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Consigli e dati per affrontare la rivoluzione del lavoro fuori dai vecchi schemi

Consigli e dati per affrontare la rivoluzione del lavoro fuori dai vecchi schemi

Il Foglio – di Massimo Blasoni

I risultati ottenuti nell’ultimo biennio in tema lavoro nel nostro Paese sono positivi? Non è semplice rispondere atteso il balletto mensile di cifre che ci viene proposto e che si presta a diverse e talvolta capziose letture. Oggettivamente il numero degli occupati è salito anche se bisogna dire che restiamo al di sotto del 2007, ultimo anno pre crisi. Va riconosciuto tuttavia che al di là del dato strettamente congiunturale alcune previsioni del Jobs Act, quali il superamento dell’articolo 18, sono significative e cambiano in parte il nostro modo di concepire il lavoro. Superare l’idea di job property è fondamentale per un Paese dove risulta ancora difficile premiare il merito, assumere e licenziare e le relazioni sindacali sono troppo rigide e complesse. Il World Economic Forum ci classifica 126esimi su 144 Paesi per efficienza del mercato del lavoro. Dunque che fare? Occorre innanzitutto comprendere le profonde evoluzioni che si profilano.

Punto numero uno: una volta i tempi del lavoro li dava sostanzialmente la catena di montaggio: la prestazione dei singoli operai era tutto sommato resa omogenea. Oggi non è così. In una società, improntata ai servizi più che alla manifattura, il fatto che l’operatore del call center ovvero l’assicuratore ci dedichino maggiore o minore attenzione e siano più o meno competenti sortisce effetti estremamente diversi. I nostri contratti di lavoro, troppo rigidi, considerano la quantità di tempo impiegata dal lavoratore e non il numero e l’efficienza delle prestazioni rese in quel medesimo tempo.

Secondo: per il nostro sindacato il tema delle garanzie resta prioritario, quasi totalizzante. Tuttavia per un enorme numero di disoccupati – soprattutto giovani – il dato dirimente è lavorare o non avere un lavoro. Questo non vuol dire che dobbiamo puntare a una flessibilità selvaggia ma serve a comprendere perché in tema di occupazione gli effetti della decontribuzione sulle nuove assunzioni non sono stati esaltanti. Insomma, l’impresa non assume (malgrado gli incentivi) se ritiene che i costi siano troppo alti e che gli impegni presi siano indeterminati nel tempo.

Terzo: secondo uno studio del Labour Department degli Stati Uniti il 65% dei bambini che oggi vanno alle elementari faranno in età adulta un lavoro che oggi nemmeno esiste. Aggiungiamo: il lavoro del futuro per molti non verrà svolto in ufficio, non solo perché esiste Skype, ma soprattutto perché la connettività superveloce garantisce una sorta di ubiquità. Le prestazioni diventano “on demand” ed è possibile lavorare da casa per committenti fisicamente lontani e senza il vincolo di un orario prefissato. Non solo: l’attuale rivoluzione tecnologica incrementa produzione e innovazione ma ha bisogno di meno posti di lavoro.

Uno studio del World Economic Forum sostiene che entro cinque anni cinque milioni di persone rischiano di essere sostituite da automazione e automi e per il centro studi di Ubs nei prossimi vent’anni la tecnologia soppianterà metà delle attuali professioni. Peraltro l’aver studiato non basterà. Questo perché chi frequenta oggi un qualsiasi corso di informatica sa da principio che sta incamerando informazioni che saranno già superate entro la fine del suo percorso di studi. Negli ultimi tre anni sono state introdotte decine di applicazioni per i nostri iPhone o tablet che certo gli studenti non hanno trovato sui libri di studio. Se si parla di qualcosa che nemmeno esiste si deve avere anche l’umiltà di ammettere che non basta una trasmissione di nozioni statica e in ogni caso incompleta. Occorre piuttosto formazione permanente e che l’apprendimento non sia più una fase circoscritta della vita. Infine siamo di nuovo a chiederci: siamo preparati a queste evoluzioni del mercato? Come detto, pare di no.

Il nostro Paese è agli ultimi posti per numero di laureati, ricerca e innovazione; la velocità media di un download in Italia è di 8 mega per secondo, contro i 29 del Regno Unito. Secondo l’indice Desi siamo 25esimi su 28 Paesi in Europa per capacità digitale. Uscire da questa situazione non è impossibile ma occorre promuovere ancor di più un cambio radicale nella mentalità di governo, impresa, e sindacato e potenti investimenti in conoscenza e innovazione. I giovani che se ne vanno all’estero nel 2005 erano 25mila, nel 2014 sfioravano i 52mila. Un’emorragia che non possiamo permetterci.

Blasoni: Rivoluzioniamo il lavoro

Blasoni: Rivoluzioniamo il lavoro

Massimo Blasoni – Panorama

Panorama_2016-04-28Debito, deficit, scarsa crescita: sono molti i problemi che attanagliano la nostra economia. Meno trattato è il tema della produttività. Eppure, uno dei primi indici di difficoltà del nostro Paese è la capacità di produrre con efficienza, che si va riducendo. I dati Eurostat sono eloquenti. Preso a riferimento il 2010 la produttività reale per lavoratore è scesa ad oggi in Italia di 2,5 punti. Nello stesso periodo è invece aumentata di 1,7 punti in Francia, di 2,8 in Germania e addirittura di 3,9 nel Regno Unito. Negli anni Settanta l’Italia era al primo posto per crescita della produttività nell’industria rispetto alle principali economie comunitarie. Il ritmo è rallentato nei due decenni successivi ma è dal Duemila che rapidamente siamo scivolati in fondo alla classifica.

La produttività, in buona sostanza, misura l’efficienza delle aziende: più lavoro e tempo sono necessari per raggiungere un determinato risultato peggiore è la prestazione. Da cosa dipende la nostra bassa performance? Non esiste una risposta univoca e sono molti i fattori che concorrono. Quanto è complesso e costoso dare vita a una nuova azienda in Italia? Quanto tempo, sottratto alla produzione, debbono utilizzare gli imprenditori per i mille adempimenti ad esempio richiesti dal fisco? Lo ha calcolato Doing Business, il rapporto annuale della Banca Mondiale, che ci dice che un medio imprenditore deve utilizzare 269 ore all’anno soltanto per pagare le tasse. Sulla bassa produttività incidono anche le mancate liberalizzazioni e le non adeguate infrastrutture materiali. Le reti portuali, autostradali e ferroviarie non paiono certo pari a quelle dei nostri concorrenti e quanto a infrastrutture informatiche siamo 25esimi secondo la Commissione Europea. Se all’incertezza e alla lentezza della nostra giustizia si aggiunge una burocrazia tortuosa e lenta purtroppo il gioco è fatto.

Concentriamoci infine sull’aspetto forse più rilevante: il lavoro. Il nostro tasso di occupazione è dieci punti sotto la media comunitaria. Malgrado il Jobs Act è difficile assumere, premiare il merito e restano estremamente complesse le relazioni sindacali. Secondo il rapporto annuale del World Economic Forum ci collochiamo al 126esimo posto per efficienza del mercato del lavoro, dopo Paesi come la Grecia e il Marocco. Ci penalizzano la scarsa flessibilità nella determinazione dei salari, il loro scarso legame con la produttività e l’enorme tassazione. Inoltre si fa pochissima formazione e il numero di laureati è il più basso d’Europa. Nel nostro Paese resta troppo forte l’idea della job property, cioè del posto fisso immutabile in un medesimo contesto e i contratti, troppo rigidi, disciplinano la quantità di tempo impiegata dal lavoratore e non il numero e l’efficienza delle prestazioni rese in quel medesimo tempo. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale. Solo se sapremo riconsiderare il nostro modo di lavorare e drasticamente innovare il sistema di regole e di reti che condizionano le nostre aziende avremo una possibilità. Il punto è ineludibile.

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Damiano (PD): “Diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente”

Damiano (PD): “Diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente”

Cesare Damiano*

“L’audizione, sul Def, alla commissione bilancio della Camera del vice direttore di Bankitalia Federico Signorini, offre spunti interessanti di riflessione sul Jobs Act. Il riconoscimento del fatto che i rapporti di lavoro stabili abbiano effetti benefici sull’accumulazione del capitale umano e sulla produttività dell’impresa, pone fine alla mistica della flessibilità/precarietà del rapporto di lavoro come elemento decisivo per il successo delle aziende. Piano piano si esce dalla logica tutta liberista della competitività basata esclusivamente sul costo della manodopera che ha creato gravi disastri sociali e occupazionali e contribuito alla distruzione di una parte del tessuto produttivo del nostro Paese”. Lo dichiara Cesare Damiano (Pd), presidente della commissione lavoro alla Camera.

“Scommettere sul contratto a tutele crescenti – spiega – che rappresenta il perno del Jobs Act, per le assunzioni aggiuntive e per le trasformazioni dei rapporti di lavoro flessibili in contratti a tempo indeterminato, significa consegnare ai lavoratori una dote sociale di enorme valore. Questa dote sociale fa la differenza e conferisce qualità al lavoro perché significa disporre di una rete di tutele sconosciuta al lavoro precario: tutele per malattia, maternità e infortunio; retribuzione, inquadramento professionale, percorsi di carriera, scatti di anzianità e ferie, disciplinati da un contratto nazionale di lavoro; tredicesima mensilità, trattamento di fine rapporto e, nel caso di imprese che abbiano un accordo sindacale aziendale, un premio di risultato”.

“Il secondo aspetto interessante evidenziato dal vicedirettore di Bankitakia, che condividiamo – conclude Damiano – è la necessità che la diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente. Questo requisito, accanto alla limitazione della super precarietà rappresentata dai voucher, diventa un elemento chiave per il successo del Jobs Act”.

* Presidente della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati

Dicembre 2015: aumentano gli occupati, ma a un ritmo più lento di quello del 2014

Dicembre 2015: aumentano gli occupati, ma a un ritmo più lento di quello del 2014

Numero degli occupati in aumento, ma a un ritmo meno sostenuto di quello di un anno fa. È questo il risultato più rilevante dell’analisi compiuta dal Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Istat, che ha preso in esame il numero degli occupati registrato dall’Istituto nazionale di statistica per il mese di dicembre dal 2006 al 2015, confrontato con lo stesso dato dell’anno precedente.

A dicembre 2015 è stata rilevata una variazione di +109mila occupati rispetto allo stesso periodo del 2014: un dato che non può non risentire del combinato disposto di Jobs Act e decontribuzione. Si tratta però di un aumento sensibilmente inferiore a quello che si registra confrontando il dato di dicembre 2014 con quello di dicembre 2013: l’anno scorso, infatti, anche in assenza delle costose misure sulla decontribuzione, gli occupati erano cresciuti di 168mila unità.

Si tratta, comunque, di variazioni positive meno marcate a quelle registrate negli anni pre-crisi. Nel 2006 e nel 2007, infatti, l’aumento degli occupati era stato rispettivamente di 249mila e 268mila unità. Poi, dopo l’andamento negativo dal 2008 al 2013 (con la sola, parziale, eccezione del 2010), l’occupazione è tornata a crescere nel 2014. Ma lo scorso anno, appunto, il ritmo di questa crescita è tornato a calare sensibilmente.

Siri: “La vera sfida resta la rivoluzione del sistema tributario”

Siri: “La vera sfida resta la rivoluzione del sistema tributario”

di Armando Siri*

I dati della crescita economica reale del nostro Paese negli ultimi anni sono a dir poco sconcertanti e come dimostrato dallo studio di ImpresaLavoro, salvo la parentesi dell’ultimo Governo Berlusconi, il trend del Pil italiano è sempre stato molto al di sotto di quello degli altri Paesi Ue. Prima i governi tecnici, oggi il governo non eletto di Matteo Renzi, non sono stati in grado di invertire la tendenza per inadeguatezza degli interventi e mancanza di visione. La vera sfida era e rimane quella fiscale. Solo una rivoluzione del sistema tributario con l’introduzione di un’unica aliquota fiscale può far decollare il Paese e consentirgli nel giro di un paio di anni di recuperare i quasi dieci punti di Pil perduti dal 2008 ad oggi e creare le premesse per un trend di crescita costante per il futuro.

Non possiamo accontentarci degli zerovirgola che Renzi spaccia per grandi risultati. Questo Governo non vuole capire che la nostra economia asfittica ha bisogno di nuova linfa e nuovo ossigeno che può arrivare solo se allenta il cappio con il quale drena verso lo Stato le risorse dell’economia reale sotto forma di imposte.

Non servono i piccoli interventi a breve scadenza come il Jobs Act e l’abolizione dell’Imu per far ripartire consumi e mercato del lavoro. Questi interventi producono gli stessi risultati che si possono ottenere somministrando l’aspirina ad un malato di polmonite. Qui servono interventi drastici a base di antibiotici e adrenalina, serve coraggio per realizzare la radicale riforma del sistema fiscale. Il resto degli interventi sono solo inutili e frustranti palliativi.

* consigliere economico di Matteo Salvini e responsabile economico della lista “Noi con Salvini”

Jobs Act, le virtù e i molti limiti

Jobs Act, le virtù e i molti limiti

di Massimo Blasoni – Metro

Anche grazie al Jobs Act, nell’ultimo anno l’efficienza nel nostro mercato del lavoro ha guadagnato 10 posizioni a livello internazionale. Attenti però a festeggiare. Nell’ultima classifica pubblicata dal World Economic Forum restiamo ancora una volta ultimi in Europa e ci collochiamo al 126esimo posto su 140 Stati censiti nel mondo: subito dopo il Marocco, El Salvador e l’Isola di Capo Verde e a un livello leggermente superiore a quelli di Turchia, Uruguay e Bolivia.

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Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Massimo Blasoni – Il Giornale

Se avendo figli, ora bambini, ci chiedessimo dove andranno in futuro a lavorare credo ben pochi di noi penserebbero alle pubbliche amministrazioni, i cui organici hanno piuttosto bisogno di dimagrire. Dovranno essere le imprese a creare occupazione: magari anche nuovi lavori. Si stima che metà dei bambini di oggi faranno in futuro un lavoro che ora nemmeno esiste. Dunque l’occupazione e la crescita del nostro Paese dipendono in parte rilevante dalla possibilità di sviluppare le imprese esistenti e di farne nascere di nuove. Non pare, però, che il governo Renzi stia concretamente lavorando con questo obiettivo.
Rispetto ai principali partner europei un imprenditore italiano sconta molti punti di svantaggio. Partiamo dall’accesso al credito, che rimane difficile. Gli ultimi dati di Bankitalia registrano ancora un calo di prestiti del 2,2% sugli ultimi 12 mesi, ma soprattutto le rilevazioni Bce di marzo quantificano nel 3,40% il tasso medio complessivo per le imprese italiane contro il 2,83% delle imprese tedesche o il 2,61% delle imprese francesi. Non è poco. L’energia pesa sulle nostre imprese: il Chilowattora costa a una pmi italiana 18 cents, il 50% in più che in Spagna e il 100% in più che in Francia e il costo del lavoro resta tra i più alti in Europa. Si tratta di dati statistici che diventano però molto concreti nell’esperienza ­ lo dico da imprenditore ­ di chi ogni giorno deve produrre beni o servizi, scontrandosi con i problemi che abbiamo enumerato e molti altri.
Fatevelo spiegare da un imprenditore friulano che ha alle porte l’Austria o la Slovenia con un’imposizione fiscale di 1/3 inferiore o, chessò, da un imprenditore manifatturiero pugliese del distretto calzaturiero che deve vendere all’estero prodotti in concorrenza con Paesi, pur dell’Area Euro, con un costo del lavoro che è meno della metà come il Portogallo. L’edilizia non fa eccezione: il rilascio di un permesso di costruire in Italia richiede 233 giorni, in Danimarca sono 64. In generale, lo abbiamo stimato con il Centro Studi ImpresaLavoro, l’indice di imprenditorialità cioè la facilità di fare impresa­ ci colloca dietro tutti i nostri partner europei: l’Italia è ultima, per imprese create e opportunità percepite dagli imprenditori.
Resta poi il tema delle tasse. Vanno pagate, ovviamente. Tuttavia c’è da chiedersi se questo livello di imposizione fiscale sia sostenibile e se il patto tra Stato e impresa e cittadini non sia sbilanciato. Se una famiglia o un’impresa non pagano per tempo scattano Equitalia e le ganasce fiscali. Sarà a lungo possibile sostenere una tassazione alle imprese che nell’insieme, compresi i contributi ai lavoratori, raggiunge quest’anno il 65,4%? A tanto ammonta la cosiddetta total tax rate italiana: un dato lontanissimo da quelli del Regno Unito 33,7% o tedesco 48,8 per cento. Eppure, malgrado tutto, ci sono imprenditori che si battono e imprese che crescono magari nascendo da zero: ne guido una con 1.500 dipendenti di cui 200 assunti nel 2014.
Nessuno ha la bacchetta magica tuttavia il governo Renzi, tranne gli annunci, ha fatto ben poco per sostenere il sistema delle imprese. Non si tratta certo di elargire contributi ma di garantire l’opportunità di competere: il solo Jobs Act non basta. Liberalizzare, sburocratizzare, privatizzare non possono rimanere punti di un ordine del giorno che non si realizza mai.
Lavoro, il Jobs Act non basta

Lavoro, il Jobs Act non basta

Massimo Blasoni – Metro

I dati incoraggianti sulle assunzioni e il saldo positivo tra queste e i licenziamenti nel primo trimestre dell’anno, resi noti dall’Inps, non significano purtroppo che il numero complessivo degli occupati stia crescendo. Questi ultimi infatti sono calati di 111.000 unità tra dicembre 2014 e marzo 2015, come impietosamente segnala il rapporto Istat.
L’arcano è presto spiegato. Il dato Inps si riferisce alle comunicazioni obbligatorie delle aziende su assunzioni, cessazioni e trasformazioni relative al solo lavoro dipendente e para subordinato del settore privato. Non si quantifica il numero degli occupati e una persona può avere più contratti nello stesso periodo. Per altro non si tiene conto di lavoratori pubblici e autonomi come invece accade nell’indagine Istat, che fotografa il numero effettivo degli occupati. Il dato Inps sulle assunzioni è poi ovviamente condizionato dai numerosi contratti trasformati in tempo indeterminato sulla scorta dei contributi del Jobs Act.
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Occhio alla bolla dei nuovi contratti

Occhio alla bolla dei nuovi contratti

Davide Giacalone – Libero

I primi dati 2015, relativi al lavoro, fecero gridare all’immediato successo del Jobs Act. Peccato non fosse ancora entrato in vigore. I dati di marzo segnano un ulteriore saldo positivo (per 92.299 posti di lavoro), e questa volta la riforma del lavoro è in vigore, proprio dall’inizio di quel mese. Se ne vedono gli effetti? Li si vedranno ancora?

Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, invita alla prudenza e teme gli entusiasmi, che possono divenire boomerang: «Stiamo parlando di nuovi contratti, non di nuovi posti di lavoro». Il dato che emerge, in quella trasformazione, è la crescita dei contratti a tempo indeterminato (+49,6% rispetto al marzo 2014). Un fatto positivo, che, però, va letto alla luce di un altro dato e di un altro fatto: a) quella tipologia contrattuale copre il 25% delle nuove attivazioni, dei nuovi contratti, il 75% resta a tempo determinato, apprendistato, collaborazioni e altro; b) il concetto di «indeterminato» è cambiato, e sarebbe davvero singolare che ci si dimenticasse la più significativa e positiva innovazione contenuta nel Jobs Act: il contratto a tutele crescenti, talché se ti assumono oggi con un contratto di quel tipo non significa affatto che hai agguantato la stabilità (sempre relativa) del passato, ma hai solo cominciato un percorso che ti porterà, dopo anni, ad avere diritti e tutele comunque inferiori ai lavoratori stabili dell’era precedente. Non critico questo fatto, anzi ne condivido la realistica convenienza, avverto sul possibile imbroglio che consiste nel chiamare con lo stesso nome cose diverse.

Quelli che mostrano di funzionare, però, sono gli incentivi fiscali e le decontribuzioni, che spingono le imprese ad assumere. Il guaio di questi strumenti è che, da un lato, sono temporanei, quindi vanno rifinanziati e, dall’altro, questo potrebbe gonfiare una bolla, una bollicina (a essere precisi), nel 2015, per poi dare luogo a un’implosione nel 2016. Luca Ricolfi ha, giustamente, formulato tale dubbio. Per questo è preoccupante la digressione sul «tesoretto». Non solo per la fregola immaginifica ma, soprattutto, perché la ricerca dell’impiego per alimentare il consenso ha imboccato la via sbagliata: altri premi agli occupati esistenti, modello 80 euro, anziché facilitazioni alle aziende per crearne dei nuovi.

Occhio, infine, a non dimenticare di cosa stiamo parlando, ovvero di un’economia che pensa di crescere, quest’anno, dello 0,5­0,7%, quindi, a seconda delle previsioni, fra la metà e un terzo dell’eurozona. Come si può pensare che una crescita così modesta crei le condizioni per riassorbire la disoccupazione? Che, infatti, resta altissirna. Il problema di gestione politica, normalmente, è che le scelte capaci di propiziare maggiore crescita e produttività creano un effetto ritardato sull’occupazione (che arriva dopo), quindi creando un problema a chi governa, perché rischia di non riuscire a spiegare e far vedere gli effetti positivi di quel che sta facendo. Qui si pretende il contrario, ovvero che l’occupazione cresca prima e di più del prodotto interno lordo. Quando simili prospettazioni vengono presentate ci sono due possibili vie: gridare al miracolo, degno di entrare nei manuali d’economia; oppure avvertire che trattasi di una visione, di un inganno ottico.

Suggestivo, ma irreale.