, perché alcuni Stati sarebbero falliti e le loro economie non avrebbero più avuto accesso al credito. Ma non fa neppure i conti con la realtà, perché l’idea che l’Europa, o la zona euro, siano in stagnazione o addirittura in recessione è una mezza verità. Se prendiamo i tassi di crescita del Pil per abitante nel 2014-2015 (in parte noti, in parte frutto di stime), quel che colpisce non è il basso tasso di crescita europeo ma, semmai, la grandissima eterogeneità dei tassi di crescita dei vari Paesi. Soffermiamoci sulla zona euro, la grande imputata. E’ vero, c’è un Paese in recessione (Cipro), e ce ne sono quattro, fra cui Italia e Francia, che sono in stagnazione (crescita prossima a zero). Ma tutti gli altri, e sono ben 14 su 19, crescono a un tasso medio del 2% (con punte del 4%), un ritmo che non è da economia in crisi, e meno che mai da economia in recessione. E fra i Paesi che crescono di più, ossia fra il 2 e il 4%, ci sono tutti i cosiddetti PIGS tranne noi: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna.

Se questo dicono i dati, i termini del problema si spostano un pochino. Forse anziché arrabbiarci perché Bruxelles non ci lascia esagerare con il deficit pubblico, faremmo meglio a chiederci come fanno tanti Paesi dell’eurozona a crescere nonostante l’Europa, nonostante l’euro, nonostante l’ottusità dei burocrati. Non voglio azzardare la risposta, che presumibilmente è diversa da Paese a Paese, ma vorrei che almeno si riflettesse: dare la colpa all’Europa è troppo comodo, e sa tanto di alibi. Che l’Europa sia un disastro mi pare una tesi plausibile, ma che al disastro europeo si debba e si possa aggiungere il disastro di governi nazionali incapaci di «cambiare verso» nel loro Paese mi pare un lusso che non ci si può più permettere.

Quanto all’Europa, sono convinto anch’io che abbia un ruolo negativo. E tuttavia oserei, anche qui, avanzare un dubbio. Siamo sicuri che il massimo difetto dell’Europa sia la rigidità nella sorveglianza sui conti pubblici degli Stati nazionali? Io ne suggerirei almeno un altro, secondo me altrettanto se non più dannoso: l’ingerenza selettiva, per non dire masochistica, nelle politiche nazionali. Più precisamente: la tendenza ad essere rigida là dove un atteggiamento più flessibile farebbe meno danni, e ad essere flessibile là dove una maggiore rigidità sarebbe benefica.

Faccio due esempi, giusto per dare un’idea di quel che ho in mente. Prima della crisi l’economia irlandese cresceva più di qualsiasi altra economia avanzata (salvo quella dell’Estonia). La bassa tassazione sulle imprese è stata un fattore fondamentale della crescita irlandese, così come l’ostinazione del governo irlandese nel mantenere bassa tale tassazione anche durante la crisi è stato un fattore cruciale per l’uscita dell’Irlanda dalla crisi (la crescita irlandese è ora fra il 3 e il 4%). Ebbene, le autorità europee, anziché invitare gli altri Paesi a studiare il caso irlandese, hanno spesso esercitato pressioni sull’Irlanda per convincerla ad alzare l’aliquota del 12,5%, in passato per il timore di un mancato ripianamento dei conti pubblici, più recentemente per timore della concorrenza fiscale di un Paese capace di attirare gli investimenti stranieri. Qui una minore ingerenza sarebbe probabilmente benefica.

Ma c’è anche il caso opposto, in cui si rinuncia a un’ingerenza che farebbe bene al Paese che la subisce. Diverse direttive europee, più o meno recenti, impongono agli Stati nazionali cose ragionevolissime: ad esempio di pagare le imprese tempestivamente, di fare leggi comprensibili (senza indecifrabili rimandi a parole, commi ed articoli di altre leggi), di non tenere i detenuti in condizioni disumane, a partire dall’inaccettabile affollamento delle celle. Ebbene l’Italia ha violato sistematicamente tutte queste regole, e continua a farlo serenamente anche ora. Ma qui l’Europa balbetta, e al massimo ci commina qualche multa. Come mai?

Possiamo evitare la terza recessione?

Possiamo evitare la terza recessione?

Stefano Lepri – La Stampa

Per noi in Italia sono davvero brutte notizie, queste sul prodotto lordo del terzo trimestre. Anche nel resto del mondo pare deludente che le economie dell’area euro avanzino a fatica. Ma perché cambi qualcosa anche in Germania devono convincersi che così non va: mentre quel magro +0,1% registrato dal Pil tedesco basta al vicecancelliere Sigmar Gabriel per scorgere un «rafforzamento». Una vera e propria recessione, la terza, è per ora evitata (tranne in Italia). Ma le cifre di luglio-settembre diramate dall’Istat consentono scarso ottimismo. II quarto trimestre, ora a metà, potrebbe rivelarsi ancora più debole, e il primo trimestre 2015 solo di poco migliore. Il sussulto positivo della Francia (+0,3) ha cause che difficilmente si ripeteranno. In Germania l’umore delle imprese fino alla fine di ottobre ha continuato a peggiorare.

Che fare? Delle due azioni suggerite dalle organizzazioni internazionali come Fmi e Orse, una – nuove misure monetarie della Bee – si fa attendere, l’altra – più investimenti pubblici – al momento non è in vista. Al G-20 che comincia oggi in Australia, dove Renzi insisterà per discutere di crescita, l’Europa sarà guardata come la palla al piede dell’economia mondiale. Ma quando il ministro del tesoro Usa Jack Lew invita ad evitare un «decennio perduto», a Berlino ritengono che esageri (mentre in Italia l’abbiamo già perduto per conto nostro, la crescita si era fermata assai prima della crisi). Nell’immediato la speranza è affidata alla Banca centrale europea. Come da anni fanno Federal Reserve, Banca d’Inghilterra, Banca del Giappone, potrebbe compiere acquisti massicci sui mercati per far salire le quotazioni e scendere i tassi di interesse. Solo in caso estremo si tratterebbe di titoli di Stato, perché la Bundesbank si oppone.

Ancora ieri il governatore della Banca di Francia Christian Noyer affermava che solo «un nuovo shock negativo» o un rialzo dei tassi di interesse che parta dagli Usa potrebbero spingere all’azione. Gli analisti finanziari prevedono che si arriverà a un acquisto di soli titoli privati nel corso del primo trimestre 2015. Troppo tardi? Nel caso dell’Italia, poi, l’ulteriore calo dei tassi di interesse così ottenuto avrebbe risultati limitati, se è vero ciò che dicono i banchieri: i soldi non vengono prestati perché le imprese non ne chiedono o G chiedono solo per restare a galla. Sarebbero favorite solo le imprese grandi, in grado di finanziarsi direttamente sul mercato senza passare per le banche.

Gli ottimisti puntano sul recupero nei Paesi euro che più hanno sofferto dell’austerità: cresce il Pil della Grecia, cresce la Spagna. La cura funziona? Se non altro la Spagna è diventata più competitiva, ha fatto riforme efficaci; se ne indica l’esempio all’Italia. Ma il prezzo politico sembra alto: negli ultimi sondaggi di opinione (si vota tra un anno) è in testa o al secondo posto il movimento di estrema sinistra «Podemos», si profila un Parlamento senza maggioranze omogenee. In Spagna il peso del recupero di competitività è stato sopportato in gran parte dai precari, non dai lavoratori a posto fisso: questo spiega il radicalizzarsi di una protesta soprattutto giovanile. La riforma del mercato del lavoro in Italia è bene dunque miri in un’altra direzione, a ridurre il precariato.

Per offrire subito lavoro e ridare fiducia alle imprese la soluzione da molte parti reputata migliore sarebbe un piano di investimenti pubblici a carico delle istituzioni europee e non degli Stati già troppo indebitati come il nostro. A parole esiste l’impegno per i 300 miliardi del piano Juncker, al quale ieri il ministero dell’Economia italiano ha contribuito con progetti per 40. Ma è dubbio che esista la volontà politica collettiva per far andare il piano Juncker oltre le chiacchiere. No a nuovi debiti anche europei, dicono molti Paesi ancora terrorizzati dal rischio di crack dell’Italia nel 2011. Quando giorni fa la direttrice del Fondo monetario Christine Lagarde ha ipotizzato che nel mondo del dopo-crisi sia irrealistico l’obiettivo del «Fiscal Compact» europeo di far tornare il debito degli Stati al 60% del Pil, dalla Germania è partita una salva di proteste. L’eredità peggiore della crisi è la paura.