Scrivono di noi

Lufthansa ritorna al posto di Delta per fare di Alitalia uno spezzatino

Lufthansa ritorna al posto di Delta per fare di Alitalia uno spezzatino

Questa settimana verrà ricordata come una delle più difficili per il mercato del lavoro italiano. In prima fila ci sono i problemi di Alitalia. Ieri piloti e assistenti hanno scioperato per 24 ore. La Fnta, federazione che riunisce i lavoratori aderenti ad Anpac, Anpav e Anp, ha indetto la manifestazione nella speranza che si trovi una soluzione per salvare l’ex compagnia di bandiera, una speranza arriverebbe da Lufthansa. Due giorni fa la compagnia tedesca avrebbe inviato una lettera a ministero dello Sviluppo economico e Ferrovie dello Stato nella quale si proporrebbe come alternativa all’americana Delta. Non si tratterebbe però di ingresso nel capitale azionario ma di una forte partnership commerciale. Il che lascerebbe pensare che il contraltare sarebbe un drastico taglio del personale e alla necessità di una nuova iniezione di capitale pubblico.

Eventualità che contribuisce ad alzare la tensione, se non bastassero gli altri scioperi come quello dei lavoratori della Embraco. Gli operai hanno manifestato bloccando la rotonda che da Riva di Chieri porta verso la fabbrica nella speranza di trovare un piano alterativo a quello della Venture che ha rilevato l’azienda. I cinoisraeliani della Venture non stanno infatti riuscendo a rispettare gli impegni presi e sembrano non avere le risorse finanziarie per dare corso al piano che prevede la produzione di robottini per pulire i pannelli solari, dispenser dell’acqua, e-bike e giocattoli, Non va meglio ai lavoratori della Whirlpool. Pochi giorni fa anche loro hanno protestato nella speranza di impedire la cessione dello stabilimento di Napoli, mentre ieri hanno incontrato il premier Giuseppe Conte. È chiaro dunque che il ministro Stefano Patuanelli che guida il dicastero dello Sviluppo economico al momento abbia diverse gatte da pelare e che dovrà comprendere che i sussidi sono destinati solo a prolungare l’agonia. «11 nostro mercato del lavoro», spiega l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro, «contiene difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Occorre favorire un processo di innovazione sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività. Va detto però che non è solo colpa delle politiche del Mise. Il vero problema è che il mercato del lavoro italiano è fermo al palo da troppi anni. A tracciare una fotografia di questa situazione che si protrae da tempo ci pensa un elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel recentissimo «Global competitiveness report 2019-2020» pubblicato dal World Economic Forum. Dall’indagine che misura l’efficienza del mercato del lavoro, emerge che l Italia è terz’ultima in classifica tra i 28 Paesi membri dell Unione europea e novantesima su 141 Paesi censiti nel mondo. L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa. Per quanto concerne, ad esempio, la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo in cento quattordicesima posizione al mondo e penultimi tra i Paesi dell Europa a 28 {ai primi tre posti ci sono Danimarca, Paesi Bassi e Lussemburgo). Nella classifica Ue abbiamo dunque perso una posizione rispetto al 2018, Siamo invece al cento trentacinquesimo esimo posto al mondo e diventiamo penultimi in Europa (perdendo anche qui una posizione rispetto all’anno precedente} per flessibilità nella determinazione dei salari. In parole povere, ciò significa che spesso i nostri contratti sono spesso frutto di accordi di categoria e quasi mai sono il risultato di un dialogo tra impresa e lavoratore. Dove però l’Italia é particolarmente carente è nella capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Su questo punto siamo l’ultimo Paese tra i 28 dell Ue e alla posizione 130 al mondo. In pratica, i datori di lavoro non riescono a premiare i professionisti più produttivi. Non va meglio se si guarda all’effetto della pressione fiscale sul lavoro (facciamo molto peggio di Danimarca e Regno Unito). Su questo indicatore il peggioramento rispetto al 2018 è netto, in Europa scendiamo verso il basso di altre otto posizioni.
Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto siamo alla posizione 127 al mondo e perdiamo ben due posti in Europa (adesso siamo terzultimi). Infine, un altro indicatore da considerare e quello che riguarda l efficienza e l efficacia delle politiche attive per il lavoro, dove ci collochiamo addirittura all’ultimo posto in Europa (al mondo siamo alla posizione 99).

Lo Stato incassa e non paga

Lo Stato incassa e non paga

di SANDRO IACOMETTI

Servizi per i pagamenti «sempre più accessibili, tempestivi e facili da utilizzare». Così, ieri, l’Agenzia della Riscossione (ex Equitalia) pubblicizzava la sostituzione del vecchio bollettino Rav con il nuovo modulo PagoPa, che consentirà di saldare il proprio debito con lo Stato (cartelle e avvisi) in qualsiasi modo e in qualsiasi momento, al bar, per strada, con un telefonino, con un pc o, se si ama la tradizione, agli sportelli postali e bancari. Si tratta dell’ennesima trovata del fisco per togliere al contribuente qualsiasi alibi sul mancato o ritardato versamento delle imposte. Come sottolinea il comunicato, il pagamento deve essere «tempestivo».Anche perché, in caso contrario, scattano sanzioni, penali e salatissimi interessi.
Meno innovazione, ma stessa determinazione è quella con cui in queste settimane sono alle prese i pensionati, invitati via posta ordinaria a restituire rapidamente i soldi ricevuti in più per colpa dei ritardi del legislatore e dell Inps nell’applicare i tagli all’adeguamento degli assegni all’inflazione. Anche in questo caso, la tempestività è d obbligo. Se l’anziano non ottempera entro il 18 ottobre, la pratica passerà agli Agenti della Riscossione, con tutte le complicazioni e i costi del caso. Ma l’Inps non è lo stesso ente che ogni mese deve versare quattrini ai pensionati? Perché non effettuare una compensazione tra crediti e debiti?

Apriti cielo. La nuova parola d ordine del presidente Pasquale Tridico è: basta azzeramenti di pendenze, soprattutto quando ci sono di mezzo le imprese. Lì, assicura il fedelissimo di Luigi Di Maio, che sta cercando di convincere sull’argomento anche il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, si annidano sacche enormi di evasione che può essere facilmente recuperata (lui dice addirittura tra i 2 e i 5 miliardi). Come? Incrociando i dati del fisco con quelli dell’Inps e tornando di fatto al vecchio sistema secondo cui ognuno paga il suo. Il risultato è garantito: il contribuente, infatti, è costretto a versare, lo Stato no.

Ricordate tutta la campagna per smaltire i debiti arretrati della Pa con i fornitori, gli annunci sulla certificazione dei crediti, gli anticipi bancari, la tracciabilità dei pagamenti? Qualcosa è stato fatto. Ma a differenza dei versamenti di imposte e contributi, dove ogni giorno viene inventato un sistema nuovo per facilitare l’incasso da parte della pubblica amministrazione, lì il meccanismo era così complicato e farraginoso che alla fine ha funzionato poco e male.

I numeri parlano chiaro: secondo una rilevazione del Centro studi ImpresaLavoro alla fine del 2018 lo stock dei debiti accumulati dalla Pa ammontava ancora a 53 miliardi, solo 4 in meno rispetto all’anno precedente. E i tempi con cui i fornitori vengono saldati, seppure ridotti, restano ancora elevatissimi e tra i peggiori d Europa. Con 67 giorni di media lo Stato italiano è sul podio dei cattivi pagatori, subito dopo la Grecia (115) e il Portogallo (75).

Invece di migliorare, la situazione sta peggiorando. E sta addirittura creando un circolo vizioso tra le imprese per cui, mancando così di frequente il primo tassello, il saldo della fattura da parte del pubblico, a cascata nessuno paga più nessuno. Dal Barometro Censis presentato ieri è emerso che il 91,3% dei commercialisti negli ultimi dodici mesi ha subito ritardi nella riscossione dei crediti. Per il 52,6% i tempi si sono allungati rispetto all’anno precedente e per l 87,7% le imprese rimaste a bocca asciutta hanno a loro volta lasciato a secco i loro fornitori, scatenando un corto circuito devastante sia per il tessuto produttivo sia per l intero Paese.

Ad accendere la miccia, manco a dirlo, è proprio lo Stato. La quota di professionisti che hanno dovuto fare i conti con ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione è del 60%. In particolare, il 10,6% indica che tutte le sue imprese clienti hanno tale problema e il 31,2% che riguarda la maggior parte dei casi, mentre solo l 8,9% dei commercialisti sostiene di non aver avuto a che fare con intoppi di alcun genere.

Quanto ai tempi, per il 30,6% l attesa si è allungata rispetto allo scorso anno e per il 53,5% è rimasta uguale. Solo per un 7,7% di fortunati la Pa è stata più solerte rispetto ai 12 mesi precedenti. Le conclusioni dello studio realizzato per il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti sono chiare. Si tratta, si legge, «di una patologia grave perché tradizionalmente la Pubblica amministrazione dovrebbe giocare un ruolo di regolatore positivo dei mercati». Invece, resta «un generatore di criticità». In altre parole, una zavorra al posto di un volano.

Esodo con salasso. Diesel alle stelle

Esodo con salasso. Diesel alle stelle

Il diesel acquistato in Italia è in assoluto il più caro in Europa, mentre il prezzo della benzina è il quarto più alto di quelli acquistabili nei Paesi dell Unione europea. A renderlo noto è una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su dati del Ministero dell’Economia e della Commissione Europea. Per il diesel il costo al litro sul territorio italiano è di 1,487 euro, ben al di sopra degli 1,329 euro della media europea. Supera dell 11,1% la media continentale anche la benzina, che costa 1,599 euro al litro: il pieno in questo caso costa il 4,5% in più rispetto alla Francia, l’11,4% in più rispetto alla Germania e addirittura il 26,3% in più rispetto all’Austria. Peggio in Europa fanno soltanto Paesi Bassi, Grecia e Danimarca con un costo al litro rispettivamente di 1,681, 1,629 e 1,620 euro. Il prezzo pagato dai consumatori finali, sempre per quanto riguarda la benzina, risente fortemente della componente relativa a tasse e accise: il prelievo statale rappresenta il 63,5% del prezzo finale contro il 60,2% della media europea, il 61,8% della Francia, il 61,6% della Germania e il 52,9% della Spagna. Non va molto meglio, da questo punto di vista, quando si parla di diesel: il 59,6% del prezzo finale è costituito da tasse, contro una media europea pari al 54,9%. Peggio fa solo il Regno Unito, con un valore pari al 60,5%. «Questi numeri preoccupano soprattutto perché non sono state ancora individuate le risorse per disinnescare le clausole di salvaguardia», osserva il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, segnalando che – in assenza di coperture alternative – dal primo gennaio 2020 i rincari sulle accise peserebbero per 400 milioni l anno. Attualmente incidono sul prezzo del carburante ben 17 diverse accise, deliberate dal 1935 ad oggi e legate alle voci di spesa più disparate: dalla Guerra di Etiopia all’acquisto di autobus ecologici, dal rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004 all’emergenza migranti causata dalla crisi libica. Senza dimenticare che attraverso l aumento delle accise si sono affrontate le principali emergenze italiane: il terremoto in Emilia (2012), il terremoto in Friuli (1976) e in Irpinia (1980), le alluvioni di Firenze (1966) e Liguria (2011). In molti casi si tratta chiaramente di voci di emergenze concluse. Il gettito totale per accise nel complesso è aumentato di 5,2 miliardi negli ultimi 10 anni. Le accise su prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi garantivano alle casse dello stato 20,3 miliardi nel 2008.

Nelle partecipate pubbliche più poltrone che dipendenti

Nelle partecipate pubbliche più poltrone che dipendenti

di Antonio Spampinato

Una società gestita da Comuni e Regioni su tre ha più componenti del consiglio di amministrazione che lavoratori. Una su 5 è in perdita. Gli sprechi degli enti locali. Nelle partecipate pubbliche il poltronificio è sempre aperto. L’apposito ufficio dedicato a distribuire posti di lavoro ben pagati, preferibilmente da assegnare agli amici degli amici, non conosce Natale o Ferragosto. La particolarità, rispetto ai navigator pentastellati, sta nel fatto che vengono ricercati soprattutto alti profili da stipare all’interno dei consigli di amministrazione. D’altra parte, chi ha o avuto un trascorso politico, ha o avuto a che fare con un partito, sia esso di governo o di opposizione, nazionale o locale, può mai fare l’impiegato?

A leggere l’analisi del Centro studi ImpresaLavoro diffusa ieri, vengono i brividi. Degli attuali 5.776 Enti a partecipazione pubblica, quasi un terzo (1.798)ha un numero di dipendenti inferiori ai membri del proprio cda mentre più di due terzi (4.052) operano con meno di 20 dipendenti. Immaginiamo la tempesta di cervelli che al termine di esagitati consigli di amministrazione consegna strategie e piani d’azione ai quattro gatti presenti negli uffici. E magari anche una sacrosanta spending review: non più di una biro e un block notes a testa, totale quattro.

LO SPRECO Il tema dello spreco di denaro pubblico che finisce nell’idrovora delle partecipate è annoso e già Carlo Cottarelli, commissario alla spending review ai tempi del Governo Renzi, aveva provato a porvi rimedio proponendo tagli agli stipendi dei consiglieri di amministrazione, una riduzione delle poltrone e del numero degli Enti: da 8mila a mille. Qualcosa si è fatto ma la notizia più rilevante è stata la cacciata di Mani di Forbice. Un decreto di Marianna Madia, ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione sempre del governo Renzi, ha voluto recepire l’indirizzo impostato da Cottarelli. L’obiettivo era quello di rivoltare come un calzino le regole per quasi tutte le controllate dello Stato e della pubblica amministrazione, soprattutto locale, riguardo la trasparenza dei bilanci e gli obiettivi di redditività, oltre a bloccare le assunzioni e portare, anche lei, a 1.000 il numero degli Enti.

Oggi, come detto, le partecipate sono quasi seimila e, per quanto infine riguarda il loro fatturato, 2.272 Enti hanno un valore della produzione inferiore a 500mila euro. Di questi, sottolinea l’elaborazione di ImpresaLavoro su dati 2016 della Corte dei Conti, ben 1.198 risultano in perdita.

LE REGIONI Quando si tratta di raccattare poltrone, non solo l’Italia è saldamente unita, ma è proprio il ricco Settentrione a sentire l’esigenza di mantenere un rapporto stretto stretto con la pubblica amministrazione. Secondo i dati della Corte dei Conti infatti è nel Nord Ovest che si concentra il maggior numero di organismi partecipati dagli Enti (il 29,55% del totale), seguiti da quelli collocati nel Nord Est (il 28,96%). Al Centro (20,64%), al Sud e nelle isole (rispettivamente 14,46% e 6,27%), dove c’è meno ricchezza da spartire, la presenza è inferiore.

La Lombardia è la Regione dove si concentra la maggior parte delle partecipate (16,7% del totale), segue l’Emilia Romagna (9,6%), la Toscana (9,5%) e il Veneto (9%). Sepolte dai debiti, 104,4 miliardi, le partecipate meno virtuose hanno sede sempre al Nord (74%). Al primo posto si trova ancora la Lombardia(26,52 miliardi), seguono il Friuli (12,71 miliardi) e il Lazio (11,28 miliardi).

Lavoro pubblico, pensioni, aiuti alle imprese e trasferimenti per sanità, scuole e servizi principali: in Meridione più del 50% della ricchezza arriva dallo Stato.

Lavoro pubblico, pensioni, aiuti alle imprese e trasferimenti per sanità, scuole e servizi principali: in Meridione più del 50% della ricchezza arriva dallo Stato.

di Sandro Iacometti

Quando c’è da mangiare a spese dello Stato in Italia non si tira indietro nessuno. Per avere un’idea di quanti quattrini pubblici ogni anno vengano distribuiti sul territorio, in attesa che il reddito di cittadinanza faccia lievitare a dismisura la torta, basta sfogliare il dettagliato rapportone sulla spesa regionalizzata che la Ragioneria generale compila periodicamente con pazienza certosina. Nell’elenco ci sono i costi della produzione dei servizi locali, ma anche i flussi monetari sotto forma di trasferimenti ad enti, operatori, associazioni, imprese e famiglie. E già così si tratta di una bella sommetta. Il totale nel 2016 (ultimo anno disponibile)ammontava a 225 miliardi. Se a questo aggiungiamo la montagna di quattrini che esce dalle casse dell’Inps, i fondi comunitari e le erogazioni di altri enti si arriva alla modica cifra di 565 miliardi. Valore che rappresenta oltre i due terzi della spesa pubblica complessiva, di circa 830 miliardi, che comprende anche gli interessi sul debito e la quota di esborsi non regionalizzata.

Alla mangiatoia, ovviamente, si cibano tutti. Senza troppi complimenti. Se mettiamo a confronto il numero di abitanti con il denaro che piove, scopriamo che la Valle D’Aosta è in testa alla classifica, con 15.448 euro pro capite. Seguono il Trentino Alto Adige (13.431) e il Lazio (12.259). All’ultimo posto, invece, spunta a sorpresa la Campania (8.198), preceduta da Veneto (8.203) e Puglia (8.257). Il valore medio italiano è di 9.318.

RICCHEZZA

Messa così, sembrerebbe che i nemici dell’autonomia regionale o coloro che si indignano per chi pensa che il Sud, per ripartire, abbia più bisogno di olio di gomito che di altri finanziamenti statali, non abbiano tutti i torti. Certo, ci sarebbe da obiettare che con quegli 8mila euro di soldi governativi per abitante la Campania offre servizi di gran lunga inferiori a quelli di cui possono usufruire i cittadini della Lombardia, per cui lo Stato spende a testa più o meno la stessa cifra (8.364 euro). Ma la sostanza resta: la spesa pubblica italiana è troppo elevata e ovunque ne approfittano.

Discorso chiuso? Non proprio. Basta cambiare prospettiva, per accorgersi che la musica è ben altra. I territori italiani non differiscono solo per la qualità dei servizi, ma anche, e soprattutto, per la quantità di ricchezza che riescono a esprimere, per quello che producono, per i redditi che entrano nelle tasche degli abitanti. È su questo terreno che si fa la differenza, che si riducono i debiti, che si crea il benessere.

Ed ecco allora la vera domanda: quanti quattrini dello Stato incassano le regioni rispetto ai soldi che circolano? La risposta ce la fornisce ImpresaLavoro, il think tank animato dall’imprenditore Massimo Blasoni, che si è preso la briga di mettere in correlazione i dati della Ragioneria con il Pil del territorio.

RESISTENZE

Utilizzando questo criterio la classifica è dominata da un blocco massiccio di regioni del Mezzogiorno, dove la spesa statale consolidata supera addirittura il 50%della ricchezza prodotta. Si va dal Molise (56%) fino alla Campania (45%), passando per Calabria (55%), Sardegna (54%), Sicilia (52%) e Puglia (47%). Per essere chiari, in queste aree per ogni 100 euro di retribuzione incassata, di fattura emessa o di utile guadagnato, 50 sono a carico della collettività, sono quattrini rastrellati attraverso le tasse. In fondo all’elenco, manco a dirlo, troviamo la Lombardia (22%), il Veneto (25%) e l’Emilia Romagna (25%). Proprio le regioni che, guarda caso, chiedono una maggiore trasparenza e autonomia nella gestione delle risorse pubbliche.

I dati della Ragioneria e le elaborazioni di ImpresaLavoro spiegano bene le resistenze dei politici del Mezzogiorno. Chi avrebbe il coraggio di spiegare ai propri cittadini che uno stipendio su due rischia di restare in tasca al suo legittimo proprietario, che lo ha finanziato a colpi di balzelli?

La Valle D’Aosta è in testa alla classifica della spesa consolidata regionalizzata, con 15.448 euro pro capite. Seguono il Trentino Alto Adige (13.431) e il Lazio (12.259). All’ultimo posto la Campania (8.198).

IN RAPPORTO AL PIL: La spesa pubblica consolidata in rapporto al Pil vede ai primi posti tutte regioni del Sud: Molise (56%) Calabria (55%), Sardegna (54%), Sicilia (52%), Puglia (47%) e Campania (45%). In fondo ci sono Lombardia (22%), Veneto

La scheda (25%) ed Emilia Romagna (25%). Una manifestazione di qualche anno fa dei Nuovi disoccupati autorganizzati ad Acerra per protestare contro la mancanza di lavoro. Alcuni di loro si erano arrampicati sulle ciminiere del termovalorizzatore minacciando di buttarsi di sotto se la Regione Campania non li avesse assunti

Reddito pro capite: in 10 anni noi italiani abbiamo perso 2.400 euro a testa. Siamo sotto la media UE e dell’area euro.

Reddito pro capite: in 10 anni noi italiani abbiamo perso 2.400 euro a testa. Siamo sotto la media UE e dell’area euro.

Dal 2007 al 2017 gli italiani hanno perso l’8,4% del loro reddito pro capite, un calo pari a 2.400 euro a cittadino. Dopo essere diminuito da 28.700 a 26.300 euro, questo è ormai scivolato al di sotto della media sia dell’Area euro (30.400 euro) sia dei Paesi dell’Unione europea a 28 (27.700 euro).

Negli ultimi dieci anni, peggio di noi in Europa hanno fatto solo Cipro (-8,6%) e Grecia (-23,3%) mentre nelle altre grandi economie il dato appare costante (0% in Spagna) o addirittura in aumento: +1,2% in Portogallo, +2,9% in Francia, +3,2% nel Regno Unito, +10,6% in Germania e addirittura +36,9% in Irlanda.

È quanto emerge da un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Va comunque osservato come nel 2017 (ultimo anno rilevato) sia stato registrato un aumento del nostro reddito pro capite (+1,5%, pari a 400 euro), contenuto ma pur sempre superiore a quello ottenuto nello stesso periodo dal Regno Unito (+0,9%, pari a 300 euro) e dal Belgio (+1,5%, pari a 500 euro).

In termini assoluti nel 2017 il reddito pro capite degli italiani (26.300 euro) appare ancora superiore a quello degli spagnoli (24.500 euro), dei greci e dei portoghesi (17.400 euro) ma resta comunque di gran lunga inferiore a quello della maggior parte dei Paesi europei: Lussemburgo (81.800 euro), Irlanda (56.400 euro), Danimarca (46.500 euro), Svezia (43.000 euro), Paesi Bassi (40.700 euro), Austria (37.100 euro), Finlandia (35.700 euro) e Germania (35.500), Belgio (34.900 euro), Francia (32.300 euro) e Regno Unito (32.100 euro).

«I timidi segnali di ripresa non devono illuderci», osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi Impresa- Lavoro. «La carenza di investimenti pubblici e le perduranti oppressioni fiscale e legislativa deprimono gli sforzi delle aziende e frenano un vero rilancio della nostra economia. A farne le spese non sono soltanto quanti, soprattutto giovani, non riescono a entrare nel mondo del lavoro ma pure gli stessi occupati, molto spesso precari. Trovare il nostro Paese in fondo anche a questa classifica internazionale addolora e preoccupa, soprattutto perché fotografa l’avvenuto impoverimento degli italiani e spiega la difficile ripresa dei nostri consumi interni».

In 10 anni redditi giù di 2.400 euro

In 10 anni redditi giù di 2.400 euro

di Ignazio Mangrano

L’erosione della ricchezza privata dell’8,4% dal 2007 colloca il nostro Paese al di sotto della media europea. Per ImpresaLavoro «la colpa è di bassa crescita e tasse elevate».

Dal 2007 al 2017 gli italiani hanno perduto l’8,4% del loro reddito pro capite, un calo pari a 2.400 euro a cittadino. Dopo essere diminuito da 28.700 a 26.300 euro, questo è ormai scivolato al di sotto della media sia dell’Area euro (30.400 euro) sia dei Paesi dell’Unione Europea a 28 (27.700 euro). Negli ultimi dieci anni, peggio di noi in Europa hanno fatto solo Cipro (-8,6%) e Grecia (-23,3%) mentre nelle altre grandi economie il dato appare costante (+0% in Spagna) o addirittura in aumento: +1,2% in Portogallo, +2,9% in Francia, +3,2% nel Regno Unito, +10,6% in Germania e addirittura +36,9% in Irlanda. È quanto emerge da un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Va osservato come nel 2017 (ultimo anno rilevato) sia stato registrato un aumento del nostro reddito prò capite (+1,5%, 400 euro), contenuto ma pur sempre superiore a quello ottenuto nello stesso periodo dal Regno Unito (+0,9%, 300 euro) e dal Belgio (+1,5%, 500 euro).

In termini assoluti nel 2017 il reddito pro capite degli italiani (26.300 euro) “appare ancora superiore a quello degli spagnoli (24.500 euro), dei greci e dei portoghesi (17.400 euro) ma resta di gran lunga inferiore a quello della maggior parte dei Paesi europei: Lussemburgo (81.800 euro), Irlanda (56.400 euro), Danimarca (46.500 euro), Svezia (43.000 euro), Paesi Bassi (40.700 euro), Austria (37.100 euro), Finlandia (35.700 euro) e Germania (35-500), Belgio (34-900 euro), Francia (32.300 euro) e Uk (32.100 euro)”.

«I timidi segnali di ripresa non devono illuderci», osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro, «la carenza di investimenti pubblici e le perduranti oppressioni fiscale e legislativa deprimono gli sforzi delle aziende e frenano un vero rilancio della nostra economia. A farne le spese non sono soltanto quanti, soprattutto giovani, non riescono a entrare nel mondo del lavoro ma pure gli stessi occupati, molto spesso precari. Trovare il nostro Paese in fondo anche a questa classifica internazionale addolora e preoccupa, soprattutto perché fotografa l’avvenuto impoverimento degli italiani e spiega la difficile ripresa dei nostri consumi interni».

E la PA rallenta ancora i pagamenti. I debiti dello Stato verso le aziende sono costati 4,1 miliardi nel 2017.

E la PA rallenta ancora i pagamenti. I debiti dello Stato verso le aziende sono costati 4,1 miliardi nel 2017.

di Antonio Signorini

Cambiano maggioranze e governi, ma i ritardi nei pagamenti restano una costante della nostra pubblica amministrazione. Contro lo Stato cattivo pagatore si è mossa la Commissione europea (e l’allora vicepresidente Antonio Tajani), c’è una legge che stabilisce limiti di tempo precisi e poi le promesse degli ultimi due premier prima di Giuseppe Conte. Ma una soluzione al problema non sembra a portata di mano e il conto che pagano le imprese continua a salire: 4,1 miliardi di euro nel 2017, tanti sono gli interessi passivi pagati dalle aziende per compensare i crediti non incassati.

Il punto lo ha fatto il Centro studi ImpresaLavoro diretto dall’imprenditore friulano Massimo Blasoni con un’analisi basata sull’ultima edizione dell’European Payment Report di Intrum Justitia e sui dati di Bankitalia. Tra il 2015 e il 2016 c’era stato una lieve riduzione dei tempi dei pagamenti. Da 131 si era passati a 95 giorni tra la fattura emessa dall’impresa o dal professionista e il saldo da parte dell’ufficio pubblico interessato. «Il dato ha ripreso nuovamente a salire nel 2017 facendo conquistare all’Italia il primato negativo in Europa», spiega il centro studi.

Dai 95 del 2016 siamo tornati a 103 giorni medi. Il confronto con il resto dell’Europa è impietoso. Il nostro valore attualmente supera di 18 giorni quello del Portogallo e di ben 31 giorni quello della Grecia, che l’anno precedente guidava la classifica con 103 giorni. In Spagna la Pa paga i fornitori mediamente 48 giorni prima dello Stato italiano, 49 la Francia, 61 giorni l’Irlanda, 71 la Germania.

La prova che non ci sono stati cambiamenti rilevanti è data dallo stock dei debiti commerciali della pubblica amministrazione. Dal 2014, quando Renzi promise di mettere fine al fenomeno, non ci sono stati grandi progressi. Nel 2017 il complesso dei debiti accumulati dalla Pa ammonta ancora a 57 miliardi di euro, appena 7 miliardi in meno rispetto all’anno precedente.

«Questo dato conferma quanto abbiamo denunciato a più riprese», denuncia ImpresaLavoro. «I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo». A pagare il conto per lo Stato cattivo pagatore sono ancora una volta le aziende. La conseguenza è «un dato gravissimo per tutte le imprese italiane», denuncia Blasoni. «Questo ritardo sistematico è infatti costato loro la bellezza di 4,172 miliardi di euro, cifra generata dagli interessi passivi dovuti per anticipare il credito necessario a pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi». Nel decreto Dignità è passata la proroga della compensazione tra debiti e crediti verso la Pa, grazie all’iniziativa di Simone Baldelli di Forza Italia. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani ha ricordato che è possibile chiedere di scorporare il pagamento dei debiti commerciali dai limiti del debito pubblico.

Blasoni chiede al governo di fare di più, visto che Lega e M5s sembravano sensibili al tema: «Ci aspettiamo che il nuovo ministro dello Sviluppo economico Di Maio vorrà dare al più presto un seguito concreto agli impegni assunti in campagna elettorale».

La bolletta energetica delle famiglie è cresciuta dell’8,7% in 7 anni

La bolletta energetica delle famiglie è cresciuta dell’8,7% in 7 anni

Solo in sei Paesi europei si spende più che in Italia Pesano molto tasse e accise • Negli ultimi sette anni la bolletta dell’energia elettrica delle famiglie italiane è lievitata, confermandosi una delle più pesanti in Europa. Dal 2010 al 2017 il costo dell’energia per accendere gli elettrodomestici è cresciuto dell’8,7%. È il risultato di una ricerca del centro studi ImpresaLavoro, che ha elaborato i dati Eurostat.

Rispetto a sette anni fa, il prezzo dell’energia domestica è diminuito solo in otto paesi su 28 monitorati: Ungheria (-31,0%), Malta (- 19.9%), Paesi Bassi (-12,3%), Slovacchia (-8,9%), Lussemburgo t-6,9%), Lituania (- 6,3%), Cipro (-4,9%) e Repubblica Ceca (-3,9%).

L’aumento dei prezzi non riguarda dunque solo l’Italia. Se si guarda alle grandi economie del continente, la bolletta è diventata più pesante in Francia (+30,9%), Regno Unito (+27,8%), Germania (+26,7%) e Spagna (+25,0%). Aumenti da record, invece, in Lettonia (+51,1%), Grecia {+48,7%), Belgio (+44,3%) e Portogallo (+38,9%).

Se l’incremento dei prezzi è stato più contenuto nel nostro Paese, rispetto ad altri, questo non significa che gli italiani paghino di meno rispetto agli altri cittadini europei. Il costo dell’energia a fini domestici in Italia, Infatti, è inferiore solo a quello di Germania, Danimarca, Belgio, Irlanda, Portogallo e Spagna.

Nello Stivale i prezzi sono passati da 0,1943 euro per kWh nel 2010 a 0,2111 kWh nel 2017. Stimando nel 2017 un consumo medio annuo per famiglia di 3.199 kWh si ottiene così per ogni famiglia una bolletta elettrica di 675 euro su base annua.

Se invece la stessa famiglia si trovasse a vivere nei Paesi Bassi risparmierebbe 176 euro all’anno, 160 euro se vivesse in Slovenia, 124 se vivesse in Francia e 96 euro se vivesse nel Regno Unito. In Germania, invece, il conto da pagare sarebbe molto più elevato: la bolletta teutonica peserebbe infatti 300 euro in più. A rendere più salato il conto che devono pagare gli italiani sono soprattutto le tasse e le accise, che costituiscono da sole il 37% del prezzo finale. La loro incidenza risulta più elevata solo in Danimarea (68,2%), Germania (54,5%), Portogallo (51,6%), Slovacchia (41,9%), Austria (37,9%) e Grecia (37,3%). II fisco pesa invece meno nella bolletta delle famiglie che vivono in altre economie c o n t i n e n t a l i : Francia (35,5%), Regno Unito (25,8%) e Spagna (21,4%).

«Nel nostro Paese il mercato dell’energia elettrica è stato liberalizzato dal 1 luglio 2007», osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di Impresa- Lavoro, «ma le bollette non sono affatto calate: un paradosso tutto italiano. Tra poco è prevista la fine del regime della maggior tutela (per chi ha mantenuto il proprio storico fornitore di energia) e il passaggio obbligatorio al mercato libero». Si tratterebbe questa, secondo Blasoni, «di una spada di Damocle: coloro che entro quella data non avranno provveduto autonomamente al passaggio a un fornitore sul libero mercato potrebbero confluire nel cosiddetto “servizio di salvaguardia” che già oggi prevede costi maggiori di quelli praticati in regime di maggior tutela. Ciò al fine di ridurre al minimo la permanenza in questo tipo di servizio e scegliere quindi un nuovo fornitore. Un provvedimento poco chiaro che distorcerà il mercato e che inciderà ulteriormente sul bilancio delle famiglie italiane». La liberalizzazione totale del mercato doveva partire nel luglio 2019, ma la maggioranza ha votato a favore di un emendamento al decreto Milleproroghe che rinvia di un anno ìa fine dei prezzi di maggior tutela per l’energia elettrica e il gas. A far scattare lo slittamenti dei termini il ritardo nel processo di implementazione della riforma e i dubbi politici sulla necessità di chiudere d’ufficio l’era dei prezzi tutelati. Ancora due anni quindi di mercato a maggior tutela, dove le tariffe vengono stabilite ogni tre mesi dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico in base alle quotazioni internazionali degli idrocarburi.