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In Italia se sei straniero trovi lavoro prima

In Italia se sei straniero trovi lavoro prima

Laura Della Pasqua – Il Tempo

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. E l’Italia è uno tra questi. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili, quelli del 2014, il tasso di occupazione dei cittadini italiani nel nostro Paese è del 55,4%, quasi dieci punti percentuali in meno della media Ue (65,2%). Mentre siamo sopra la media europea per occupati tra lavoratori extra-Ue.

Secondo il Centro Studi infatti se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola verso l’alto. Il nostro 56,7%, infatti, è sopra sia alla media Ue (53,2%) sia alla media dell’area euro (52,1%). E il 28° posto su 30, conquistato a stento dai lavoratori di cittadinanza italiana, diventa un 13° posto su 29 (per la Slovacchia non sono disponibili dati aggiornati) quando si tiene conto soltanto dei lavoratori extra-comunitari.

Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Solo altri quattro Paesi europei oltre all’Italia, infatti, hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-6,5%), Lituania (-7,3%), Ungheria (-8,2%) e Cipro (-14,5%).

In tutto il resto d’Europa, la differenza è a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame. Il fabbisogno di manodopera a basso costo e la necessità di reperire personale per mansioni di cura garantiscono una maggiore appetibilità della forza lavoro immigrata e, in caso di perdita del lavoro, una maggiore rapidità per rientrare nel mercato. Accettando lavori pagati meno e meno qualificati, insomma, gli immigrati lavorano più degli italiani.

Una delle caratteristiche del mercato del lavoro immigrato in Italia resta però la forte esclusione della componente femminile, che va a riempire quasi totalmente il bacino degli inattivi. Il tasso di disoccupazione delle donne egiziane (45,6%), pakistane (38,5%), tunisine (35,4%), marocchine (34,6%), albanesi (31,7%) è elevatissimo, ma ben più grave è il fenomeno dell’inattività.

Gli stranieri in età da lavoro nel 2014 in Italia sono 4 milioni, di cui 2.294.120 occupati, 465.695 in cerca di lavoro e 1.240.312 inattivi.

 

Flop da spending review: tagli alle imprese, più soldi alle partecipate

Flop da spending review: tagli alle imprese, più soldi alle partecipate

di Leonardo Ventura – Il Tempo

La spending review non ha colpito le partecipate. I piani messi in campo negli ultimi anni non hanno frenato il trend della spesa. Nel periodo compreso tra il 2011 e il 2014 ,la spesa degli enti locali erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi. E nel 2015, anno per il quale non sono ancora disponibili dati definitivi, questa cifra non sembra aver subìto variazioni significative. È questo il dato complessivo che emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione dei dati contenuti in Siope, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici.

La variazione più evidente, negli anni presi in considerazione dalla ricerca, è quella che ha riguardato la distribuzione di questi trasferimenti e partecipazioni tra la quota destinata alle imprese pubbliche e quella riservata alle imprese private. A livello nazionale, infatti, la spesa degli enti locali per le partecipazioni pubbliche è aumentata – tra il 2011 e il 2014 – di quasi un miliardi (+35%), mentre 1’importo destinato alle imprese private è calato di circa 800 milioni (-17%). Il 77% di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e íl 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo. Il residuo 23%, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Cíttà metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi.

Scomponendo il dato che riguarda i trasferimenti verso le imprese pubbliche la ricerca ha individuato una componente stabile e costante – pari a oltre 1,4 miliardi – rappresentata dai trasferimenti correnti operati dalle Regioni (1,1 miliardi) e dagli altri enti locali. Più variabili, invece, i dati dei contributi in conto capitale, che sono praticamente raddoppiati dal 2011 (circa 770 milioni) al 2014 (1,5 miliardi). Crescono tendenzialmente, anche se in modo meno evidente, le partecipazioni azionarie nelle imprese pubbliche (arrivate a 244,5 milioni nel 2014). Mentre il dato sul ripianamento delle perdite, pur residuale, è pesato comunque per oltre 166 milioni nel 2014. Infine, la spesa verso le imprese speciali (le cosiddette «municipalizzate»), composta quasi interamente da trasferimenti correnti di Comuni e Province, resta stabile al di sopra dei 300 milioni all’anno.

Per quanto riguarda le imprese private, la voce più rilevante (che è anche quella più colpita dai tagli degli ultimi anni) resta quella dei trasferimenti in conto capitale a carico delle Regioni, che nel 2011 erano pari a 2,7 miliardi ma che sono scese fino ai 2,1 miliardi nel 2014. La diminuzione dei contributi alle imprese private si nota anche nei trasferimenti correnti delle Regioni: dai quasi 1,5 miliardi del 2011 agli 1,2 miliardi del 2014. Stabili, invece, i trasferimenti da parte di Province e Comuni. A guidare la classifica della spesa pro-capite verso le imprese pubbliche e speciali sono le tre Regioni Autonome del Nord Italia – Trentino Alto Adige, Val d’Aosta e Friuli Venezia Giulia – i cui enti locali spendono rispettivamente 295, 205 e 116 euro per abitante. Agli ultimi posti si piazzano invece Molise e Calabria, che spendono meno di 10 euro per abitante.

Così il patrimonio pubblico viene svalutato sul mercato

Così il patrimonio pubblico viene svalutato sul mercato

Massimo Blasoni – Il Tempo

Alloggi occupati illegalmente, famiglie che avrebbero diritto a una casa popolare che rimangono per strada, patrimonio immobiliare pubblico in affitto a prezzi stracciati agli amici degli amici: la cronaca ci propone ciclicamente una pletora di esempi di come lo Stato imprenditore nel settore immobiliare sia completamente fallito. E questo vale sia per gli immobili che Comuni, Regioni, enti pubblici possiedono come proprio patrimonio e fanno rendere pochissimo (lo si venda subito, piuttosto che concederlo a prezzi irrisori a partiti, associazioni amiche, parlamentari dello stesso colore politico) sia con riferimento al più generale tema delle politiche abitative.

In tema di edilizia popolare, lo Stato ha finanziato enti che hanno costruito (a prezzi fuori mercato) case da destinare alle famiglie bisognose, ha scelto a chi dovessero essere concesse e infine ha deciso che la tale famiglia dovesse per forza di cose andare ad abitare in quel determinato appartamento. Risultato? Il valore del patrimonio immobiliare pubblico continua a deteriorarsi e i flussi di cassa derivanti dai canoni agevolati sono spesso inesigibili perché gli stabili sono occupati da chi non ne avrebbe diritto o perché gli inquilini sono morosi.

Una soluzione liberale a questo problema esiste e consiste nella privatizzazione. Alle famiglie bisognose si potrebbe erogare un sussidio finanziario finalizzato all’affitto di un immobile. Che non dovrà essere costruito, mantenuto, controllato dal Comune o dall’agenzia pubblica per l’edilizia popolare locale ma potrà essere liberamente contrattato nel mercato. Le famiglie potrebbero vivere in contesti da loro scelti e smetteremmo di finanziare aziende per l’edilizia popolare, cda, presidenti, direttori.

Una transizione morbida tra questi due modelli potrebbe poi avvenire con un piano di dismissione degli alloggi pubblici a favore di chi oggi ci abita e che potrebbe riscattare l’abitazione a prezzi convenienti (con l’affitto trasformato in mutuo) o ancora di cessione del patrimonio a strumenti di gestione immobiliare avanzata (fondi, società immobiliari private, ecc.) sottoposti a controllo pubblico. Tutto quello, insomma, che oggi non avviene.

Leggi l’articolo sul sito de “Il Tempo”

Ma nel Lazio l’occupazione non conosce crisi

Ma nel Lazio l’occupazione non conosce crisi

IL TEMPO del 29 dicembre 2015

Dall’inizio della crisi, ovvero dal 2008 ad oggi sono stati persi 656.911 posti di lavoro: ben 486mila al Sud e nelle Isole, 249mila nelle regioni del Nord mentre il Centro (grazie ai 116mila posti di lavoro in più registrati in Lazio) fa segnare un dato in controtendenza, +78mila. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Istat. Poche regioni italiane hanno oggi livelli occupazionali vicini a quelli fatti segnare prima della crisi. Ad essere sopra i livelli del 2008 ci sono due regioni: oltre al Lazio, infatti, solo il Trentino Alto Adige ha visto in questi anni aumentare il numero dei propri occupati (+20mila).

In termini percentuali ad aver risentito maggiormente della crisi è stata la Calabria, dove sono andati in fumo il 14,83% dei posti di lavoro. A seguire il Molise (-10,52%) e la Sicilia (-10,22%). Al Nord la regione che ha sofferto di più in questi anni è il Friuli Venezia Giulia (-4,52%), seguita dal Veneto (-4,23%) e dalla Liguria (-4,01%). La Lombardia (-0,66%) è sostanzialmente ai livelli di occupazione fatti riscontrare prima della crisi, mentre il Trentino Alto Adige riesce addirittura a far crescere del 4,19% i propri occupati.

Il 2015 ha confermato il trend di recupero dell’occupazione iniziato nel 2014. I dati al terzo trimestre 2015 indicano un aumento di 154mila occupati su base annua, con una composizione per regione che questa volta sembra premiare il Sud del Paese. In valori assoluti la regione in cui si sono creati più nuovi posti di lavoro è la Puglia (+38mila700), seguita dalla Toscana (+23mila200), dalla Sicilia (+19mila600) e dalla Sardegna (+18mila200). Rimane drammatica la situazione della Calabria che nei primi nove mesi del 2015 perde ulteriori 13mila400 posti di lavoro, rimanendo la regione italiana più colpita dalla crisi. Al nord crescono sensibilmente Liguria (+12mila) e Lombardia (+8mila500).

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

di Filippo Caleri – Il Tempo

Statali più cagionevoli di salute. Forse perché il loro posto di lavoro è più sicuro rispetto al privato. Dove infatti ci si ammala di meno nel corso dell’anno. In ogni caso in entrambi i settori se proprio si deve stare a casa con il termometro sul comodino si preferisce il lunedì. Il primo giorno della settimana è scelto per comunicare la malattia al datore di lavoro nel 30% dei casi. I dati sono stati elaborati dall’osservatorio statistico dell’Inps che ha contabilizzato tutte le giornate di malattia nel 2014 sia nel pubblico sia nel privato. In tutto si tratta di oltre 109 milioni di giorni (77.195.793 giornate nel privato e 31.525.329 nella pubblica amministrazione). La conferma della fragilità della salute dei ministeriali è confermata anche nei dati percentuali. L’Istituto guidato da Tito Boeri ha registrato lo scorso anno un aumento dello 0,8% (6.031.362) dei certificati di malattia presentati dai lavoratori pubblici e un calo del 3,2% (11.494.805) di quelli dei dipendenti privati.

A confermare che la salute è più debole tra i dipendenti pubblici si è aggiunto ieri il Centro Studi ImpresaLavoro, che ha rielaborato i dati Inps, giungendo alla conclusione che i circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici si ammalano in media quasi il doppio delle volte rispetto ai circa 14 milioni di dipendenti privati registrati presso l’Inps. La base di calcolo sono stati i 71,5 milioni di certificati che dal 2010 (anno della riforma che impone l’invio via web della malattia da parte dei medici di famiglia) sono arrivati all’Istituto di previdenza: 2,6 milioni nel 2010 (periodo in cui il sistema telematico non era ancora entrato a regime), 16,4 milioni nel 2011, 17,2 milioni nel 2012, 17,8 milioni nel 2013 e 17,5 milioni nel 2014. Ebbene dal 2011 al 2014 le giornate di malattia nel settore privato sono state circa 312 milioni 134 mila, mantenendosi stabili ogni anno dopo aver registrato un calo iniziale di 2,4 milioni dal 2011 al 2012 (79,8 milioni nel 2011, 77,4 milioni nel 2012, 77,6 nel 2013 e 77,1 milioni nel 2014). Nello stesso periodo di tempo sono invece costantemente aumentate le giornate di malattia nel settore pubblico, per un totale di oltre 116 milioni 770 mila (25,8 milioni nel 2011, 28,5 milioni nel 2012, 30,7 milioni nel 2013 e 31,5 milioni nel 2014).

L’Inps osserva pure che i lavoratori con almeno un episodio di malattia sono per la maggior parte maschi (56,l%) nel privato e femmine (69%) nella Pubblica amministrazione. E per quanto riguarda poi il numero di assenze per malattia, nel pubblico risultano esser doppie rispetto al privato: i 3 milioni di lavoratori della Pubblica amministrazione, infatti, hanno fatto in media 10,5 giorni di malattia mentre i 13,6 milioni di dipendenti del settore privato sono stati malati in media per 5,67 giorni.

Immigrati, le risorse da Bruxelles sono inadeguate

Immigrati, le risorse da Bruxelles sono inadeguate

Massimo Blasoni – Metro

Quanto spendiamo ogni anno per salvare e accogliere profughi e clandestini? Sembra incredibile ma non esiste ancora una contabilità ufficiale. Eppure il fenomeno riguarda ormai 300mila persone sbarcate in due anni e quasi 100mila migranti ospitati nei nostri centri di accoglienza. Uno studio di ImpresaLavoro, pubblicato integralmente sul nostro sito, ha provato a colmare questo deficit di trasparenza.

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Enti Pubblici e produttività privata

Enti Pubblici e produttività privata

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Nel nostro Paese gli enti pubblici proliferano e non di rado prendono le sembianze di una gramigna che soffoca il bilancio dello Stato. Per intenderci, tra questi si annovera ancora (vai a capire perché) anche l’Unione Italiana Tirassegno… Una qualche riflessione meritano però anche altre istituzioni, le cui funzioni appaiono spesso ridondanti e costose. È il caso dell’Automobile Club Italiano, che dal 2012 riveste una duplice veste: da un lato è un ente pubblico non economico senza scopo di lucro a base federativa (in relazione alla gestione del pubblico registro automobilistico e all’acquisizione dei relativi contributi); dall’altro è una federazione sportiva automobilistica privata riconosciuta a livello internazionale. L’Aci ha 106 sedi provinciali, 13 direzioni regionali e 3.500 dipendenti a libro paga – in esubero in molte sedi provinciali – che costano oltre 158 milioni di euro l’anno. Per tenere aggiornato il Pubblico Registro Automobilistico (PRA), che contiene le informazioni relative alle proprietà dei veicoli in circolazione, riceve ogni anno dagli automobilisti italiani compensi per 190 milioni di euro. Peccato che, attraverso la Motorizzazione Civile, il Ministero dei Trasporti gestisca in contemporanea l’Archivio Nazionale dei Veicoli (ANV), che registra i dati dell’omologazione fino alla cessazione della circolazione.

A noi pare una ragione più che sufficiente perché il Governo si decida finalmente a predisporre un’unica Banca dati nazionale per la circolazione e la proprietà dei mezzi automobilistici, come peraltro correttamente dispone la legge di riforma della Pubblica Amministrazione. Non si vede però cosa sostanzialmente potrebbe cambiare se tutti i dipendenti Aci dovessero essere travasati in una nuova agenzia del Ministero. I veri e sostanziali incrementi di produttività e diminuzione dei costi si potrebbero realizzare soltanto con l’applicazione di un classico principio liberale: mantenere pubblica una funzione (in questo caso la tenuta di un registro dei veicoli) ma affidarne la gestione operativa a operatori privati. Gli automobilisti italiani beneficerebbero così di significativi risparmi per la tenuta del PRA e la riscossione dei tributi grazie a società in concorrenza tra loro, che impiegano razionalmente il proprio personale e si sfidano sul terreno dell’innovazione tecnologica degli strumenti informatici.

Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Un recente rapporto del Labor Department degli Stati Uniti ha spiegato che studiare potrebbe non essere più sufficiente per garantirsi un posto di lavoro adeguato. Il 65% dei ragazzi che oggi siede su un banco di scuola si troverà a fare un lavoro che ancora non esiste. La tecnologia sta provocando un mutamento storico del mercato del lavoro: è già successo in passato (si pensi alla Rivoluzione industriale) ma mai con questa rapidità.

Il sistema scolastico appare oggi inadatto ad affrontare queste sfide. Diventa fondamentale modificare il modo in cui si affrontano e si risolvono i problemi, passando da un sistema di insegnamento fondato sul trasferimento di nozioni a uno capace di trasmettere metodo e di incentivare creatività e capacità di adattamento. Se stiamo parlando di qualcosa che ancora nemmeno esiste dobbiamo anche avere l’umiltà di ammettere che non serve immaginare percorsi di formazione specifici e basati su un mondo che non esiste. Dobbiamo invece abituare studenti e lavoratori all’idea che, fornite le basi tecniche e di conoscenza, l’apprendimento non è più una fase della vita circoscritta alla giovinezza ma deve diventare un aspetto con cui convivere sempre.

Chi oggi frequenta un qualsiasi corso di informatica sa già che sta incamerando informazioni che probabilmente saranno ormai superate quando avrà finito il suo percorso scolastico: vale per chi siede su un banco del primo anno del liceo scientifico così come per chi sta sostenendo il primo esame universitario di ingegneria informatica. I neolaureati o neodiplomati in materie informatiche o statistiche hanno iniziato la loro formazione quando su LinkedIn, il popolare social network dedicato ai professionisti, erano iscritti 89 sviluppatori di applicazione per iPhone, 53 sviluppatori di applicazioni per Android, 25 esperti in gestione di social network, nessun analista di Big Data e 195 specialisti in servizi cloud. In meno di un lustro questi posti di lavoro si sono moltiplicati: gli sviluppatori di app per iPhone sono 142 volte quelli del 2009, quelli che si occupano di sviluppare applicativi per Android 199 mentre gli esperti di Big Data sono oggi 3.340 volte quelli di allora. Nessuno dei loro professori gli aveva mai spiegato che con un telefono si sarebbe potuto operare sui conti correnti bancari, ascoltare musica o che l’analisi dei dati avrebbe aiutato i Governi di tutto il mondo a migliorare le proprie scelte di politica pubblica.

Per i servizi di collocamento si spende poco e male

Per i servizi di collocamento si spende poco e male

Massimo Blasoni – Il Tempo

In Italia si spende poco per il collocamento, ma soprattutto si spende male. Le risorse destinate ai centri per l’impiego sono infatti lo 0,03% del nostro Pil. Numeri che ci fanno impallidire davanti a una media Ue dieci volte superiore (0,3%) e che rendono ancor meglio l’idea se tradotti in valori assoluti. L’investimento italiano in collocamento è infatti di circa 500 milioni di euro mentre quello spagnolo è di circa un miliardo, quello francese di 5.047 milioni, quello tedesco addirittura di 8.872 milioni. Con un impegno così modesto, i risultati ottenuti non possono che essere sconfortanti: solo il 3% della nostra forza lavoro occupata è intermediata dai centri per l’impiego, contro il 9,4% della media Ue, il 10,5% della Germania e il 13,2% della Svezia.

Quanto ai servizi privati di collocamento che affiancano la rete pubblica, riescono a impiegare solo lo 0,6% della forza lavoro nel Paese. La somma di due debolezze non può fare una forza e infatti, scorrendo l’ultimo rapporto Isfol sul tema, si scopre che l’80% dei disoccupati mostra più fiducia nelle cosiddette “reti informali” (raccomandazioni o segnalazioni di parenti e amici) e che il 70% preferisce di gran lunga rivolgersi direttamente alle imprese.

Non è solo una questione di “tracciabilità dei percorsi” (in un sistema formale posso monitorarti e meglio adattare le politiche pubbliche) ma di efficienza: gli uffici del personale delle nostre aziende sono sommersi da curricula che molto spesso non vengono letti e, per converso, hanno una notevole difficoltà a soddisfare le proprie specifiche richieste di personale. Risultato? Il difficile matching tra domanda e offerta fa sì che soggetti capaci finiscano occupati in ruoli in cui non possono esprimere al meglio le proprie potenzialità e le aziende si accontentano di profili inferiori per qualità a quelli di cui avrebbero bisogno per crescere.

Accade così che il nostro mercato del lavoro – la cui efficienza per la Banca mondiale è ultima in Europa e al 126esimo posto (su 140) a livello internazionale – finisca stritolato tra opposte contraddizioni: eccessivamente burocratico dal punto di vista normativo, troppo costoso dal lato economico, completamente disorganizzato e spontaneistico dal punto di vista del collocamento. L’esatto contrario di quel che servirebbe.

10.20 Il Tempo

Camere di Commercio da riformare

Camere di Commercio da riformare

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Quando si comincia a dare un’occhiata al totale generale dei costi delle 105 Camere di Commercio italiane sorge qualche dubbio sulla razionalità della spesa per il loro funzionamento. Nel 2014 questi enti pubblici autonomi hanno speso 1 miliardo e 851 milioni di euro (dati SIOPE): 367 milioni per i propri dipendenti e il resto in contributi, acquisto di beni e servizi, investimenti e operazioni finanziarie che hanno generato una miriade di società partecipate.
Come si sa, le Camere svolgono diverse attività utili come la tenuta del registro delle imprese, il rilascio di firme digitali, la gestione degli sportelli unici per le attività produttive in alcuni Comuni, lo studio e la promozione delle imprese. Molte loro prestazioni sono però rese in regime di monopolio e non certo di concorrenza. Ad esempio pressoché solo la Camera di Commercio o professionisti convenzionati possono rilasciare visure, bilanci e notizie sui protesti. E a stabilire il costo di queste prestazioni non è il mercato ma chi le eroga, impiegando ben 7.500 dipendenti. Un po’ troppi, nell’era dell’informatizzazione.
È ad esempio difficile pensare che una gestione più razionale ed efficiente avrebbe portato la Camera di Commercio di Roma ad avere quasi 500 dipendenti, peraltro tutti quanti beneficiati nel 2013 da compensi extra stipendiali (dai 6 mila euro per gli impiegati agli oltre 30 mila euro per i dirigenti). E non si obietti che queste strutture sono finanziate dalle imprese e non dalla fiscalità. Le loro entrate sono infatti derivanti in parte da contributi pubblici, in parte dal pagamento annuale obbligatorio dei diritti camerali al quale sono tenute obbligatoriamente tutte le imprese in ragione del loro fatturato. Un’ennesima tassa, insomma.
Ecco perché una robusta cura dimagrante delle Camere di Commercio risponderebbe a una logica di buona amministrazione. Buona parte della loro attività potrebbe essere facilmente garantita da altri enti: dall’Università (per le attività di studio) alle Regioni (per la promozione delle aziende). Abolire le loro sedi così come le segreterie e gli eccessi di rappresentanza, ridurre il personale addetto e superare in tal modo le duplicazioni consentirebbe di dimezzare gli attuali costi a carico di imprese e cittadini.

10.7 Il Tempo (2)