pensioni

Non è un tabù passare al privato, basta farlo un gradino alla volta

Non è un tabù passare al privato, basta farlo un gradino alla volta

di Massimo Blasoni

Non solo la spesa pensionistica tricolore è tra le più alte d’Europa, ma il sistema pubblico è pure inefficiente Il sistema a capitalizzazione andrebbe integrato rispetto allo schema attuale per lasciare più libertà a tutti • Il sistema pensionistico italiano non soltanto è molto costoso (la nostra spesa pensionistica su Pil è una delle più rilevanti d’Europa): è soprattutto poco efficiente. L’attuale sistema pubblico a ripartizione non garantisce un apprezzamento dei contributi versati, diversamente dai sistemi a capitalizzazione individuale. Oggi versiamo, sostanzialmente senza alcun rendimento, contributi all’Inps che servono a pagare gli assegni di chi è in quiescenza oltre alle prestazioni assistenziali: cassa integrazione, indennità di malattia 0 invalidità. Se la porzione di versamenti che serve a pagare le pensioni fosse investita in un sistema a capitalizzazione le cose sarebbero ben diverse.

Ipotizziamo il caso di un lavoratore che versi 10.000 euro annui per trent’anni investendoli in un fondo pensione con un rendimento di circa il 2,5%. Accumulerebbe un montante di circa 410.000 euro, cioè il 30% in più di quello che oggi obbligatoriamente accantona con l’Inps. In altre parole, sarebbe possibile andare in pensione con le attuali soglie d’età ma con un assegno più ricco del 30%, ovvero anticipare di molto la pensione con un assegno almeno pari a quello che avremmo comunque ottenuto.

È evidente che il passaggio dal sistema a ripartizione pubblico a quello a capitalizzazione privato è estremamente complesso e non potrebbe essere repentino. Tuttavia mutare modello non sarebbe impossibile, soprattutto se si procedesse per gradi con un mix iniziale tra l’attuale previdenza obbligatoria e quella integrativa. Il tema va affrontato anche perché la spesa pensionistica italiana continua a salire. Secondo l’Istat a metà anni Settanta era inferiore al 9% del Pil e i pensionati erano 22 ogni 100 abitanti. Oggi supera il 16% del Pil ed è quasi raddoppiato il rapporto: ogni 100 abitanti ci sono 38 pensionati.

Nel 1994 la Banca Mondiale fissava nel 2030 l’anno in cui i Paesi avanzati avrebbero raggiunto l’apice della spesa previdenziale, stimando che il 16% del Pil sarebbe stato il limite oltre il quale non si sarebbe mai andati. L’Italia ha raggiunto e superato quel traguardo con ben 20 anni di anticipo e il trend è tutt’altro che in discesa, tanto che a oggi nessun Paese Ocse spende quanto noi: il 31,9% della spesa pubblica italiana è assorbito dalla previdenza, contro una media del 18,1%. Uno stacco notevole che è il sintomo di un sistema ormai insostenibile, se non a prezzo di elevatissime età di pensionamento, da innalzarsi al crescere dell’aspettativa di vita media.

Secondo il bilancio consuntivo dell’Inps, il comparto relativo ai lavoratori parasubordinati ha garantito nel 2017 un risultato economico positivo per circa 5,7 miliardi di euro. Questo tesoretto, determinato in larga parte dal fatto che esistono versamenti in entrata ma pochissimi flussi in uscita, viene però annullato da altri comparti con lavoratori subordinati (su tutti il pubblico che perde 9 miliardi all’anno, gli artigiani 5,5 e i coltivatori diretti 3), portando lo sbilancio delle gestioni previdenziali dell’Inps a 7 miliardi medi l’anno.

L’insostenibilità del nostro sistema risiede in questo gap oggi strutturale che ciclicamente tende ad azzerare il patrimonio dell’Inps, tanto che per pareggiare i suoi conti ogni anno occorre trovare risorse nella fiscalità generale : in altre parole utilizzando i nostri denari. Un prezzo che oggi devono pagare soprattutto i giovani chiamati a sostenere il sistema pensioni- stico pur avendo ben scarse probabilità di goderne appieno in futuro. Si aggiungano l’allungamento della vita media, il numero sempre più alto di beneficiari (21 milioni) e il numero sostanzialmente stabile di chi versa (21,8 milioni) . Ne sortisce un mix letale in grado di incrinare anche conti pubblici solidissimi, figuriamoci i nostri che solidi non lo sono mai stati.

Il nostro sistema pensionistico toglie ingiustamente agli individui la libertà di organizzare la propria vita. Perché deve essere l’Inps a gestire obbligatoriamente i miei versamenti contributivi? Perché non possiamo disporne almeno in parte scegliendo i migliori rendimenti tra più operatori in concorrenza? Il passaggio graduale dal sistema a ripartizione ad uno a capitalizzazione individuale, come detto, non è impossibile. Piuttosto viene talvolta contrastato ideologicamente. La realtà però purtroppo dimostra che il modello italiano rischia di crollare sotto il peso della sua insostenibilità.

Italia prima tra i Paesi OCSE per quota di spesa pubblica destinata alle pensioni. In percentuale al Pil spende più di noi solamente la Grecia.

Italia prima tra i Paesi OCSE per quota di spesa pubblica destinata alle pensioni. In percentuale al Pil spende più di noi solamente la Grecia.

L’Italia è prima tra i Paesi OCSE per quanto riguarda la quota di spesa pubblica destinata alle pensioni sul totale della spesa. Il nostro Paese, destinando ben il 31,9% della spesa pubblica totale alle pensioni, si colloca al primo posto di questa particolare classifica. Il dato è molto superiore e quasi doppio rispetto a quello della media OCSE (18,1%). Spendono più di un quarto del totale della spesa per questa voce anche la Grecia (31,5%), il Portogallo (27,9%), l’Austria (26,2%) e la Spagna (25,3%). A destinare invece meno del 14% della spesa alle pensioni sono il Regno Unito (13,8%), l’Irlanda (12,5%) e i Paesi Bassi (11,7%).
In prospettiva temporale le situazioni più preoccupanti sono quelle di Grecia e Portogallo che nell’anno 2000 spendevano quasi dieci punti percentuali in meno per pensioni rispetto al 2015 (o ultimo anno disponibile). In Italia, nello stesso periodo di tempo, la quota di spesa destinata alle pensioni è cresciuta di 2,3 punti percentuali.
Questi i principali risultati di una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata sugli ultimi dati OCSE disponibili.

La spesa pubblica per pensioni in percentuale al Pil è invece pari al 16,3%, un valore doppio rispetto alla media OCSE (8,2%) e inferiore solamente a quello della Grecia (17,4%). Anche Portogallo, Francia e Austria spendono per la previdenza una quota significativa del reddito nazionale, nello specifico tra il 14% e il 13,4%. I Paesi che destinano invece la minor quota di Pil alla spesa pensionistica sono l’Irlanda (4,9%), i Paesi Bassi (5,4%) e il Regno Unito (6,1%).
Per quanto riguarda l’andamento tra gli anni 2000 e 2015 (o ultimo dato disponibile), nei vari Paesi la spesa pensionistica su Pil è rimasta piuttosto stabile crescendo in media di 1,5 punti percentuali. Incrementi molto superiori alla media (tra i 7 e i 3 punti percentuali) si sono verificati in Grecia, Portogallo, Finlandia e Spagna. Al contrario, negli ultimi quindici anni presi in considerazione dall’Ocse, la spesa pensionistica in rapporto al Pil è calata in Lettonia (-1,2 punti percentuali), Germania (-0,7 punti percentuali) e Polonia (-0,2 punti percentuali).

Quali sono le previsioni future sull’andamento della spesa pensionistica in rapporto al Pil? Secondo uno studio pubblicato nel 2017 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario) nel lungo periodo la spesa pensionistica in rapporto al Pil dovrebbe tendere a un progressivo calo, grazie alle riforme implementate e grazie a un rapido miglioramento in termini di occupazione e produttività. Il rapporto del MEF prevede infatti che la spesa pensionistica su Pil decresca raggiungendo il 15,5% nel 2019, conseguentemente al graduale innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento e dell’applicazione, pro rata, del sistema contributivo. Il calo vero e proprio si verificherebbe però dopo l’anno 2050 e ciò avverrebbe grazie all’applicazione generalizzata del calcolo contributivo e a un’inversione di tendenza nel rapporto tra occupati e pensionati. La spesa pensionistica su Pil a quel punto, secondo queste previsioni, scenderebbe piuttosto rapidamente raggiungendo il 13,1% entro il 2070, con una decelerazione pressoché costante.

«Le assunzioni sulle quali si basano le previsioni del Ministero dell’Economia e delle Finanze sono ottimistiche e allo stesso tempo stringenti» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «I risparmi di spesa più consistenti, secondo questo modello, sarebbero infatti legati a un fortissimo incremento del tasso di occupazione (che dovrebbe aumentare di ben dieci punti percentuali entro il 2070) e a una sostanziale decrescita del tasso di disoccupazione (che dovrebbe dimezzarsi nello stesso periodo di tempo). Inoltre, produttività del lavoro e Pil pro capite reale dovrebbero crescere di 1,75 punti percentuali all’anno, aumenti ben lontani dai valori osservati in Italia negli ultimi decenni. Tutto ciò fa pensare quindi che la quota di spesa destinata alle pensioni in rapporto al Pil non si ridurrà facilmente nel tempo e che il progressivo invecchiamento della popolazione metterà sotto pressione i conti pubblici ancora per molti anni.»

Pensioni: in Italia età effettiva è 62,1 anni, tra le più basse in Europa

Pensioni: in Italia età effettiva è 62,1 anni, tra le più basse in Europa

In Italia l’età effettiva di pensionamento è di 62,1 anni, al momento tra le più basse in Europa: nel nostro Paese si va in pensione 7 anni prima che in Portogallo, 5 prima che in Irlanda e un anno prima rispetto alla media europea. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su dati OCSE (“Ageing and Employment Policies – Statistics on average effective age of retirement”).

Per età “effettiva” di pensionamento s’intende l’età effettiva media di uscita dal mercato del lavoro, beneficiando anche di eventuali anticipi pensionistici/eccezioni (l’OCSE ha considerato i dati tra il 2011 e il 2016). L’età “normale” di pensionamento è invece quella prevista dalla normativa vigente nei vari Paesi europei senza anticipi di alcun tipo, quindi l’età a cui un individuo può uscire dal mercato del lavoro senza subire una riduzione dell’assegno e dopo una carriera lavorativa senza interruzioni a partire dai vent’anni d’età (l’OCSE ha effettuato questa valutazione considerando l’anno 2014).

In Italia l’età effettiva di pensionamento – che come detto è di 62,1 anni – risulta inferiore di 4,5 anni rispetto a quella normale (66,6). Un trend simile si riscontra anche per quanto riguarda le lavoratrici, che vanno in pensione a un’età effettiva di 61,3 anni contro una normale di 65,6. Lo stesso vale per Paesi come la Slovacchia (60,8 effettiva e 66,2 normale), la Polonia (62,6 effettiva e 67 normale) e il Belgio (61,3 effettiva e 65 normale).

Ordinando la classifica per età “effettiva” di pensionamento l’Italia si colloca nella seconda metà della stessa, ossia al 15° posto sul totale di 22 Paesi europei considerati. Si scopre così che da noi si va in pensione molto prima che in Portogallo (69 anni), Irlanda (66,9 anni), Svezia (65,8 anni), Regno Unito (64,6 anni), Paesi Bassi (63,5 anni) e Germania (63,3 anni).

Il risultato si ribalta se invece si prende in considerazione l’età di pensionamento “normale”, ossia quella risultante dalla legislazione vigente senza considerare anticipi pensionistici. L’Italia sale al secondo posto con 66,6 anni, superata solamente dalla Polonia con 67 anni. L’ultimo posto se lo aggiudica invece la Spagna, dove il valore è pari solamente a 59,3.

«L’Italia non è quindi al momento uno dei Paesi in cui si va in pensione più tardi e questo avviene soprattutto perché la maggior parte dei lavoratori utilizza i requisiti stabiliti per la pensione anticipata» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «In futuro il discorso sarà completamente diverso. I giovani iniziano a lavorare più tardi e in maniera spesso discontinua, così accumulando “vuoti” contributivi. Non soltanto andranno in pensione a un’età più avanzata ma soprattutto godranno di assegni previdenziali più bassi. Secondo il report OCSE Pensions at a Glance 2017 un giovane che ha iniziato a lavorare nel 2016, quando aveva 20 anni, dovrà attendere i 71,2 anni per ottenere la pensione».

Pensionare la riforma Fornero?

Pensionare la riforma Fornero?

Il Centro studi Impresa Lavoro, dopo la pubblicazione di “E io pago” nel 2015, raggiunge nuovamente le edicole italiane con “Pensionare la riforma Fornero?”, in allegato a Il Giornale a partire dal 30 ottobre.

La riforma Fornero, che i partiti al governo hanno promesso di abolire, è davvero così iniqua e antipopolare oppure assicura stabilità al nostro sistema previdenziale? Perché dobbiamo essere obbligati a versare i contributi all’INPS e non possiamo invece scegliere liberamente tra fondi privati in concorrenza tra loro? E siamo davvero sicuri che saranno gli immigrati a garantire il pagamento delle pensioni delle prossime generazioni? Ma soprattutto, non corriamo il rischio di discutere e legiferare con lo sguardo rivolto a un mercato del lavoro che non esiste più? Superando luoghi comuni e offrendo dati scientifici a supporto dei loro ragionamenti, sette esperti della materia e un attore comico ma molto serio riflettono sui diversi (e spesso contraddittori) aspetti del sistema previdenziale italiano e sul suo concretissimo impatto nella vita di ciascuno di noi.

Hanno scritto: Luca Bizzarri, Massimo Blasoni, Alberto Brambilla, Giuliano Cazzola, Giorgio De Rita, Michela C. Pellicani, Giuseppe Pennisi e Salvatore Zecchini.

Per avere una pensione più alta basta uscire dalla gestione pubblica

Per avere una pensione più alta basta uscire dalla gestione pubblica

di Massimo Blasoni

Pensioni: converrebbe passare dall’attuale sistema a ripartizione a un modello a capitalizzazione individuale? Con l’attuale sistema versiamo, sostanzialmente senza alcun rendimento, contributi all’Inps che servono a pagare gli assegni di chi è in quiescenza oltre alle prestazioni assistenziali: Cassa Integrazione, indennità di malattia o invalidità.

Concentriamoci sulla quota di contributi che serve a pagare le nostre pensioni lasciando a parte la componente che serve a far fronte alle prestazioni assistenziali. Facciamo un esempio: ipotizziamo che questa parte sia pari a 10.000 euro annui versati per trentanni e con un rendimento del 3% superiore alle esigue rivalutazioni che oggi l’Inps ci riconosce. Accumuleremmo un montante di 490.000 euro, cioè il 40% in più di quello che oggi accantoniamo. Tradotto, sarebbe possibile andare in pensione con le attuali soglie ma con un assegno più ricco del 40%, ovvero anticipare di molto la pensione con un assegno almeno pari a quello che avremmo comunque ottenuto. Ovviamente il passaggio da un sistema all’altro sarebbe estremamente complesso ma non impossibile, soprattutto se avvenisse per gradi e con un mix iniziale tra l’attuale previdenza obbligatoria e la previdenza integrativa.

D’altro canto il tema va affrontato con coraggio. Secondo l’Istat, nel 1974 la spesa pensionistica italiana era pari aff’8,15% del Pil e nel nostro Paese si erogavano 21,59 pensioni ogni 100 abitanti. Oggi spendiamo invece in assegni pensionistici il 16,3% del Pil e il numero di pensioni in rapporto ai cittadini è quasi raddoppiato, circa 38 ogni 100 abitanti.

Attualmente nessun altro Paese Ocse spende quanto noi: il 31,9% della spesa pubblica italiana è assorbito dalla previdenza contro una media del 18,1%. Lo sbilancio annuale dell’Inps inoltre è diventato un’abitudine, così come il ciclico azzeramento del suo patrimonio e la conseguente ricapitalizzazione con i nostri denari. Il nostro sistema pensionistico è sostanzialmente collettivistico, così togliendo ingiustamente agli individui la libertà di organizzare la propria vita. Un argomento che potrebbe essere confutato sul piano ideologico, se non fosse per un piccolo particolare: la realtà è lì a dimostrare che il modello italiano sta crollando sotto il peso della sua insostenibilità.

Gli immigrati pesano sui costi, non aiutano

Gli immigrati pesano sui costi, non aiutano

di Massimo Blasoni

L’apporto dei lavoratori immigrati regolari al bilancio dell’Inps è incontestabile. Così non è invece per le tesi del Presidente Boeri, che auspica la loro crescita per far fronte allo sbilancio previdenziale (come noto, ogni anno occorre attingere alla fiscalità generale per ripianare le perdite). Sono tre gli elementi che a mio avviso rischiano di essere sottovalutati. Primo: il lavoro degli immigrai è utile ma deve concorrere a un aumento degli occupati e non sottrarre posti agli italiani. Questo fenomeno purtroppo esiste, nell’ultimo decennio si è registrata una crescita degli occupati stranieri che ha sfiorato il milione e una contemporanea diminuzione di 846mila lavoratori italiani. Secondo: quando si fanno i calcoli sull’importante apporto dei contributi previdenziali versati dagli immigrati non si può non considerare anche il debito implicito che si va formando. Si tratta di lavoratori a cui le pensioni dovranno essere in futuro pagate. Un’obbligazione che lo Statosi assume sia per le pensioni da lavoro sia per quelle assistenziali, che non sono correlate ai contributi corrisposti. A oggi sono finora 49.852 gli stranieri titolari di pensioni sociali che non hanno effettuato alcun versamento. Un numero destinato ad aumentare sulla base dei meccanismi di ricongiungimento familiare. Terzo: appare inoltre rilevante il numero di stranieri che svolgono professioni certo utili come colf e badanti, ma che prevedono bassi versamenti contributivi. Esiste così il rischio che un domani l’ammontare di queste pensioni risulterà superiore ai versamenti effettuati. Si tratta di temi che toccano tutti i lavoratori, connazionali e non,ma che obiettivamente ridimensionano il ruolo salvifico dell’immigrazione. Aggiungo che se i lavoratori stranieri in parte sostituiscono quelli italiani, questi non lavorando avranno bisogno di sostegno pubblico: un’indiretta promozione del reddito di cittadinanza. Il rischio insomma è un cortocircuito assai poco virtuoso.

Il futuro nero delle pensioni

Il futuro nero delle pensioni

di Massimo Blasoni – Metro

Mentre il governo si appresta a varare un provvedimento che permette ad alcuni lavoratori di andare in pensione con tre anni di anticipo, permangono forti dubbi sulla sostenibilità nel lungo periodo del nostro sistema pensionistico. Da molti anni la spesa per la previdenza rappresenta la voce più importante dell’intera spesa pubblica: nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi, pari al 31,5% dei complessivi 826 miliardi di euro. Il dato è certamente influenzato dall’elevata quota di anziani nella popolazione italiana ma non spiega perché altri Paesi con identici problemi demografici (ad esempio Germania e Giappone) registrino percentuali decisamente più contenute. Sta di fatto che le diverse riforme italiane del sistema previdenziale hanno via via ridotto il tasso di copertura, attraverso il rapido innalzamento dell’età di accesso alla pensione. Poco o nulla è stato invece fatto invece per contenere – o addirittura ridurre – il livello degli assegni pensionistici.

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Scomposizione e sostenibilità della spesa pensionistica italiana

Scomposizione e sostenibilità della spesa pensionistica italiana

di Michele Liati

La spesa per pensioni rappresenta, da molti anni, la voce più importante dell’intera spesa pubblica italiana (non solo di quella sociale). Secondo gli ultimi dati Istat sul conto economico (consolidato) dalla Pubblica Amministrazione, la spesa per prestazioni pensionistiche nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi a fronte di una Spesa Pubblica totale di 826 miliardi; le pensioni rappresentano quindi il 31,5 % dell’intera spesa.
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Secondo i dati Ocse per il 2011 (ultimo anno che permette confronti internazionali su questi aggregati) la spesa pubblica italiana per pensioni (vecchiaia, reversibilità e invalidità) ha raggiunto il 17,8% del Pil. La quota più alta tra i paesi Ocse e 7,2 punti percentuali al di sopra della media.

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A cosa si deve questo primato? Sicuramente all’elevata quota di anziani all’interno della popolazione italiana; ma l’invecchiamento della popolazione da solo non basta, e non spiega infatti in che modo altri paesi con identici problemi demografici, come Germania o Giappone, possiedono percentuali molto più contenute. Se l’aumento della spesa è dovuto all’invecchiamento della popolazione, inoltre, è lecito chiedersi quanto possa essere sostenibile la spesa pensionistica in futuro, considerando che la quota di ‘anziani’ in Italia continuerà a crescere ancora per diversi decenni.

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Per comprendere l’origine dell’elevata spesa pensionistica italiana su Pil e la sua sostenibilità futura (e quindi anche per capire cosa si è fatto e cosa si prevede di fare per contenerla), può essere utile scomporre tale rapporto secondo diversi fattori, così come svolto, per esempio, da Epc-Wga (EPC’s Working Group on Ageing Populations and Sustainability, un gruppo di lavoro costituito, sin dal 2001, dal Comitato di Politica Economica dell’Unione Europea per studiare proprio le conseguenze economiche e di bilancio dell’invecchiamento della popolazione) o dal Ministero dell’economia e delle finanze italiano (Mef – che elabora le previsioni della spesa italiana per Epc-Wga); ad esempio:

La spesa pensionistica su Pil potrebbe essere così scomposta:

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Analizziamo i diversi fattori dell’ultima espressione.
Il primo fattore è l’indice di dipendenza (dependency ratio): rappresenta la quota di anziani (65 anni e più) sulla popolazione totale. Indica quindi il livello di ‘invecchiamento’ di una certa popolazione.
Il secondo fattore è il tasso di copertura (coverage ratio): rappresenta il numero di pensionati (o il numero di pensioni) rispetto al numero di ‘anziani’ (over 65); questo fattore è legato ai requisiti per l’accesso alla pensione, tra cui l’età di pensionamento.
Il terzo fattore rappresenta il rapporto tra il reddito pensionistico medio e la produttività media, detto rapporto di beneficio (benefit ratio); fornisce quindi una misura della ‘generosità’ degli assegni pensionistici in confronto all’andamento economico del paese (produttività), quindi alla capacità stessa di finanziare le pensioni. Notiamo che questo fattore non va confuso con il tasso di sostituzione (rapporto tra reddito pensionistico medio e ultima retribuzione percepita).
L’ultimo fattore, inverso del tasso di occupazione, rappresenta l’effetto dovuto al mercato del lavoro (labour market ratio).
Questa scomposizione, molto semplice, utilizza tuttavia dei fattori per certi aspetti poco significativi; qui utilizzeremo quindi quelli presenti nell’ultimo rapporto EPC-AWG (The 2015 Ageing Report), riferiti alle pensioni dei paesi europei (a partire dal 2013, con previsioni fino al 2060 a intervalli di cinque anni):
L’indice di dipendenza visto prima è sostituito con il rapporto tra gli over 65 e la popolazione con età compresa tra i 20 e i 64 anni. In questo modo si ha un confronto più efficace tra la popolazione anziana e la popolazione in età da lavoro.
Il rapporto di beneficio è calcolato sulla retribuzione media invece che sul pil/occupato.
Da ultimo, il labour market ratio include il tasso di occupazione calcolato sulla popolazione 20-64.

La situazione attuale

Vediamo innanzitutto la spesa pensionistica su Pil per i vari paesi europei per l’anno 2013 (in tutti i grafici verranno evidenziati i valori riferiti a Italia, Germania, Spagna, Francia, Grecia e i valori medi EU28). In questo caso, il livello per l’Italia è inferiore soltanto a quello della Grecia.

6L’Italia ha l’indice di dipendenza più alto, ma si noti anche – come già evidenziato – il valore tedesco, prossimo a quello italiano.

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Riguardo al tasso di occupazione, quello italiano è uno dei più bassi, e meno occupati significa ovviamente meno redditi e quindi meno contributi (e tasse); ovvero una minore capacità di finanziare la spesa pensionistica. Su questo fattore si concentra anche gran parte della differenza rispetto alla Germania.

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Il tasso di copertura italiano risulta più basso rispetto alla media europea (e molto più basso di quello francese), ma più alto di quello tedesco, spagnolo e greco.

9Infine, per il rapporto di beneficio, ovvero riguardo alla generosità dei trasferimenti pensionistici rispetto alle retribuzioni medie, l’Italia, insieme alla Grecia e alla Spagna, presenta indici più elevati della media, della Francia, ma soprattutto della Germania.

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L’analisi di questi fattori, per il 2013, ci conferma quindi in che modo le varie riforme italiane, degli anni ’90 e 2000, hanno operato per cercare di contenere la spesa pensionistica: per compensare l’invecchiamento della popolazione (indice di dipendenza) e il basso tasso di occupazione, si è ridotto il tasso di copertura, attraverso il rapido innalzamento dell’età di accesso alla pensione. Si è fatto invece poco o nulla per contenere, o addirittura ridurre, come avvenuto in Germania, il livello degli assegni pensionistici.

Le previsioni per il futuro

Ma come si potrà contenere la spesa pensionistica per il futuro, considerando che l’invecchiamento della popolazione italiana peggiorerà ancora per molti anni, se fino ad ora si è ottenuto così poco? Le previsioni elaborate dal Mef sembrano molto ottimistiche, e stimano che la spesa pensionistica su Pil potrà rimanere all’incirca al livello attuale. Vediamo come.

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La spesa pensionistica su Pil diminuirà leggermente (-0,4 p.p.) fino al 2020, tornerà a crescere ma in maniera contenuta fino al 2040 (+0,1 p.p. rispetto al 2013), da quel momento inizierà a scendere.

L’indice di dipendenza continuerà a crescere (ma in maniera più contenuta, come vedremo a breve), trainando la crescita della spesa. Anche il rapporto di beneficio continuerà a crescere, nonostante tutto, fino al 2025, per tornare al livello attuale dopo il 2040 e fornendo poi un contributo negativo (facciamo notare che dal 2035-2040 circa, inizierà ad entrare nel sistema pensionistico italiano la generazione “contributiva”). Il contributo maggiore al contenimento della spesa verrà, come si vede, dall’ulteriore riduzione del tasso di copertura, attraverso il continuo innalzamento dell’età pensionabile. Un ulteriore aiuto verrà anche dell’effetto sul mercato del lavoro, ovvero principalmente dalla (prevista) crescita del tasso di occupazione.

Vediamo un confronto con gli altri paesi, considerando il contributo che ciascun fattore fornisce alla variazione globale del rapporto ‘spesa pensionistica/pil’ dal 2013 al 2060.

12Una osservazione riguardo all’andamento dell’indice di dipendenza: come visto, l’Italia ha oggi l’indice di dipendenza più elevato tra i paesi europei, ma nei prossimi anni la sua crescita sarà inferiore a quello di molti altri paesi (Germania, Grecia, Spagna, Portogallo, Polonia, etc.). Tale risultato, secondo le previsioni, sarà ottenuto soprattutto attraverso un maggior tasso di immigrazione netto.

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Tornando alle componenti:

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Per comprende meglio l’impiego dell’effetto di copertura per il contenimento della spesa, utilizziamo questo grafico, con l’età (media) di uscita dal mercato del lavoro per il 2013 e 2060. Come si può notare questo valore sarà nel 2060 tra i più alti (67,4 anni), e con una variazione rispetto all’età 2013 tra le più elevate (5,1 anni).

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I rischi per il futuro

Ognuna delle componenti finora analizzate è il risultato di diversi fattori, che contengono un certo grado di incertezza: il tasso di occupazione, l’indice di dipendenza (che, come visto, è legato al tasso netto di immigrazione), lo stesso benefit ratio (che dipende anche dall’andamento del Pil per occupato, o dalle retribuzioni medie) non sono direttamente controllabili dai governi, i quali possono solo sperare di riuscire a migliorare questi fattori “a suon di riforme”, dall’esito comunque sempre incerto. È fondamentale quindi comprendere in che modo il rapporto “spesa pensionistica/Pil” sia sensibile a questi fattori, e come potrebbe modificarsi se qualcuno di questi non dovesse rispettare le previsioni.
L’ultimo rapporto Epc-Wga stima queste variazione per ognuno dei seguenti fattori (negativi):
Una maggior crescita della speranza di vita alla nascita (al quale è legato l’indice di dipendenza) di due anni al 2060, comporterebbe una variazione di +0,4 p.p. .
Un tasso di immigrazione più basso del 20 % darebbe un +0,4 p.p.
Una crescita della produttività del lavoro più bassa di -0,25 p.p. darebbe un +0,5 p.p.
Una crescita della produttività totale dei fattori più bassa (0,8% invece che 1%) darebbe +0,7 p.p.
Una crescita dell’occupazione inferiore (2 p.p. rispetto alla previsione 2060) avrebbe invece un effetto limitato, inferiore a +0,1 p.p.
Il peggioramento di tutti questi fattori (secondo le variazioni stimate) potrebbe comportare quindi una variazione globale di 2,1 p.p nel rapporto “spesa pensionistica/pil” a fronte della variazione di -1,9 p.p totale prevista.
Ma quanto sono realistiche o ottimistiche le previsioni su queste componenti? Vediamolo, in particolare per produttività e tasso di occupazione, confrontando i valori previsti con quelli del passato (utilizzando i dati dell’ultimo rapporto RGS).

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Come si vede, le previsioni sembrano abbastanza ottimistiche: la produttività dovrebbe tornare a crescere ai tassi degli anni ’70 e ’80 (dopo che è rimasta quasi ferma per gli ultimi 20 anni); il tasso di occupazione, da sempre a livelli molto bassi in Italia, dovrebbe arrivare livelli più “normali” (per gli standard degli altri paesi).

E se queste previsioni dovessero, nella realtà, risultare scorrette? È ovvio che in questo caso, per controbilanciare questi effetti, la politica dovrebbe intervenire nuovamente sugli unici fattori direttamente controllabili, l’età di accesso alla pensione (già di molto alzata) e l’entità degli assegni pensionistici (già ridotti), rendendo sempre più povere le future pensioni.

L’età della pensione: riflessioni internazionali

L’età della pensione: riflessioni internazionali

di Giuseppe Pennisi*

L’età “ottimale” della pensione è tema già affrontato in questa rubrica. In un’ottica libera e con un sistema previdenziale essenzialmente pubblico a ripartizione ma in cui le spettanze sono calcolate secondo un metodo contributivo figurativo (come quello italiano), la decisione di lasciare il lavoro e di percepire la pensione, dovrebbe essere lasciata all’individuo. Naturalmente, di solito, quanto prima si “va in pensione”, tanto più basso è il “montante” accumulato e tanto minori sono le spettanze annuali o mensili per una data aspettative di vita. Tuttavia, il mondo non è così semplice. Dove esiste una previdenza pubblica, occorre porre dei “paletti” in termini di età in cui cominciare e percepire le spettanze al fine di evitare che il sistema venga messo a repentaglio da “bracconieri” che andando in pensione troppo presto (nella speranza che anche ove si esaurisse la pensione basata sul montante ci sarebbe comunque un sostegno sociale).

La Yale Law School ha in corso di pubblicazione un volume che tratta i problemi della terza età , dal titolo “New Deal for Old Age”. I singoli capitoli vengono pubblicati in via telematica, prima di essere finalizzati, come “Yale Law School Public Law Reserch Paper”. Il numero 566 di questi Paper è un saggio di Anne Alstott (luminare di diritto pubblico di Yale) proprio su questo tema.  

Anne Alstott parte dalla premessa che un coro di economisti e giuristi americani chiede una revisione al rialzo dell’età per poter percepite la Social Security, pilastro di base del sistema previdenziale federale americano (spesso i pensioni americani contano su tre pilastri: una pensione “professionale” derivante dalla contrazione ed una frutto di fondi pensioni privati). Attualmente l’età per accedere alla Social Security è 66 anni. Tuttavia, a questo coro si contrappongono, a mò di contrappunto, voci  secondo le quali, alzare i requisiti di accesso, pur avvantaggiando i giovani, penalizza i poveri e coloro che vengono espulsi dal mercato del lavoro prima di raggiungere la vecchiaia. Tra l’altro, i poveri, coloro che guadagnano poco e gli espulsi hanno statisticamente un’aspettativa di inferiore a quella di coloro che hanno redditi medio-alti. Quindi si pone un problema di fondo di politica previdenziale: come giungere ad un equilibrio tra equità intergenerazionale ed equità infragenerazionale.

Anne Alsott sottolinea che l’età è una “categoria contingente” il cui significato fisico e sociale varia. Invece di “partire dall’età” occorre esaminare in profondità gli obiettivi della politica previdenziale. Il saggio mostra come sia, tecnicamente e politicamente, possibile mantenere la possibilità di andare in pensione relativamente presto per i lavoratori che ne hanno effettiva esigenza e, al tempo stesso, mettere in atto un sistema di incentivi per i lavoratori che vogliono e possono lavorare di ritardare l’età in cui cominciare a percepire la Social Security.

È una lettura da cui si traggono lezioni anche per temi su cui sta tribolando l’Italia.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

I vincoli del sistema pensionistico sull’economia italiana

I vincoli del sistema pensionistico sull’economia italiana

di Michele Liati*

Le indagini campionarie sui bilanci delle famiglie italiane (IBF), condotte dalla Banca d’Italia dagli anni ‘60, sono uno strumento molto utile per comprendere i “vincoli” che hanno operato sull’economia italiana negli ultimi decenni per l’azione statale. Nel grafico qui sotto sono mostrati i redditi medi per classi d’età, dal 1977 al 2014, (ottenuti dalle IBF) opportunamente rivalutati ai valori monetari 2014 (tramite indici Istat).

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Facciamo subito notare che i dati delle IBF sono molto preziosi perché, a differenza di altri sui redditi famigliari, sono calcolati al netto dei prelievi fiscali e contributivi, per cui possono evidenziare gli effetti delle ridistribuzioni statali.

Innanzitutto si può evidenziare che i redditi sopra i 64 anni di età sono cresciuti continuamente, così come i redditi tra i 55-64 anni fino al 2011; gli altri redditi hanno seguito le diverse fasi dell’economia. Si possono cogliere facilmente quattro fasi (evidenziate dai riquadri verdi e arancioni), e differenziare le “risposte” dei vari redditi alle diverse condizioni dell’economia: dal 1977 al 1989 vi è stata una fase di crescita generale dell’economia e dei redditi, dal 1989 al 1995 un periodo di crisi, dal 1995 al 2006 una generale ripresa, e infine la crisi attuale (si noti che i redditi sono iniziati a calare già dal 2006).

I redditi delle classi più anziane, determinate principalmente dai redditi pensionistici, hanno costituito, per le fasi di “recessione” un “vincolo” importante: quando l’economia rallentava, e quindi i redditi calavano, la riduzione era anche più marcata per mantenere identico il potere di acquisto dei redditi pensionistici. È in queste fasi che risultano ben evidenti gli effetti della “ridistribuzione” operati dal sistema pensionistico. Questo fatto può essere meglio evidenziato se analizziamo le differenze (assolute e percentuali) cumulate nei diversi periodi indicati.

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Nella prima fase i redditi crescono per tutte le classi, ma, in percentuale, in maniera già più marcata per gli anziani.

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05Nella fase di crisi tra il 1989 e il 1995, ecco operare il “vincolo pensionistico”: tutti i redditi dei “giovani” si riducono sensibilmente, quelli dei più anziani crescono o restano uguali.

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07Nella terza fase di recupero dell’economia, tutti i redditi tornano a crescere, ma in maniera “progressiva” secondo la “anzianità”.

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09Nell’ultima fase, ecco di nuovo il vincolo: i redditi degli over 64 continuano a crescere, tutti gli altri si riducono di molto (si noti che in questo caso calano anche quelli della classe 55-64; non è difficile spiegare questo calo anche col progressivo innalzamento dell’età pensionabile, specialmente per la più recente riforma Fornero). Tali confronti possono risultare anche più chiari cercando di “stimare” (utilizzando questi dati per classi) delle curve continue che riportino i redditi per tutte le età.

Crescita per tutte le classi nella prima fase di crescita.

10Riduzione con “vincolo” nella seconda fase.

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Crescita nella terza fase.

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Di nuovo decrescita “vincolata” (per niente “felice”).

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Conclusioni

Qualcuno potrebbe dire che la cosa è del tutto ovvia e naturale: “i redditi pensionistici sono solo redditi differiti, perciò dipendono dalle condizioni passate dell’economia, non da quelle presenti”, ma ciò non è corretto, specie per un sistema pensionistico pubblico, e in particolare a ripartizione; in questo le pensioni in essere sono pagate dai contributi dei lavoratori, è ovvio quindi che in ogni momento deve sussistere un certo equilibrio tra pensioni e contributi, e quindi tra pensioni e andamento dell’economia.

Questo è il principio che è sempre mancato al sistema pensionistico italiano; a differenza di altri sistemi, che hanno ugualmente utilizzato sistemi retributivi e a ripartizione senza gli stessi pesanti effetti (si pensi alla Germania dove la crescita delle pensioni è sempre stata legata alla crescita delle retribuzioni, e da oltre un decennio, direttamente a quello della massa contributiva).

Gli effetti sono quelli che sono stati evidenziati: i momenti di crisi, pur “naturali” in qualsiasi economia, sono stati “amplificati” per alcune classi, per via del “vincolo pensionistico”. Questi gli effetti ad oggi, ma questa ridistribuzione di risorse avrà effetti ancor più pesanti in futuro – come alcuni “allarmi” già stanno anticipando – soprattutto se non si riuscirà a liberare l’economia italiana da questo vincolo.

*Tutti i grafici sono elaborazioni di Michele Liati su dati Banca d’Italia e Istat