Edicola – Opinioni

Una catasta di errori seppellisce il nuovo catasto

Una catasta di errori seppellisce il nuovo catasto

Davide Giacalone – Libero

La riforma del catasto è stata seppellita da una catasta d’errori. Se ne parla da anni, è stata annunciata come cosa fatta nel luglio del 2013, la legge delega è stata approvata a novembre 2014, il tempo entro il quale il Consiglio dei ministri deve approvare il decreto legislativo scade sabato (27), ma giunti al limite estremo bloccano tutto. Matteo Renzi s’è accorto che rivalutando gli estimi e non abbassando le aliquote l’imposizione fiscale cresce al punto da potere raddoppiare. Complimenti per la prontezza di riflessi, noi lo scrivemmo nel luglio dell’annuncio, mentre dal novembre dell’approvazione andiamo ripetendo che il principio dell’invarianza fiscale, contenuto nella legge, va saputo maneggiare. Accatastiamo allarmi e suggerimenti tra le parole al vento.

Il catasto attuale è irrealistico. Cambiarlo è necessario, cercando di portare i valori degli immobili almeno vicino a quelli di mercato. Ma è del tutto evidente che se si rivalutano quei valori deve contemporaneamente scendere l’imposizione sulle case, altrimenti ne risulta un salasso insostenibile. Non è che ci voglia un genio, per rendersene conto. Capisco, naturalmente, che una cosa è scriverlo e altra tradurlo in pratica, ma anche scrivere la ricetta della pasta con le vongole è cosa diversa dal cucinare quel piatto, pero, dopo un po’ di spaghetti scotti, condimento slegato e vongole sabbiose non è che si solidarizza con lo sfortunato cuoco, gli si suggerisce di dedicarsi ad altri mestieri. l lavoro delle commissioni censitarie andava seguito e predisposti i meccanismi di correzione. Accorgersene all’ultimo minuto non è segno di occhiuta vigilanza, ma di cieca incapacità.

La legge delega, del resto, con tiene il principio dell’invarianza fiscale. Il che non vuol dire che non cambia quel che ciascuno paga, perché se così fosse ci si potrebbe risparmiare la fatica e lasciare le cose come stanno. Significa che verranno rimodulati i carichi fiscali e la loro distribuzione, in modo da dare un senso alla rivalutazione degli immobili. L’invarianza nazionale, quindi, significa che qualcuno pagherà di meno e altri pagheranno di più. Il “chi” dipende dal modo in cui il catasto riformato riporta i valori immobiliari. Il “quanto” dipende da diversi fattori: la logica della legge delega è che parte dell’imposizione sarà stabilita dai Comuni, che essendo migliaia, solitamente inadempienti e in ritardo, è evidente che non si potrà mai essere anticipatamente certi che il gettito complessivo resterà invariato. Allora si devono predisporre i meccanismi compensativi, talché l’eventuale superamento del gettito dell’anno precedente si traduca in restituzione di soldi ai cittadini, in quello successivo.

Queste cose le scrivevamo l’anno scorso, non appena letta la legge. Le trovavo anche piuttosto scontate. Ovvie. Peccato che a poche ore dalla scadenza della delega si accorgono di non averci pensato. Ora, per metterci una pezza e non buttare via il lavoro legislativo fatto (in un clima di positiva collaborazione fra governo e Parlamento, di cui va resto merito a Daniele Capezzone, presidente della commissione Finanza, che ha interpretato il ruolo istituzionale senza nulla concedere al suo essere oppositore), si dovrà trovare un’uscita d’emergenza. Così mettendo le premesse per il rigoglioso crescere di uno sport nazionale, quello del ricorso amministrativo. Non è il destino cinico e baro, ma il governante sprovveduto e incapace di dominare la macchina che pilota. Per una cosa simile, ove esistesse corrispondenza fra potere e responsabilità, dovrebbero saltare gli uffici legislativi.

Nel frattempo non ci si dimentichi di quel che qui abbiamo segnalato, ovvero le ulteriori patrimoniali sulle case, mascherate da libretti e controlli sui sistemi di riscaldamento e raffreddamento. Ora è norma anche l’Ape, che sarebbe l’Attestato di prestazione energetica: le solite ditte convenzionate dovranno essere chiamate per verificare che in ciascun immobile sia tutto a posto. Normalmente le chiami se qualche cosa si guasta, invece si deve chiamarle e pagarle perché è guasta l’anima di un’amministrazione pubblica che dispone di fantasia satanica nell’imporre nuovi obblighi e nuove gabelle.

Tsipras fa un passo indietro, l’Ue uno falso

Tsipras fa un passo indietro, l’Ue uno falso

Davide Giacalone – Libero

Non c’è stato e non ci sarà un E­Day, un giorno decisivo per potere leggere con ragionevole sicurezza il futuro europeo. Ieri è stato quello del rinvio fiducioso, non mi stupirei se fosse seguito da qualche altro di sfiduciato approssimarsi, magari propiziato da qualche dichiarazione dei falchi tedeschi e degli avvoltoi greci. Una cosa è chiara a tutti, colombe e allocchi compresi: l’alternativa al restare nella medesima voliera consiste nel farsi sparare.

Il governo greco ha messo sul piatto quel che fino a qualche ora prima aveva negato: misure fiscali permanenti per il 2% del prodotto interno lordo (era stato chiesto loro il 2.5, ma non è una gran differenza, considerato che il pil è basso e in contrazione); tre aliquote Iva (ne erano state chieste due, ma tutto sta a vedere come modulate); e, cosa più importante delle altre, automatismi nel taglio della spesa pubblica, ove l’avanzo primario fosse minore di quello concordato, quindi in crescita, anziché in diminuzione, l’indebitamento. Dicono anche che le pensioni non si toccano, ma che cesserà la possibilità, considerata nefanda dal loro stesso ministro dell’economia, di poterci andare già da ragazzi. Come un tempo avveniva anche in Italia. Il piano greco è congegnato in modo tale da consentire a quel governo di far vedere agli altri europei che è andato incontro alle loro richieste e agli ellenici che ha resistito con eroica tenacia, vincendo più del previsto. I governanti europei, dal canto loro, hanno preso tempo, ma sanno bene che i soldi prestati ai greci non li rivedranno nel corso di questa vita, quindi tanto vale accontentarsi della promessa di serietà e restituzione. Adesso vediamo se, nel giro di una settimana, qualcuno riesce a rirompere le uova nel paniere.

Se si fosse trattato solo di soldi, sarebbe stato chiaro ai greci, assai prima, che non si può chiederne in prestito per poi concedere al proprio elettorato quel che i prestatori negano al loro, e sarebbe stato chiaro agli altri che pagare per salvare la Grecia costa meno che subire le infezioni diffuse da quella ferita. Se si fosse trattato solo di geopolitica, sarebbe stato chiaro a tutti, fin dall’inizio, che è dissennato immaginare una caduta del bastione Nato al confine con la Turchia. Per non dire dei pericolosi e sciocchi ammiccamenti alla Russia.

Il mescolarsi delle due cose ha prodotto una bevanda ad alta gradazione, che ha fatto salire l’arroganza demagogica dei greci e la pretenziosità contabile dei creditori, oltre che indurito la posizione di quanti (come Spagna, Portogallo e Irlanda) dalla crisi sono usciti accettando terapie dolorose, sicché non vedono perché altri possano limitarsi a chiedere la grazia. Nel corso di questa crisi, non conclusa, più guardi Atene e più capisci e solidarizzi con Berlino, perché non esiste il diritto a dilapidare o la sovranità del vivere al di sopra dei propri mezzi e con i soldi altrui. Ma più guardi Berlino e più capisci Atene, perché dopo avere tollerato conti truccati e dopo avere affrontato la crisi in modo da salvare le proprie banche e non i greci, si pretende che la loro progenie paghi debiti lievitati a causa di una cura inefficace. E più guardi Atene e Berlino più ti accorgi che sono spariti gli altri, ridotti a figuranti, perché ciascuno desideroso di usare la tragedia in corso in modo da nascondere qualche propria magagna contabile. Il che vale, inaccettabilmente, prima di tutto per la Francia e l’Italia. Non esistono E­Day perché così come il divaricarsi degli spread era un sintomo dei difetti strutturali della moneta unica, e non giudizi morali su questo o quel Paese, il protrarsi della crisi greca è il riflesso di un deficit d’integrazione istituzionale. Particolarmente nocivo perché lascia intendere a non pochi elettori, sparsi per l’Europa, che si possa tornare alla spesa pubblica dissennata recuperando la sovranità monetaria. Il che evidenzia, al tempo stesso, pessima memoria e cattivi presagi.

Dopo quattro anni siamo dove eravamo. La sola cosa che è cambiata e ha funzionato è la Banca centrale europea. Per il resto è ancora vero quel che vedemmo allora e non è ancora fatto quel che era da farsi allora. A cominciare dalla federalizzazione di parte dei debiti. Non sarà una ulteriore settimana a cambiare le cose. Speriamo non sia usata per scassarle ulteriormente.

Resurrezione del Nazareno

Resurrezione del Nazareno

Davide Giacalone – Libero

Che il Nazareno possa risorgere sembra quasi un destino insito nel nome. Ma non c’è da farsi illusioni, perché la piazza dove ha sede il Partito democratico, e dove nacque il patto fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, il nome lo prende dal cardinale Michelangelo Tondi (1566-­1622), riminese, detto “il Nazareno” perché arcivescovo di Nazareth, che, però, non era la città dove  Cristo visse ma si trovava a Barletta, in ragione di una chiesa, Santa Maria di Nazareth, che neanche esiste più. I precedenti storici, quindi, tendono verso il raggiro. Con anche un pizzico di iettatura.

È utile, che si torni a quel patto? Dipende. Saltò per il modo in cui è stato scelto il presidente della Repubblica. Non perché Sergio Mattarella fosse un nome di rottura, ma perché Renzi lo interpretò in chiave interna al Pd. Se non si converge su un’elezione di quel tipo, come si può farlo sul resto? Ma c’è dell’altro: i frutti legislativi del Nazareno non sono buoni. Da quel patto sono nati la riforma del sistema elettorale e quella costituzionale (ancora da completarsi). Il primo è pessimo, la seconda prende l’impronta dal primo, unendovisi nel giudizio. Intanto il patto diede modo al governo Renzi di nascere, creando una positiva rottura a sinistra. È vero che da quel passo è nata la riforma del mercato del lavoro, buona anche se insufficiente, ma è anche vero che da lì discendono cose come i regali elettorali, in conto all’erario, e una non riforma della scuola che s’incarna nella promessa di 160mila assunzioni, ulteriore zavorra sulla spesa pubblica (in un Paese che ha più insegnanti per alunni della media europea). Nell’insieme: una ciofeca.

Eppure lo considerai con simpatia. E sarei propenso a ribadirla, sebbene con assai maggiore diffidenza. Scrivemmo allora: il Nazareno ha un senso se si allarga subito alle questioni economiche, perché quello è il campo in cui ci giochiamo il futuro. Non è mai successo. Continuiamo a crescere la metà dell’eurozona, accumulando ritardi che si tradurranno in pericolosi svantaggi. Le imprese che esportano fanno miracoli, ma in nulla sono diminuiti i pesi morti, mentre la pressione fiscale resta satanica e immutata la sua perversione ricattatoria e recessiva. La spesa pubblica è stata tagliata solo per quanto serviva a farla ricresce da altre parti. L’occasione offerta dalla Banca centrale europea, dal cambio e dal prezzo del petrolio è stata usata solo per raccontare panzane sulla ripresa, perdendola per il resto. Nel frattempo Renzi ha occupato tutto l’occupabile, producendo una nuova classe di boiardi che brillano per (presunta) fedeltà, ma somigliano troppo alle statue di sale: brillano come diamanti al sole, ma finiscono nei rivoli alla prima pioggia. L’incresciosa vicenda della Cassa depositi e prestiti non è la ciliegina sulla torta, ma l’asfissiante flatulenza prodotta dall’indigestione d’arroganza.

E allora: se la resurrezione saprà partire da queste cose, dai conti, dalla ricchezza che non cresce, dalla volontà di liberare le energie produttive e non dalla protervia di appropriarsene, che sia la benvenuta. Ma se si trattasse della riedizione del già visto, con inutili gargarismi costituenti, meglio essere chiari: la natura e lo spessore dei contraenti non può aspirare non dico ad agguantare risultati apprezzabili, ma neanche a dignitosamente cimentarsi con quella materia. Prima diano prova di serietà, impegnandosi al fianco dell’Italia che lavora e tira la carretta, dimostrando di non ritenerla un bue cui attaccare il trasporto dei propri bottini. Conosco la teoria nobile: occorre assicurare continuità al sistema istituzionale e fare argine alle ondate di dissennatezza qualunquista e propagandista. Vero. Ma se il patto risorto fosse come quello seppellito, non solo non infrangerebbe quei cavalloni, ma li renderebbe ancor più schiumanti. Basta guardare le infinite corbellerie dette e fatte sul tema dell’immigrazione. Non basta sostenere che chi soffia sul fuoco è un triviale irresponsabile, specie quando i presunti pompieri non sanno dove si trova il rubinetto, si fregano le scale a vicenda e a sirene spiegate si dirigono verso l’indirizzo sbagliato.

Autovelox e Italialentox

Autovelox e Italialentox

Davide Giacalone – Libero

L’Autovelox misura l’Italialentox, anzi: l’Italiamattox. Che per una multa si arrivi fino alla Corte costituzionale fa arricciare la bocca, in un sorriso. Che tocchi a quella Corte stabilire che gli apparecchi di misurazione della velocità debbano essere periodicamente controllati e calibrati fa arricciare il naso, nel sospetto che la notizia sia una bufala. Invece è vera. Che per fare cancellare una multa si debba passare per il prefetto, poi dal giudice di pace, quindi in Corte d’appello, ergo in Cassazione, per poi di qui approdare alla Consulta, fa corrugare la fronte, con ansiosa preoccupazione. In questa storia c’è il ritratto del perché questo è una Paese refrattario alle semplificazioni e perso nelle complicazioni.

Una signora, in quel di Mondovì, viene fermata da una pattuglia, che le contesta eccesso di velocità, provvedendo alla multa e al ritiro della patente. L’automobilista protesta, sostenendo di avere rispettato i limiti. Ricorre. Per faccende di questo tipo, bagatellari quanto altre mai, si sono creati giudici appositi, onde evitare che vadano a intasare il già infartuato sistema giudiziario. Che deve fare il prefetto, o, dopo di lui, il giudice di pace? Accertare che il verbale sia stato redatto in modo regolare, essendo a sua volta in regola l’apparecchio che rileva la velocità. Escluso (altrimenti la faccenda è più grave) che gli agenti della stradale abbiano motivi di personale ostilità avverso la donna al volante. Facile.

Facile un corno, perché nel Paese che non sa neanche di quante leggi dispone, tutto deve essere stabilito dalla legge. Razionalità vorrebbe che la legge autorizzasse l’uso dell’Autovelox, mentre un regolamento stabilisse come le pattuglie debbano collocarli e la loro centrale mantenerli e controllarli. A quel punto, come sopra, basta che il giudice accerti il rispetto del regolamento, o eccepisca circa le sue manchevolezze. In quel caso si cancella la multa e si corregge il regolamento. Ma qui mica siamo nel mondo razionale, viviamo in quello normomaniaco e ci vorrà il Parlamento. Siccome la legge, in questo caso il Codice della strada (articolo 45), stabilisce che alcuni apparecchi debbano essere periodicamente verificati (quelli nelle postazioni fisse, senza una pattuglia che faccia loro compagnia), mentre nulla dice sugli altri, il giudice ne deduce che gli Autovelox accompagnati non hanno mai bisogno di assistenza. Così ragionando se ne può dedurre che anche la vettura con cui si sposta la pattuglia non ha bisogno di alcuna manutenzione, se non quella periodica prevista dalla legge. Criterio applicando il quale tutte le nostre Forze dell’ordine sono destinate a spostarsi con l’autostop.

Ecco, per far valere questa banale ovvietà ci sono voluti cinque gradi di giudizio. Costo dell’operazione: alcune centinaia di volte il valore della multa. Paradossale? Questo è niente, perché ora tutti quelli che hanno ricevuto una multa per eccesso di velocità, e che non l’abbiano già pagata, non la vedranno annullare dall’ufficio competente, a sua volta consapevole che le macchinette non rispondono a quanto la Corte stabilì, ma dovranno fare a loro volta ricorso, suggerendo all’avvocato di allegarvi la sentenza costituzionale. Una straordinaria macchina capace solo di dilapidare ricchezza, pubblica e privata (facendo ricorso innanzi al pretore si rischia il raddoppio delle multa, mentre per accedere al giudice di pace, e successivi gradi, si paga il contributo unificato).

E dove lo mettiamo il gettito mancante, che ora produrrà ulteriore crisi nelle casse dei Comuni? Non avrei suggerimenti pubblicabili, ma faccio osservare che è da tempo invalsa l’abitudine di appostare le pattuglie mobili in coincidenza con cartelli indicanti limiti surreali di velocità. Su molte strade e su tutte le rampe rischi la vita, se provi a rispettarli, essendo probabile che un Tir ti pialli da tergo, procedendo al doppio dell’inchiodata impostati dal tondo impositore, sicché risulta più salutare rischiare la multa. I comuni lo sanno, quindi piazzano le macchinette esattrici poco oltre il segnale impalato e impalante. Tema succulento, nel regno del ricorso. Questa volta puntando alla Corte di Strasburgo.

L’elefante renziano distruggerà la cristalleria dei risparmiatori

L’elefante renziano distruggerà la cristalleria dei risparmiatori

Davide Giacalone – Libero

È una rottura che avrà conseguenze, alcune delle quali non sembra siano state nemmeno considerate. Cambiando anticipatamente i vertici della Cassa depositi e prestiti, a seguito di un braccio di ferro condotto nell’opacità, di cui non si conoscono i contorni e motivato con «ragioni tecniche» che nessuno ha mai chiarito, si cambia non solo la natura di quella società per azioni, ma anche del rapporto intemo al capitalismo di Stato. I governanti, ora, non hanno solo il potere di nominare i vertici delle aziende e delle società pubbliche, ma anche quello di revocarli senza che ricorra nessuna delle ragioni previste dalla legge. Questo significa che il management di quelle aziende perde qualsiasi autonomia: o obbbedisce o viene messo alla porta. Il Caf (Craxi­Andreotti- Forlani) non ha mai avuto un simile potere: nominavano i vertici, magari suggerivano le cose da farsi, facevano pressioni, ma nel corso del mandato tutti i consiglieri d’amministrazione, presidente e amministratore delegato compresi, erano padroni di resistere e decidere di testa propria. Cosa avvenuta più volte. Quell’equilihrio è rotto. La legge è infranta.

Facciamo un esempio concretissirno e immediato: la Cdp recalcitrava a mettere i soldi nel Fondo salva aziende, perché attività estranea alla propria missione e, per certi aspetti, contraria al proprio statuto. Prima di essere destituiti, i vertici hanno deciso di «manifestare interesse». Si sono piegati a quel che il governo voleva, sono pronti a metterci un miliardo. Non è ancora la decisione di un investimento, ma ne è l’anticamera. Contemporaneamente manifestano interesse le Poste e l’Inail. Il governo s’è mosso su soggetti diversi, tutti subordinati, con vertici che hanno obbedito. A cosa serve il Fondo? A prendere partecipazioni in società che si ritengono promettenti, ma che hanno squilibri finanziari. A salvarle, insomma. In pratica rinasce non l’Iri, ma la Gepi (Gestione partecipazioni industriali). Peggio, perché l’Iri ebbe luci brillanti e ombre inquietanti, mentre la Gepi solo le seconde. Ebbene, dopo la lezione impartita ai vertici Cdp, quale autonomia avranno quelli del Fondo? Come potranno mai resistere alla pressione per salvare questa o quell’azienda? Come potranno agire con criteri di mercato, laddove il forcone dei politici è pronto a infilzarli? ln questo modo si crea un baraccone dispendioso, che userà soldi dei contribuenti per salvare sobbolliti di potenti, clienti, protestanti e appartenenti a cordate d’amici.

Altro esempio: Cdp era diffidente dall’investire nella rinazionalizzazione dell’llva. Facevano bene, perché rischia di essere un lancio senza paracadute. Ilva, infatti, al contrario di quel che si legge in giro, non era né in crisi né in perdita. C’è finita perché le inchieste giudiziarie, che imputano disastro ambientale, hanno usato il sequestro di beni e materiali per legare le mani all’azienda. Corne andrà a finire il processo lo vedrerrro qualche anno dopo che sarà cominciato, cosa non ancora avvenuta, ma già oggi sappiamo che: a. se è colpevole l’Ilva dei Riva lo era anche lo Stato; b. l’Ilva commissariata si finanzia anche con i soldi sequestrati ai Riva. Cosa succede se il processo dovesse ritenere infondate le accuse? Ipotesi che spero non si voglia escludere, se non altro per rispetto dei giudici. Cosa succede? Otre a rendere incredibile l’intera storia, si dovranno risarcire danni consistenti. Tanto più che la proprietà non era dei soli Riva e i loro soci non hanno ancora capito per quale motivo e sulla base di quale legge siano stati espropriati. Non è insensato, dunque, star lontani da una roba che se va male diventa una voragine e se va bene te la tieni senza guadagnarci. Anche su questo si sono genuilessi: sono pronti a entrare. Quel che è successo, inoltre, va assai olure la già vasta portata della sola Cdp, perché innesca altre trappole. Quando, domani, la Commissione Europea eccepirà che si tratta di un Fondo che agisce per il governo, dato che è finanziato e diretto da gente che obbedisce al governo e che, quindi, si tratta di aiuti di Stato, proibiti, cosa si farà? Si protesterà contro gli euroburocrati? Invece sarà colpa degli italoarroganti, che approntano strumenti italosconclusionati. È ragionevole che si voglia sapere cosa ha indotto i vecchi vertici a porsi proni. I termini economici della loro uscita. Che promesse sono state fatte. Cosa è stato concesso alle Fondazioni bancarie, che hanno usato la fregola governativa per porre il problema della rendita annua che traggono da Cdp e della fiscalità che subiscono. Se è vero che le azioni loro intestate possono essere trasferite al governo, mettendoci in un pasticcio infinito e costoso. Voler sapere è ragionevole. Ma la cosa più importante la sappiamo già. L’elefante è entrato in cristalleria. Inutile distrarsi con la scimmietta che porta in groppa.

Scaricare colpe sulla Ue? I profughi li abbiamo voluti noi

Scaricare colpe sulla Ue? I profughi li abbiamo voluti noi

Davide Giacalone – Libero

Di corbellerie ne sono state dette e fatte troppe. Si provi a presentarsi al Consiglio europeo del 25 giugno con proposte sensate. Sul fronte dell’immigrazione non possiamo giocarci né l’umanità, né la dignità e nemmeno la legalità. Si dovrebbe far la voce grossa quando si hanno le carte in regola, e s’è taciuto, invece si alzano i toni quando si è intellettualmente afoni.

Il problema è troppo serio per abbandonarlo ai branchi contrapposti di ipocriti buonisti e insensati cattivisti. Purtroppo le cose dette dai governanti, fin qui, non incarnano soluzioni possibili, ma manifestano il panico di chi parla al solo scopo di non mostrarsi ammutolito e disorientato. Anche il governo s’è iscritto al piagnisteo generale, sperando di potere scaricare sull’Europa le proprie colpe. È diventata una cantilena: sale il debito pubblico? L’Europa non ha politiche serie; non parte la ripresa? L’Europa conosce solo il rigore; sbarcano i disperati? L’Europa è egoista. Cantilena fessa assai.

Hanno sbagliato tutto quello che potevano sbagliare. Il semestre europeo è stato sprecato per farsi fotografare, laddove il solo potere della presidenza di turno è quello di fissare l’ordine del giorno e convocare conferenze informali. Se ne è fatta una sull’immigrazione? No. Sono state fatte proposte percorribili? No. In compenso ci siamo autotruffati, adottando il vocabolario della confusione e chiamando “migranti” situazioni e soggetti diversi. Nel diritto si dividono in: richiedenti asilo, rifugiati che lo hanno ottenuto, immigrati economici con il permesso e clandestini. Riunirli sotto un solo vocabolo rende irrisolvibile la faccenda. Il problema non sono gli immigrati regolari, che si segnalano per integrazione e per positivo contributo alla crescita del prodotto interno lordo. Il problema è non sapere distinguere e frullarli con gli altri.

L’inizio della soluzione non consiste nello smontare il regolamento di Dublino (secondo cui i richiedenti asilo, quindi solo una parte del flusso, restano nel Paese d’approdo, fino al riconoscimento del diritto e alla loro finale destinazione), ma nel mettere il processo di distinzione, accoglienza o respingimento, in capo ad una comune amministrazione europea. Quello è l’obiettivo da raggiungersi. Non serve un manuale d’istruzioni, così come immaginato dalla Commissione Ue, serve la gestione comune. Senza la quale non ci sarà divisione di quote. O funzionerà male e per poco tempo (magari solo aspettando il ritorno del cattivo tempo e affidando alla meteorologia quel che la politica non sa fare).

Per gestire assieme è necessario che la terra su cui gli extracomunitari mettono piede non sia soggetta ad alcun diritto interno (italiano, spagnolo, greco o altro), ma risulti extraterritoriale rispetto a tutti. Non una zona nell’Ue, ma una a diretto governo Ue. L’immigrazione scatena reazioni, razionali e irrazionali, in tutto il mondo ricco, che talora ne è minacciato e più spesso se ne immagina minacciato, ma è ozioso e sciocco scambiarsi l’accusa di egoismo. Il solo effetto che si ottiene è far crescere l’antieuropeismo irragionevole, indebolendo la propria posizione nazionale. Ed è questa la più grave colpa di una classe dirigente inadeguata. Si accantonino questi argomenti, quindi, li si lasci ai bar e alle piazze, sapendo che il solo modo per combatterli è trovare soluzioni. Che sono: l’extraterritorialità e la gestione comune, con comune potere di accoglienza e respingimento.

Le altre trovate sono burlette, da disperati disperanti. Supporre di costringere le navi che salvano i naufraghi a portarli nel Paese di cui battono bandiera non è solo contrario al diritto della navigazione, ma anche al più banale buon senso (immaginate una nave canadese che fa rotta verso Suez e che, avendo salvato delle persone nel Canale di Sicilia debba portarle in Canada!). Lasciar correre furbate allocche, come quella dei permessi temporanei, per smentirle in pasticciato ritardo, è segno che oltre alla cravatta s’è persa anche l’idea di cosa sia un governo della Repubblica. Se l’obiettivo è quello di farsi dare dei buffoni, lo strumento individuato è efficace. E più si discute di tali scempiaggini, più ci si dimostra incapaci, più crescono il panico e le reazioni irrazionali. Foraggio per buonisti e cattivisti, ruminanti con due stomaci e punto cervello.

Gli studi che bocciano la strategia  di Renzi

Gli studi che bocciano la strategia di Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

È difficile comprendere perché il Governo Renzi – o, d’altronde, qualsiasi esecutivo deputato a governare l’Italia in questi anni – non ponga il nodo dell’aumento della produttività al centro delle proprie riflessioni e della propria azione. Oppure, quanto meno, come parametro essenziale per valutare le politiche istituzionali ed economiche settoriali. I documenti Istat sono chiarissimi, in particolare il Rapporto Annuale 2015 pubblicato meno di un mese fa: la produttività (comunque la si voglia definire) non cresce dal 1999 e dall’inizio della crisi nel 2007-2008 abbiamo perso un quarto del valore aggiunto nel manifatturiero, con la probabilità di non poterci ben presto più fregiare della palma di essere la seconda potenza industriale dell’Unione europea.

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Le tasse universitarie sono cresciute del 51% e non valgono la spesa

Le tasse universitarie sono cresciute del 51% e non valgono la spesa

Davide Giacalone – Libero

Le tasse universitarie crescono tanto e in fretta, ma il problema principale è che sono tasse, senza alcun rapporto fra quel che si paga e la qualità degli studi che si fanno. A tutti è nota la differenza fra una zucchina e il caviale, né avrebbe senso paragonare il prezzo della prima al secondo. Questo non senso, invece, è pienamente vigente nelle scuole e nelle università italiane, ove le pur esistenti differenze qualitative non si riflettono né in differenze di valore dei titoli di studio, né in quattrini necessari per arrivarci.

L’Unione degli universitari ha eseguito un’operazione imprecisa, ma significativa, dividendo, in ciascuna università, il gettito da tasse per il numero degli iscritti. È imprecisa, perché fra quelli c’è chi è esonerato dal pagamento e chi, invece, paga più della media, essendo alto il reddito familiare. È significativa perché dimostra come le tasse siano cresciute del 5% in un anno e del 51% in dieci. E stiamo parlando di anni a bassa inflazione, quando non negativa. Andando oltre la media si scoprono cose ragguardevoli: le tasse sono cresciute del 189% a Lecce, del 135 a Varese e 132 a Trento.

Contrariamente a quanto sembrano provare i giovani dell’Udu, questi dati non mi scandalizzano. È giusto che il costo degli studi sia sostenuto significativamente da chi li frequenta e, quindi, ne trarrà beneficio. Lo scandalo consiste nel chiedere alle famiglie di pagare, ma senza dare uno straccio di dato sui risultati e la qualità. Tasse, appunto, non rette. Obbligo, appunto, non scelta. In gran parte soldi buttati sull’altare di una divinità tarocca: il valore legale del titolo di studio. Quello è il totem da abbattere, se si vuole puntare alla qualità e alla comparabilità.

Sostiene Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu, che «è venuto il momento di operare una riforma complessiva del sistema, che riduca il peso delle tasse, soprattutto per i redditi più bassi, e introduca un criterio forte di progressività». No, si deve fare l’esatto contrario. Quella è la ricetta del socialismo dell’ignoranza. Questo è un sindacalese che fa apparire decrepito anche un giovine. Gli atenei non sono tutti uguali, e ciò deve riflettersi anche sul loro costo. Il diritto allo studio non consiste nel concedere a tutti i redditi di languire in un diplomificio, ma di assicurare ai meritevoli di sopravanzare i somari. La giustizia sociale, nelle università, è assicurata dal prestigio e dalle rette che dipendono dai risultati ottenuti, talché un giovane promettente, ma povero, non solo non lo fanno pagare, ma se lo contendono, perché alzerà la media dei risultati, accrescerà il prestigio dell’ateneo e, quindi, le richieste di denaro che potranno essere fatte a chi voglia frequentarlo.

Le “tasse” producono due negatività. Intanto sono funzione della spesa, non di progetti didattici o investimenti nella qualità. Crescono perché sono diminuiti i finanziamenti governativi, quindi si paga di più senza avere nulla di più. In un sistema più libero e aperto non avrei nulla in contrario a che il rettore metta in cattedra la moglie, ma gli chiederei quanto intende pagarmi se convincessi mio figlio a frequentare quella famiglia di cattedratici. Con le tasse, invece, devo pagare io per potere frequentare il magnifico. Che mi pare una magnifica fregatura.

I fondi pensione soffrono la crisi e finiscono soffocati dal fisco

I fondi pensione soffrono la crisi e finiscono soffocati dal fisco

Davide Giacalone – Libero

Il futuro economico degli odierni lavoratori si regge su due gambe: da una parte la previdenza obbligatoria, dall’altra quella integrativa e facoltativa. La prima è piena di protesi e bulloni, frutto di continue riforme. Che neanche sono finite. L’altra doveva essere più atletica e promettente, ma manifesta qualche cedimento al ginocchio.

Sono in crescita i lavoratori che portano i loro risparmi verso i Piani individuali pensionistici: il 29,4%, 6 milioni e mezzo di persone. Il 5,4% in più rispetto al 2013. E questo è un bene. Potrebbero e dovrebbero (dovremmo) essere più numerosi, ma si tratta già di una fetta significativa. La relazione della Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), però, segnala un dato preoccupante: cresce anche il numero di quelli che interrompono i versamenti, che, in altre parole, non riescono a tenere il passo con quanto avevano programmato di risparmiare e accantonare: erano 1,2 milioni nel 2013, sono diventati 1,4 milioni a marzo 2014, per arrivare a 1,6 alla fine dell’anno scorso.

Effetto della crisi? Certo, ma anche di una pressione fiscale che non molla la presa sugli italiani che producono, risucchiando nella spesa pubblica quel che sarebbe saggio lasciare al risparmio privato. Tanto più se si tiene conto di questi fatti: nel corso del 2014 sono stati raccolti 13 miliardi di euro, 600 milioni in più rispetto al 2013; dei contributi versati, 5,3 miliardi di euro provengono da flussi di trattamento fine rapporto, di cui l’82% confluisce nei fondi pensione negoziali e preesistenti; il rendimento del Tfr così impiegato è stato del 7%, mentre quello lasciato al datore di lavoro (dove prima si trovava obbligatoriamente) ha reso 1,3%. Chi ha dovuto interrompere i versamenti, quindi, subisce un danno notevole, perdendo le occasioni propiziate dalle politiche espansive della Banca centrale europea, dal calo del cambio e del prezzo del petrolio. Danno che si estende, come occasione mancata, all’intero sistema produttivo.

Esaminiamo l’ultima serie di dati: alla fine del 2014 il patrimonio delle forme pensionistiche complementari ha raggiunto 131 miliardi, circa il 12% in più rispetto alla fine del 2013, pari all’8,1% del prodotto interno lordo e il 3,3% delle attività finanziarie delle famiglie italiane; gli investimenti dei fondi pensione sono destinati per il 35% al nostro Paese, ma solo il 3% va a finanziare le imprese nazionali. La gran parte di quei soldi, quindi, finisce in titoli del debito pubblico che, come sanno bene i “Bot people”, ora rendono pochissimo. Per andare a cercare rendimenti produttivi i nostri risparmi emigrano. Questa è un’opportunità positiva per quei risparmiatori, ma negativa per l’Italia.

Gli alti rendimenti statali del passato erano in gran parte illusori, visto che venivano continuamente corretti dall’alta inflazione e dalle continue svalutazioni, ma, appunto, rappresentavano pur sempre un’illusione confortante. Se, però, guardiamo ai risultati positivi delle nostre imprese che esportano, le stesse che trovano credito con mille difficoltà e a un prezzo più alto rispetto ai concorrenti, ci rendiamo conto che stiamo sprecando un’occasione: dirigere il flusso del risparmio non più al finanziamento del debito e della spesa pubblica, ma della produzione e dell’impresa privata. La prima via portava risultati apparenti, la seconda può portarne di entusiasmanti. Ma non la si imbocca. Perché? Perché il finanziamento all’impresa resta bancocentrico (e asfittico), gli strumenti finanziari altrove diffusi (ad esempio negli Usa) qui restano sconosciuti e, come non bastasse, il fisco penalizza questo genere d’impieghi.

Ieri riflettevamo sulla Cassa depositi e prestiti e sull’idea, più mormorata che ufficializzata, di farne strumento governativo d’intervento nel sistema produttivo, ma è, quello, un modo antiquato e dirigistico di ragionare. Mentre il risparmio gestito, anche di natura previdenziale, potrebbe trovare ottimi e succosi impieghi proprio scommettendo sui nostri campioni produttivi. Se questo non accade, totalizzando il doppio danno, contro i risparmiatori e contro i produttori, è in gran parte perché i lacci fiscali strangolano il mercato interno. Con il risultato di portare i nostri risparmi, in cerca di guadagni, a finanziare i produttori altrui. E se non è follia masochista questa, altre non riesco a immaginarne.

Renzi mette le mani sul tesoro della Cdp

Renzi mette le mani sul tesoro della Cdp

Davide Giacalone – Libero

Cambiano i vertici della Cassa depositi e prestiti (Cdp). L’attenzione collettiva s’appunta sui nomi, che, però, dovrebbero essere funzione della cosa e del cosa sono incaricati di fare. Questa partita è rilevantissima. Di portata storica. Sarà bene non cucinarla e non consentire che sia cucinata come fosse un qualsiasi piatto della mensa governativa.

È capitato spesso che incarichi scaduti si siano trascinati in regime di proroga, perché non si procedeva alle nuove nomine. Cattivo costume. Qui, però, siamo di fronte a uno spettacolo opposto: i vertici attuali scadrebbero fra un anno, ma vengono silurati e sostituiti in anticipo. Perché? Troverei meritorio l’avvicendamento, se agli attuali responsabili s’imputassero precise mancanze. Riterrei utile sostituirli anche solo perché hanno parlato troppo, come fossero alla guida di un fondo d’investimento, anziché di un istituto molto particolare, che dovrebbe provvedere al finanziamento degli enti locali, non al perseguimento di una (quale?) politica industriale. Ma è questo il senso della decisione governativa? O vengono mandati via perché non sono stati abbastanza solleciti nel dare attuazione ai non ordini governativi? Ovvero a quelle iniziative che dal governo vengono suggerite, senza neanche potere essere esplicitamente imposte? Ai nuovi dirigenti è assegnata la missione di perseguire più riservatezza o più attivismo? Sembrerebbe la seconda cosa, visto che si tratta di due banchieri, di cui uno proveniente da una banca d’affari. Sembrerebbe, ma dovrebbe essere chiaro. Su un punto di tale rilevanza sarebbe opportuno un apposito dibattito parlamentare.

Per dirne una: la Cdp si colloca al di fuori del perimetro della spesa pubblica, può agire, quindi, senza intaccare il deficit e il debito pubblici, ma resta una Cassa pubblica, posseduta dal ministero dell’Economia e, in posizione largamente minoritaria, dalle fondazioni bancarie; l’abbondante liquidità di cui dispone (capace di generare dividendi per gli azionisti) discende dalla gestione dei flussi generati dalle Poste; per queste ultime è prevista l’imminente quotazione in Borsa. È evidente che i soldi o si valorizzano da una parte o dall’altra, il che sposta, non poco, la loro resa in capo ad azionisti privati (in Borsa) o pubblici. Un chiarimento è necessario, se non vogliamo continuare a quotare lo statalismo, dopo avere abbondantemente quotato il socialismo municipale. Domenica scorsa segnalavamo i casi paralleli di telecomunicazioni e acciaio, due settori prima pubblici, poi privatizzati, quindi nuovamente oggetto d’intervento pubblico. Se la Cdp è destinata a essere lo strumento principe di questa nuova economia pianificata è lecito chiedere che ne siano discussi i contorni, gli strumenti e le finalità.

Ricordo che financo Mussolini, quando imboccò la strada dell’intervento pubblico in economia, lo fece affidandone la gestione a gente come Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli, che non solo non erano partecipi di alcun fascio magico, ma erano antifascisti (e agli oppositori del regime diedero non pochi aiuti). Da quella scelta, lungimirante, nacque sia l’Iri che la Mediobanca, poi affidata a un antifascista di nome Enrico Cuccia (che aveva sposato la figlia di Beneduce, il cui nome è un programma: Idea Nuova Socialista). Lungi da me abbandonarmi all’apologia, ma sarei rattristato assai se quell’esempio fosse considerato troppo liberale e sciocco nel non favorire i propri amici. Sarebbe imbarazzante scoprire che oggi è più facile d’allora mettere le mani sulla e nella Cassa.

Il cambio ai vertici della Cdp non può e non deve essere un problema di nomi ma di politiche. Le scelte non possono e non devono essere per amicizia e colleganza, né di chi governa né di chi lo affianca guidandolo. Qui stiamo parlando della colonna vertebrale stessa di un’Italia produttiva che prova a rimettersi in piedi. Se c’è la gobba, meglio correggerla subito. Se c’è un gobbo, da cui gli attori leggono il copione, meglio individuarlo subito. Rimandare e far tinta di niente significa prepararsi a perdere tempo, quattrini e a far nascere una nuova genia di corsari pronti ad arricchirsi con la spesa pubblica. Sarebbe opaco e pericoloso un governo che si rifiutasse di affrontare il dibattito. Sarebbe inutile e miserevolmente succube un’opposizione che non lo chiedesse.