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I giovani e il mercato del lavoro: tanti giovani non cercano lavoro. Non hanno voglia di lavorare o i salari sono troppo bassi?

I giovani e il mercato del lavoro: tanti giovani non cercano lavoro. Non hanno voglia di lavorare o i salari sono troppo bassi?

La fascia d’età canonicamente considerata dall’Istat 15-34 anni, per rilevare la percentuale dei giovani occupati in Italia, sconta evidentemente il fatto che i minori al lavoro sono fortunatamente pochissimi. Tuttavia, la percentuale di occupati nella fascia 15-34 evidenzia profonde differenze tra le regioni italiane. Il basso numero di giovani occupati trova in parte spiegazione con il decremento del salario medio nel nostro Paese. Dai dati OCSE sulla variazione percentuale dei salari medi annui negli ultimi 30 anni, si rileva che l’Italia è l’unico Paese, tra quelli considerati, in cui il salario medio annuo è sceso: -2,9%. Per converso, nello stesso periodo, in Germania l’incremento è stato del 33,7% e in Francia del 31,1%.

Occupazione in Italia

Nel 2021 in Italia gli occupati tra i 15-64 anni sono 21.849.198 che equivalgono ad una percentuale piuttosto bassa (37,04%) se si considera il totale della popolazione italiana (58.983.169). Il maggior numero di lavoratori si riscontra nella fascia d’età tra i 35-49 anni (15,05%). A seguire coloro che hanno tra i 50-64 anni (13,63%) e per ultimi i giovani tra i 15-34 anni (8,36%). È da considerare che, secondo le rilevazioni OCSE, solo il 3,1% dei giovani tra i 15-19 anni lavora (4,2% uomini e 2,0% donne).

A livello regionale si conferma la stessa panoramica presentata per il contesto nazionale. Infatti, la fascia d’età con il minor numero di occupati rimane quella dei giovani tra i 15-34 anni in tutte le regioni d’Italia. Le regioni con il maggior numero di occupazione giovanile sono il Trentino-Alto Adige (11,74%) – Provincia Autonoma di Bolzano (12,60%) e Trento (10,89%) – la Lombardia (9,89%), il Veneto (9,87%), l’Emilia-Romagna (9,48%), il Friuli-Venezia Giulia (9,31%), e il Piemonte (9,14%). Al contrario, il minor numero di giovani occupati si riscontra in Sicilia (5,82%), Calabria (6,32%), Campania (6,69%), Puglia (6,92%) e Molise e Sardegna (7,02%).

Il divario Nord-Sud evidenzia che i giovani sono più occupati al Nord-Est (9,84%) e al Nord-Ovest (9,48%) rispetto al Sud (6,62%).

Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro dell’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione di dati ISTAT e OCSE.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati ISTAT

Il salario medio annuo

Sorge spontaneo chiedersi: perché i giovani non cercano lavoro in Italia? Non hanno voglia di lavorare o i salari sono troppo bassi? Hanno perso fiducia nelle loro prospettive di lavoro in Italia e stanno cercando altre opportunità all’estero?

Dai dati OCSE sulla variazione percentuale dei salari annuali medi tra il 1990 e il 2020 si evince che in alcuni Paesi come la Germania e la Francia il salario medio annuale è aumentato rispettivamente di +33,7% e +31,1%. L’Italia è l’unico Paese in cui negli ultimi 30 anni il salario medio annuo non è aumentato ma è, invece, diminuito (-2,9%).

«La ricerca evidenzia, da un lato, quanto sia elevato il numero dei giovani che non lavorano, ovvero che entrano nel mondo del lavoro dopo i 30 anni – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – dall’altro ci suggerisce che il problema dei salari bassi esiste: l’Italia è l’unico Paese OCSE in cui il salario medio annuo negli ultimi 30 anni non è aumentato».

Elaborazione ImpresaLavoro su OCSE

Non è un paese per giovani

Non è un paese per giovani

di Massimo Blasoni – Panorama

L’Italia rischia di essere un Paese con poche speranze, soprattutto per i giovani. Per quelli che hanno votato no al referendum al Sud perché ritenevano inadeguato il governo: oltre il 70% nelle Isole e giù di lì in Campania e Calabria. Anche per quelli che pensano che sia indispensabile emigrare all’estero per fare carriera, oppure più semplicemente per trovare lavoro. In effetti non sono pochi i giovani italiani che sono emigrati, oltre 60mila quest’anno. Ci dicono i dati ISTAT che le mete preferite sono il Regno Unito e la Germania. Se ne vanno in Paesi che, in effetti, hanno più crescita e meno burocrazia e dove è più facile fare ricerca. La metà di essi sono laureati e più del 5% tra coloro che hanno conseguito un titolo magistrale se ne va entro un anno dalla conclusione degli studi.

Colpisce una ricerca dell’Osservatorio di Demos-Coop. Il 63% dei nostri figli è convinto del fatto che difficilmente riuscirà a raggiungere – non certo a superare – la posizione sociale dei genitori. Il timore che non esistano opportunità e possibilità adeguate fa crescere l’esercito dei Neet. Sono coloro che né studiano né lavorano e il loro elevato numero ci colloca, in questa speciale classifica, all’ultima posizione in Europa. Un triste primato. I giovani sanno che le scelte fatte in passato con politiche previdenziali e lavori ipergarantiti si traducono oggi, per loro, in situazioni di incertezza. Temono di non avere oggi un lavoro e tantomeno, domani, un dignitoso trattamento pensionistico. D’altronde il nostro tasso di occupazione è al 57,2%, venti punti percentuali inferiore a quello tedesco. Così si allarga il solco tra generazioni.

Scontiamo anche un difetto di formazione. Siamo tra gli ultimi in ambito OCSE per risorse investite nell’Università in rapporto al Pil e meno della metà dei ragazzi italiani ha competenze digitali, contro una media europea del 59%. La maggior parte di loro vive a casa: due su tre, il doppio rispetto ai coetanei francesi e tedeschi. Ovviamente un po’ di mammismo c’è, tuttavia non è prevalente. Tra giovani choosy – cioè schizzinosi – come disse la Fornero nel 2012 e i ragazzi che avrebbero la voglia e le potenzialità per fare di gran lunga prevalgono i secondi. Un esempio? Il numero dei giovani imprenditori è in forte crescita; per spirito d’indipendenza e desiderio di realizzazione e non solo per motivi economici. Nel 2015 gli under 35 hanno aperto 120mila nuove imprese, mentre le chiusure sono state 53mila: un forte saldo positivo. Le young start up in Italia sono il 10% circa delle oltre 6 milioni totali, in media più che nel resto d’Europa. Dunque ci sono anche molti giovani che hanno voglia di mettersi in gioco, sia questo per necessità o per inseguire i propri sogni. Per ingrossarne il numero basterebbe che l’assenza di riforme e l’eccesso di burocrazia del nostro Paese non rappresentassero per loro il primo freno. C’è necessità di opportunità più che di aiuti, quello che gli ultimi governi non hanno saputo dare.

Italiani in fuga: quasi un milione di emigrati negli ultimi dieci anni (più di 136mila nel solo 2014)

Italiani in fuga: quasi un milione di emigrati negli ultimi dieci anni (più di 136mila nel solo 2014)

Negli ultimi dieci anni gli italiani emigrati all’estero sono stati complessivamente 896.510, di cui 136.328 soltanto nel 2014 (+8,42% rispetto all’anno precedente): una cifra più che raddoppiata rispetto ai 65.029 connazionali che avevano lasciato il Paese nel 2005. È il dato principale che emerge da una analisi del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

emigrati1

Nel periodo 2005-2014 ben 114.341 connazionali si sono trasferiti in Germania (17.236 nel 2014, +25,74% rispetto all’anno precedente), 84.955 nel Regno Unito (14.991 nel 2014, +6,65% rispetto all’anno precedente), 62.902 in Francia (10.334 nel 2014, +8,62% rispetto all’anno precedente), 73.613 in Svizzera (11.051 nel 2014, +4,88% rispetto all’anno precedente) e 39.687 in Spagna (4.701 nel 2014, +3,61% rispetto all’anno precedente). Nello stesso periodo di tempo 44.528 nostri connazionali hanno invece preferito stabilirsi negli Stati Uniti (5.951 nel 2014), 19.305 in Cina inclusa Hong Kong (2.944 nel 2014), 11.510 in Australia (1.873 nel 2014) e 9.479 in Canada (1.307 nel 2014). A trasferirsi all’estero nel 2014 sono stati soprattutto giovani tra i 15 e i 34 anni: in tutto 51.906, con un incremento del 10,33% rispetto al 2013 e in numero più che raddoppiato rispetto al 2005 (quando erano stati 24.832). Le loro mete preferite sono state il Regno Unito (7.675 emigrati, +4,65% rispetto al 2013), la Germania (7.453, +27,49%), la Svizzera (4.242, +8,08%) e la Francia (3.714, +3.80%) e gli Stati Uniti (2.162, +10,48%).

destinazioni

«Cresce costantemente negli ultimi anni il numero degli emigrati italiani – ha spiegato l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – e quel che preoccupa è l’elevato numero di giovani che scelgono di costruirsi un futuro lontano dal nostro paese. Negli ultimi dieci anni il numero di italiani under 35 che cercano fortuna altrove è più che raddoppiato: è certamente un segno di un mondo sempre più globale ma anche e soprattutto di un paese che non riesce a rappresentare un’opportunità per crescere e realizzarsi».

Le pensioni dei lavoratori con versamenti discontinui

Le pensioni dei lavoratori con versamenti discontinui

PAPER

a cura di Giuseppe Guttadauro
esperto previdenziale e fondatore del portale www.infoprevidenza.it

Il sistema di calcolo contributivo e quello retributivo
Il tema delle pensioni ritorna sempre alla ribalta dei media e del dibattito politico. Un tema “caldo” che interessa il futuro di tutti e sul quale l’informazione è sempre stata poco chiara e vaga.
Parliamo di pensioni INPS, un mondo che riguarda più di 24 milioni di lavoratori e, nello specifico, del sistema di calcolo delle pensioni per cercare di fare chiarezza su una convinzione molto diffusa: il sistema di calcolo contributivo è penalizzante rispetto a quello retributivo.
Vediamo, prima di tutto, di fare un po’ d’ordine analizzando i due sistemi: a chi sono rivolti e la loro storia.
Il sistema retributivo si applica a coloro che alla data del 31 dicembre 1995 erano già titolari di una posizione lavorativa e per un periodo che varia in funzione degli anni di contribuzione maturati:
● almeno 18 anni, la quota di pensione retributiva è calcolata sino al 31 dicembre 2011. Inizialmente questi lavoratori andavano in pensione con un calcolo esclusivamente retributivo; la riforma Fornero ha, invece, introdotto anche per loro il sistema contributivo a partire dal 1° gennaio 2012;
● meno di 18 anni, la quota di pensione retributiva è calcolata sino al 31 dicembre 1995; agli anni maturati dal 1° gennaio 1996 al momento della pensione viene applicato il sistema contributivo.
Il sistema contributivo si applica interamente, invece, a tutti coloro che non avevano maturato una posizione lavorativa al 31 dicembre 1995. È stato introdotto dalla riforma Dini e calcola l’importo dell’assegno non più sulla media delle retribuzioni bensì su quanto versato a titolo di contribuzione durante la vita lavorativa. Un sistema di calcolo sicuramente più giusto dove la pensione è determinata da quanto versato.
I due sistemi a confronto
Mettendo a confronto i due sistemi scopriamo che non è vero, poi, che tutti i vantaggi stiano nel retributivo e tutti gli svantaggi nel contributivo. Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno d’attività fino a 45 mila euro di stipendio. Per le quote di retribuzione eccedenti tale importo, invece, l’aliquota è decrescente. Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto contributivo massimo pari a 40 anni. Quelli lavorati in più subiscono il prelievo previdenziale sulla retribuzione, ma “non fanno” anzianità contributiva. Ecco il motivo per il quale la percentuale massima di pensione sull’ultima retribuzione può arrivare all’80% (40 anni per il 2%). Nel regime contributivo invece contano solo i contributi versati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore per due motivi:
1. ha accumulato un montante contributivo più elevato;
2. usufruisce di un “coefficiente di trasformazione” più alto in relazione dell’età del pensionamento.
I lavoratori con retribuzioni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un “massimale” che attualmente è di circa 100.000,00 euro l’anno (oltre tale importo non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate come retribuzione pensionabile).
Perché il sistema di calcolo contributivo non è sempre così negativo
Proviamo ad analizzare i due sistemi di calcolo con alcuni esempi numerici, prima su di un lavoratore dipendente e poi su un lavoratore autonomo.
Lavoratore dipendente
È assicurato presso il Fondo Gestione Lavoratori Dipendenti (FPLD) e ha un’aliquota contributiva pari al 33% della RAL (retribuzione annua lorda) di cui il 23,81% a carico del datore di lavoro e il 9,19% a carico del lavoratore.
Analizziamo quindi il caso di due lavoratori dipendenti che maturano il diritto alla pensione entrambi a 66 anni di età e dopo 40 di contribuzione. Ipotizziamo che il primo si trovi in un regime di calcolo esclusivamente retributivo (cosa non più possibile dopo la riforma Fornero ma nel nostro esempio serve come “estremizzazione” comparativa) e il secondo in un regime interamente contributivo e supponiamo che l’ultima retribuzione annua lorda percepita sia stata di 30.000,00 per entrambi.
Per un’analisi comparativa equa (ma anche più semplice) consideriamo che i 30.000,00 euro corrispondano, in termini di potere d’acquisto, alla retribuzione media reale annua (1) percepita nel corso dei 40 anni di lavoro.
Procediamo adesso con il calcolo delle due pensioni.
► Nel sistema retributivo l’importo della pensione è determinato dalla media delle ultime 10 retribuzioni annue (nel nostro caso pari sempre a 30.000,00 euro) a cui si applica un 2% per ciascun anno di anzianità contributiva . Abbiamo, quindi, un 2% x 40 anni x 30.000,00 corrispondente a un importo di pensione di 24.000,00 euro annui.
► Nel sistema contributivo l’importo della pensione è determinato dai contributi versati durante l’attività lavorativa a cui si deve applicare un coefficiente di conversione in funzione dell’età pensionabile. E’ necessario quindi calcolare prima il montante contributivo accumulato. Sapendo che l’aliquota contributiva del dipendente è del 33%, in 40 anni di lavoro il totale complessivo dei contributi versati sarà pari a 396.000,00 euro (33% x 30.000,00 x 40 anni). Il coefficiente di trasformazione relativo al 66° anno di età è il 5,624% e, di conseguenza, l’importo della pensione annua corrisponde a 22.271,04 euro.
Una differenza di 1.728,96 euro a favore del sistema retributivo, pari a poco meno dell’8%.
Lavoratore autonomo
È assicurato presso le Gestioni dei lavoratori autonomi (Commercianti e Artigiani) e ha un’aliquota contributiva che, a regime nel 2019, sarà del 24% interamente a proprio carico.
Procediamo al calcolo della pensione di due lavoratori autonomi, mantenendo invariati i parametri utilizzati per il caso precedente (età pensionabile a 66 anni, 40 anni di lavoro, ultimo reddito prima del pensionamento pari a 30.000,00 euro), e vediamo cosa accade alla pensione retributiva e a quella contributiva.
Nel caso di calcolo retributivo l’importo della pensione sarà sempre di 24.000,00 euro, corrispondente all’80% (40 anni x 2%) del reddito medio reale annuo (1).
Nel sistema contributivo , invece, le cose cambiano, e non di poco. Infatti, dopo 40 anni di lavoro il montante contributivo accumulato (1) sarà pari a 288.000,00 euro (2) a cui si deve applicare un coefficiente di trasformazione corrispondente al 66° anno di età (attualmente il 5,624%) che determina un importo dell’assegno pari a 16.197,12 euro.
Una differenza di quasi 8.000,00 euro l’anno, con una riduzione superiore al 30%.
Sempre riguardo al lavoratore autonomo (con 40 anni di contribuzione) e al sistema di calcolo contributivo, vediamo cosa succede in caso di reddito medio annuo reale di 25.000,00 euro e di 20.000,00 euro
► Con un reddito medio annuo di 25.000,00 euro il montante contributivo accumulato sarà pari a 240.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 40 anni) corrispondente ad una pensione di 13.497,60 euro annui (240.000,00 x 5,624%).
► Con un reddito medio annuo di 20.000,00 euro il montante contributivo si riduce a 192.000,00 euro per una pensione di 10.798,00 euro (192.000,00 x 5,624%).
IPOTESI DI LAVORO DISCONTINUO
Vediamo adesso cosa succede in caso di lavoro discontinuo con un reddito, quindi, incostante e lo vediamo ipotizzando tre fasce di reddito diverse: 30.000,00, 25.000,00 e 20.000,00 euro e con tre “vuoti contributivi” rispettivamente di 3, 5 e 7 anni.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 30.000,00 euro
1. Reddito di 30.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 266.400,00 euro (37 anni x 30.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 14.982,34 euro (266.400,00 x 5,624%).
2. Reddito di 30.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 252.000,00 euro (30.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 14.172,48 euro.
3. Reddito di 30.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 237.600,00 euro (30.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 13.362,63 euro.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 25.000,00 euro
1. Reddito di 25.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 222.000,00 euro (37 anni x 25.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 12.485,28 euro (222.000,00 x 5,624%).
2. Reddito di 25.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 210.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 11.810,40 euro.
3. Reddito di 25.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 198.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 11.135,52 euro.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 20.000,00 euro
1. Reddito di 20.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 177.600,00 euro (37 anni x 20.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 9.988,23 euro (177.600,00 x 5,624%).
2. Reddito di 20.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 168.000,00 euro (20.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 9.448,32 euro.
3. Reddito di 20.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 158.400,00 euro (25.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 8.908,42 euro.
Questo fa chiaramente intendere che il sistema di calcolo contributivo non è poi sempre penalizzante. Dato che l’età pensionabile (3) e il coefficiente di trasformazione sono uguali per tutti, il problema si pone esclusivamente in relazione ai contributi accumulati durante l’attività lavorativa. E’ evidente che la differenza di aliquota contributiva tra un lavoratore dipendente e un autonomo (33% contro il 24%) porta, a parità di retribuzione/reddito, a due montanti differenti e, di conseguenza, a due importi diversi di pensione.
Non è, quindi, il calcolo contributivo che penalizzerà le future pensioni dei giovani, bensì la loro condizione di lavoro caratterizzata da un accesso tardivo nel mercato e una permanenza instabile e saltuaria che rende precaria anche la loro posizione contributiva.
Si continua a discutere di riforma delle pensioni, di flessibilità in uscita, di ricalcolo contributivo, etc. ma forse sarebbe meglio, prima, avviare una seria politica occupazionale perché la salute del sistema previdenziale deve obbligatoriamente passare da qui: incentivazione all’occupazione per aumentare il numero dei lavoratori e delle entrate contributive ma anche, e soprattutto, per garantire una pensione decorosa ai giovani.

(1) Si considerano le retribuzioni e i redditi “reali” percepiti nel corso della vita lavorativa con ipotesi di un tasso d’inflazione pari a zero.
(2) Considerando l’aliquota contributiva del 24% già a regime.
(3) A regime dal 2019.

Le tasse universitarie sono cresciute del 51% e non valgono la spesa

Le tasse universitarie sono cresciute del 51% e non valgono la spesa

Davide Giacalone – Libero

Le tasse universitarie crescono tanto e in fretta, ma il problema principale è che sono tasse, senza alcun rapporto fra quel che si paga e la qualità degli studi che si fanno. A tutti è nota la differenza fra una zucchina e il caviale, né avrebbe senso paragonare il prezzo della prima al secondo. Questo non senso, invece, è pienamente vigente nelle scuole e nelle università italiane, ove le pur esistenti differenze qualitative non si riflettono né in differenze di valore dei titoli di studio, né in quattrini necessari per arrivarci.

L’Unione degli universitari ha eseguito un’operazione imprecisa, ma significativa, dividendo, in ciascuna università, il gettito da tasse per il numero degli iscritti. È imprecisa, perché fra quelli c’è chi è esonerato dal pagamento e chi, invece, paga più della media, essendo alto il reddito familiare. È significativa perché dimostra come le tasse siano cresciute del 5% in un anno e del 51% in dieci. E stiamo parlando di anni a bassa inflazione, quando non negativa. Andando oltre la media si scoprono cose ragguardevoli: le tasse sono cresciute del 189% a Lecce, del 135 a Varese e 132 a Trento.

Contrariamente a quanto sembrano provare i giovani dell’Udu, questi dati non mi scandalizzano. È giusto che il costo degli studi sia sostenuto significativamente da chi li frequenta e, quindi, ne trarrà beneficio. Lo scandalo consiste nel chiedere alle famiglie di pagare, ma senza dare uno straccio di dato sui risultati e la qualità. Tasse, appunto, non rette. Obbligo, appunto, non scelta. In gran parte soldi buttati sull’altare di una divinità tarocca: il valore legale del titolo di studio. Quello è il totem da abbattere, se si vuole puntare alla qualità e alla comparabilità.

Sostiene Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu, che «è venuto il momento di operare una riforma complessiva del sistema, che riduca il peso delle tasse, soprattutto per i redditi più bassi, e introduca un criterio forte di progressività». No, si deve fare l’esatto contrario. Quella è la ricetta del socialismo dell’ignoranza. Questo è un sindacalese che fa apparire decrepito anche un giovine. Gli atenei non sono tutti uguali, e ciò deve riflettersi anche sul loro costo. Il diritto allo studio non consiste nel concedere a tutti i redditi di languire in un diplomificio, ma di assicurare ai meritevoli di sopravanzare i somari. La giustizia sociale, nelle università, è assicurata dal prestigio e dalle rette che dipendono dai risultati ottenuti, talché un giovane promettente, ma povero, non solo non lo fanno pagare, ma se lo contendono, perché alzerà la media dei risultati, accrescerà il prestigio dell’ateneo e, quindi, le richieste di denaro che potranno essere fatte a chi voglia frequentarlo.

Le “tasse” producono due negatività. Intanto sono funzione della spesa, non di progetti didattici o investimenti nella qualità. Crescono perché sono diminuiti i finanziamenti governativi, quindi si paga di più senza avere nulla di più. In un sistema più libero e aperto non avrei nulla in contrario a che il rettore metta in cattedra la moglie, ma gli chiederei quanto intende pagarmi se convincessi mio figlio a frequentare quella famiglia di cattedratici. Con le tasse, invece, devo pagare io per potere frequentare il magnifico. Che mi pare una magnifica fregatura.

Caos pensioni, ma per i giovani sarà peggio

Caos pensioni, ma per i giovani sarà peggio

Panorama 14 maggio 2015 (1)  Panorama 14 maggio 2015 (2)

 

 

 

 

Gianni Zorzi* – Panorama

La recente sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato lo stop all’adeguamento al costo della vita introdotto dal decreto Salva Italia del 2011 ha riacceso il dibattito sul tema della spesa pensionistica, e in particolare sulla sua sostenibilità. Nel nostro Paese, infatti, la spesa per le pensioni, anziché diminuire, è aumentata, e l’Italia è ora al primo posto tra i Paesi Ocse sia se si considera l’incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica complessiva (il 31 ,9 per cento, quasi il doppio della media Ocse di 17,6) , sia in rappono al Pil (14,9 per cento, oltre una volta e mezza la media Ocse di 9,5). Nel 2050, inoltre, salirà al 15,7 per cento del Pil e il dato potrebbe peggiorare se vi saranno ancora ritardi nella crescita economica.

La situazione peggiore è quella dei giovani, che si ritrovano minori probabilità di garantirsi un reddito elevato e stabile, e hanno tuttora anche il problema della mobilità nell’Unione europea: se lavorano in Paesi diversi, ai fini pensionistici ancora non hanno strumenti agili di armonizzazione diversi da quelli farraginosi determinati dagli accordi bilaterali ora in essere. Le discontinuità nei rapporti di lavoro e nelle carriere lavorative, comunque, possono costituire il problema principale per i nostri giovani, e del resto si riverberano già oggi in un più basso livello di reddito e di patrimonio, ancor prima che di risparmio pensionistico. I dati pubblicati da Banca d’ltalia mostrano che gli under 35, un tempo depositari di oltre il 17 per cento della ricchezza finanziaria delle nostre famiglie (dati 1991), ora ne detengono solo il 4; nello stesso periodo la ricchezza concentrata tra gli over 65 è invece aumentata dal 21 al 34 per cento.

Se i giovani sono meno ricchi e hanno un reddito più incerto e basso, non stupisce che il tasso di adesione alla previdenza complementare in Italia sia molto più elevato per i soggetti vicini alla pensione: ai fondi e ai piani pensionistici è iscritto più di un terzo dei lavoratori over 55, mentre non vi partecipa nemmeno un quarto degli under 45. Le agevolazioni fiscali previste per le forme complementari, del resto, si fondano soprattutto sulla deducibilità ai fini Irpef dei contributi volontari entro il limite dei vecchi 10 milioni di lire annui. Tale sistema di incentivi, che comunque pesa sulla fiscalità generale per oltre 3,5 miliardi di euro all’anno, risulta più vantaggioso, paradossalmente, per chi della previdenza complementare avrebbe oggi meno bisogno, ossia i più ricchi e i più anziani dal punto di vista lavorativo (che sfruttano la deduzione ad aliquote Irpef più alte, e sono i più prossimi all’età pensionabile). Ci si chiede dunque se questo rneccanismo di deducibilità dei contributi volontari sia ade­ guato a incentivare e rendere conveniente l’adesione dei più giovani alla previdenza complementare, oppure se sia da ripensare, ed eventualmente sostituire in favore di altri interventi più utili alla produttività e alla crescita, come quello di un alleggerimento del cuneo fiscale.

Una ricerca del Centro studi Impresalavoro ha inoltre stimato che il recente aumento delle tasse sui guadagni della previdenza integrativa e sulla rivalutazione del Tfr deprimerà le «pensioni di scorta» di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro di un ulteriore importo compreso tra il 5 e l’8,6 per cento, mentre la liquidazione del Tfr subirà un taglio aggiuntivo a fine carriera compreso tra il 3,6 e il 6,2 per cento. Non solo, dunque, i nostri giovani si ritrovano già oggi un carico generazionale pesante e un debito pensionistico elevato sulle loro spalle, ma il sistema fiscale continua a penalizzarli, e sembra pure che «le buone notizie» ­ quando arrivano ­ non li riguardino.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro (ha collaborato il professor Giuseppe Pennisi)

Una bomba pronta a scoppiare – Massimo Blasoni*

La “bomba previdenziale” che rischia di esplodere nei prossimi anni non è figlia soltanto della sentenza della Corte Costituzionale entrata a gamba tesa sulla “riforma Fornero”. Il nostro sistema pensionistico sconta infatti due grandi crisi, diverse e complementari, che imbrigliano l’Italia: quella demografica e quella economica. Siamo un Paese sempre più anziano e con una popolazione attiva in costante diminuzione, anche perché mancano serie politiche di sostegno alla natalità e alla famiglia (per le quali investiamo molto meno dei nostri partner europei: solo l’1,4 del Pil). Poi c’è la perdurante crisi economica. Senza un deciso cambio di rotta l’incidenza sul Pil della nostra spesa pensionistica è destinata a crescere: il numeratore della spesa per pensioni aumenterà lentamente ma inesorabilmente, mentre il denominatore del Pil rischia di vivere una nuova stagione di bassa crescita e di stagnazione. Così il sistema non è sostenibile. O si attuano riforme radicali in grado di liberare la crescita economica oppure servirà una nuova, pesante, riforma della previdenza.

* presidente del centro studi ImpresaLavoro

Delude Garanzia Giovani, pochi fondi e zero assunti

Delude Garanzia Giovani, pochi fondi e zero assunti

Filippo Santelli – La Repubblica

«Mi sono iscritto a maggio, aspetto ancora di essere contattato», si sfoga un 24enne sardo. A una ragazza di Roma, 23 anni, è andata poco meglio: «Sono stata chiamata per un colloquio, ma si sono limitati a illustrarmi il programma». Per un suo corregionale invece, 25 anni, il messaggio è stato diretto: «Mi hanno detto che offerte di lavoro non ci sono, le aziende che hanno aderito sono pochissime». Non sta funzionando Garanzia Giovani, il piano che avrebbe dovuto garantire agli under29 che non studiano né lavorano, i Neet, un’opportunità di formazione o impiego. Lo dicono le testimonianze, anonime ma numerose, raccolte dal centro studi Adapt e dal sito Repubblica degli Stagisti. E lo confermano pure i numeri ufficiali del ministero. Perché su un milione e 700mila giovani Neet italiani una frazione, 340mila, si sono registrati alla Garanzia, solo 139mila sono stati contattati da un centro per l’impiego per il primo colloquio e appena 11mila e 775 hanno ricevuto una proposta di stage, contratto o corso professionale. Uno ogni 30, su per giù. Con tempi di attesa ben superiori ai quattro mesi promessi.

«Anche solo per attivare un tirocinio, il processo è molto articolato», spiega Luigi Olivieri, 50 anni, dirigente dei servizi per il lavoro della provincia di Verona. Prima bisogna provare l’interesse del mercato per una determinata figura professionale e raccogliere la disponibilità di un certo numero di imprese. Quindi ottenere l’approvazione della Regione. E solo allora preparare una graduatoria dei giovani, organizzare un incontro con l’azienda e scrivere il loro progetto formativo. «Il tutto prende due mesi e mezzo», continua Olivieri. Ogni territorio ha definito regole e criteri diversi, è il federalismo delle politiche per il lavoro. Ma le difficoltà a avviare proposte concrete è una costante. In Veneto sono stati impegnati solo 8 milioni di euro, sui 40 ricevuti per corsi di formazione e programmi di inserimento lavorativo. In Sicilia solo 25 milioni su 178. «La modalità scelta, basata sulle candidature dei giovani, non permette di attirare le aziende», dice Olivieri.

Anche il governo sembra averlo capito. Due decreti del ministero del Lavoro, ora al vaglio della Corte dei Conti, cercano di rendere più appetibile per le imprese l’adesione a Garanzia Giovani. Il primo corregge l’attuale sistema di profilazione dei ragazzi, che li classifica in base alla loro occupabilità. Al momento sette su dieci finiscono nelle classi meno svantaggiate, con incentivi più bassi per chi li assume. Il secondo allarga il bonus anche ai contratti di apprendistato e a quelli a termine di durata inferiore ai sei mesi, e permette di cumularlo con altri tipi di facilitazioni economiche o contributive.

«Ma così Garanzia Giovani diventa ancora di più un sistema di incentivi a pioggia per le assunzioni, poco efficaci», ragiona il direttore di Adapt Michele Tiraboschi, secondo cui è l’impianto stesso della misura a non funzionare. «L’obiettivo iniziale era creare un sistema che prendesse in carico, orientasse e formasse i giovani, che li rendesse più occupabili », dice. Questo lavoro, almeno in prima battuta, lo dovrebbero fare i centri pubblici per l’impiego. Che però in Italia restano a corto di fondi (500 milioni di euro l’anno, contro i 5 miliardi stanziati della Francia) e di personale qualificato (solo il 25% dei dipendenti è laureato). E senza certezze sul domani, proprio come le Province da cui dipendono. Nascerà un Agenzia nazionale per il lavoro, ma non prima di aver riformato il Titolo V della Costituzione, riportando la competenza sulle politiche attive a livello centrale. Non a caso, la parte del Jobs Act che procede più lenta.

Garanzia Giovani, un flop

Garanzia Giovani, un flop

Simona D’Alessio – Italia Oggi

Il ministero del welfare certifica il «flop» della Garanzia giovani: a fronte di «366 mila registrati» al programma d’inserimento al lavoro e formazione (con una dotazione di oltre 1,5 miliardi di euro), infatti, «il 39% è stato preso in carico da centri per l’impiego e strutture private accreditate», ma «non possiamo dirci soddisfatti». Ecco, perciò, spiegata la partenza della cosiddetta «fase 2» del piano, per stimolare scuole e imprese, affinché le misure per strappare dall’inattività gli under 29 vengano efficacemente realizzate. È lo stesso titolare del dicastero di via Veneto, Giuliano Poletti, a dare il polso della situazione del programma di matrice europea, la cui gestione e affidata alle regioni, iniziato ufficialmente il 1° maggio scorso, rispondendo ieri, nell’Aula di Montecitorio, a una interrogazione di Emanuele Prataviera (Lega Nord) sui costi dell’intervento nato con l’obiettivo di assicurare un posto di lavoro, un contratto di apprendistato, un tirocinio, o un iter di apprendimento ai ragazzi non ancora trentenni «entro quattro mesi dall’entrata in disoccupazione, o dalla fine di un percorso di istruzione».

L’autocritica per il mancato successo della Garanzia giovani, a meno di una settimana dalla diffusione delle cifre impietose sui senza impiego da parte dell’Istat (a novembre 2014 il tasso nella fascia 15-24 anni balza al 43,9%, in rialzo di 0,6 punti percentuali su ottobre, ndr) è preceduta da una puntualizzazione: l’Italia è il secondo paese dopo la Francia che in Europa ha visto approvare il suo programma. Tuttavia, otto mesi dopo l’avvio della possibilità di registrarsi sul sito nazionale (www.garanzia-giovani.gov.it) o sui portali regionali, ad oggi hanno aderito in «366mila, e 128mila sono stati presi in carico dai centri per l’impiego e dai privati accreditati», pari al 39%.

E quanto alla spesa, prosegue Poletti, «prevedendo l’intervento superi i 500 mila giovani, il costo medio» per ciascuna delle persone raggiunte dovrebbe aggirarsi «intorno ai 3 mila euro», mentre nella campagna pubblicitaria nelle sale cinematografiche sono stati investiti «145 mila euro». A fronte di ciò, «non diciamo che la montagna ha partorito un costoso topolino, ma neanche che siamo soddisfatti», osserva, puntando i riflettori sulle modifiche in corso d’opera, giacché «il governo, il ministero e le regioni hanno avviato quella che è stata definita una “fase 2” del progetto», che si augura «attraverso l’attivazione di rapporti con scuole, sistemi d’impresa e meccanismi di comunicazione con i giovani» possa «migliorare le performance» della Garanzia giovani.

Restyling in vista anche per il nuovo regime dei minimi; il ministro, confermando quanto annunciato giorni fa dallo stesso premier Matteo Renzi, dichiara che l’esecutivo prende atto che gli interventi nella legge di Stabilità «possono incidere», come il- lustrato nell’interrogazione di Tiziana Ciprini (M5s), «negativamente su alcune categorie di lavoratori autonomi, giovani professionisti e free-lance». E si prepara ad adottare «rapidamente un testo correttivo».

Con Renzi 203mila posti di lavoro in meno

Con Renzi 203mila posti di lavoro in meno

Franco Bechis – Libero

Sotto la guida di Matteo Renzi l’italia è diventato il paese con la maglia nera nell’area dell’euro per aumento del tasso di disoccupazione. A novembre 2014 il tasso di disoccupazione in italia è salito al 13,4%, che è il dato più alto della storia delle rilevazioni fatte dall’Istat. Nell’area dell’euro è il sesto tasso di disoccupazione dopo quelli di Grecia, Spagna, Cipro, Croazia e Portogallo. Ma fra i 28 paesi dell’Unione l’Italia è quello in cui la crescita della disoccupazione è stata maggiore nell’ultimo anno: un anno fa il tasso era infatti al 12,5%. Gran parte di questa variazione negativa è avvenuta proprio con il governo Renzi: a fine febbraio il tasso di disoccupazione era al 12,7%. Un dato che evidenzia l’inefficacia delle politiche economiche adottate dal governo, che hanno provocato danni e non gli attesi benefici. La perdita di occupati è legata tutta a scelte di politiche nazionali e non al ciclo economico: in 22 paesi su 28 in Europa infatti è avvenuto l’esatto contrario, e senza l’Italia il dato della disoccupazione sia nell’area dell’euro che all’interno dell’Unione europea sarebbe migliorato nell’ultimo anno (e invece è stabile). Enorme il divario con la Germania, dove il tasso di disoccupazione è sceso al 5%, meno della metà di quello italiano.

Tutti indicatori principali rivelati ieri dall’Istat sono negativi per l’Italia: cresce il tasso di disoccupazione giovanile, che tocca la quota monstre del 43,9%, dimostrando come gli effetti dell’originario decreto legge sul job act della primavera scorsa siano stati nulli. A novembre 2014 poi gli occupati erano 22 milioni 310 mila, in diminuzione dello 0,2% sia rispetto al mese precedente (-48 mila) sia su base annua (-42 mila). il tasso di occupazione, pari al 55,5%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e rimane invariato rispetto a dodici mesi prima. il numero assoluto dei disoccupati, pari a 3 milioni 457 mila, aumenta dell’1,2% rispetto al mese precedente (+40mila) e dell’8,3% su base annua (+264mila).

Giusto un mese fa Renzi aveva provato a leggere in altro modo dati che già allora erano negativi, sostenendo: «I dati della disoccupazione ci preoccupano. Ma il dato degli occupati in realtà sta crescendo. In Italia ci sono più persone che lavorano rispetto a quando abbiamo iniziato l’esperienza di governo. «Ci sono più di centomila posti di lavoro in più», aveva assicurato il premier, pur ammettendo «non basta: siccome negli anni precedenti si è perso un milione di posti di lavoro, per riuscire a recuperare c’è ancora tanto tanto lavoro da fare. Non bisogna negare l’evidenza dei problemi – sottolinea il premier – ma neanche guardare solo il bicchiere mezzo vuoto». Ottimista era stato anche il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che aveva rilevato un dato degli occupati a settembre che avrebbe evidenziato «82mila posti di lavoro in più ed è il miglior dato da inizio 2013. È un bel risultato perché è un segno di speranza». Allora entrambe sembrarono ad economisti e osservatori posizioni ottimistiche un po’ forzate. Oggi la fredda verità dei numeri svela la propaganda utilizzata e per settimane propagata ad ampie mani in ogni dibattito e tweet dai Renzi boys.

Da febbraio 2014, quando Renzi ha preso le redini del governo il tasso di disoccupazione generale è salito di 0,7 punti percentuali, quello della disoccupazione giovanile è cresciuto di 1,6 punti dal 42,3 al 43,9%, quello della disoccupazione femminile è lievitato di 1,1 punti percentuali passando dal 13,5 al 14,6%. In quello stesso arco di tempo, durante il governo Renzi il numero di occupati è sceso di 14 mila unità (e non aumentato di 100 mila, come disse il premier con una bugia), passando da 22 milioni e 324 mila occupati a 22 milioni e 310 mila occupati di fine novembre. Al contrario il numero totale dei disoccupati è salito da 3 milioni e 254 mila a 3 milioni e 457 mila unità: sotto il governo Renzi 203 mila disoccupati in più. La variazione è stata negativa sia per la disoccupazione giovanile (54 mila disoccupati in più in soli nove mesi) che per la disoccupazione femminile, cresciuta nello stesso periodo di 145 mila unità, passando da 1 milione e 452 mila a 1 milione e 597 mila disoccupate.

Sotto il governo Renzi dunque i disoccupati in totale sono cresciuti del 6,23%, e all’interno di questo drammatico dato i più penalizzati sono state proprio le categorie più deboli che secondo la propaganda dell’esecutivo sarebbero dovuti essere i beneficiari del cambio di verso nelle politiche economiche. Quei giovani cui era stato indirizzato il primo job act si sono trovati con l’8 per cento di disoccupazione in più. Ma il dato che sorprende rispetto alla vulgata governativa è stata la crescita straordinaria della disoccupazione femminile: +9,98%. Sarà anche vero che al governo le renziane hanno ottenuto un numero di poltrone di primo piano che non aveva precedenti, come vero che qualche donna vip ha ottenuto uno strapuntino di rilievo nelle poltrone di sottogoverno: è innegabile però che a tutte le altre italiane che non facevano parte della corte con il govemo Renzi è andata peggio come mai era accaduto nella storia.