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La buona e la cattiva spesa pubblica

La buona e la cattiva spesa pubblica

di Paolo Ermano

Riassunto

La spesa pubblica in Italia ha rappresentato uno strumento fondamentale per sostenere l’economia in anni di caduta del PIL. Questo centro studi più volte ha sottolineato l’importanza di ridurre l’impegno pubblico. Purtroppo è un fatto che l’impegno pubblico negli ultimi 15 anni sia aumentato significativamente, ben oltre quanto il pubblico si possa immaginare.

Entrate o uscite?

Spesso le parte in campo nel gioco della politica sostengono che la spesa pubblica è troppa o incide solo in parte allo sviluppo del Paese; che la spesa pubblica è male indirizzata o che abbiamo per fortuna servizi pubblici di prima qualità; che le tasse sono alte o che le tasse sono alte solo per chi le paga. Altri argomenti, non sempre ben strutturati, vengono avanzati ogni volta che si discute sul peso che dovrebbe avere il pubblico nell’attività economica. La misura più utilizzata per valutare l’impatto dello Stato sull’attività economica è il Total Tax Rate che, dietro un’espressione inglese di sicuro impatto, cela un semplice rapporto fra il totale delle entrate pubbliche e il PIL. Questa è una misura efficace per l’agone politico ma poco significativa perché non dice alcune cose importanti: primo fra tutte, chi contribuisce alle entrate, le imprese o i dipendenti, i consumi o i redditi, i ricchi o i poveri; secondo, non fornisce alcuna indicazione su come verranno utilizzate queste risorse, se per ridurre il debito, per rilanciare gli investimenti, per pagare pensioni inique o per mantenere enti o funzioni obsoleti se non dannosi.

Per contribuire a capire meglio come si stia muovendo il nostro Paese in questi anni di cambiamenti strutturali delle economie e delle società, molto più interessante è andare ad analizzare la spesa pubblica. E’ qui che si annidano l’altra parte delle informazioni sulle azioni messe in campo dalle varie amministrazioni pubbliche (nazionali, regionali o locali) per fronteggiare il cambiamento. Entrare nei dettagli della spesa è un’attività molto complessa resa però più semplice dal dettagliato lavoro svolto dalla Ragioneria Generali dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali (CPT). Attraverso una ricostruzione puntuale delle voci di entrata e di spesa divise per settore e aree amministrative, i CPT danno la possibilità a chi interessato di analizzare in maniera puntale l’attività dello Stato.

Quanto incide la spesa?

Per quanto riguarda la spesa, i CPT ci permettono di valutarne l’ammontare totale e diversi tipi di parziali secondo il principio contabile di competenza per cassa: vengono registrate le spese nel momento in cui l’Amministrazione pubblica eroga i fondi ad una controparte. Così, se andiamo a vedere com’è variata la spesa pubblica negli ultimi 10 anni, ci accorgiamo di un suo aumento sia in termini assoluto che in termini pro-capite (tabella 1).

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Lo Stato è presente e incide sulla nostra vita più di quanto possiamo immaginarci: si tenga conto che dal 2005 al 2014 la spesa pubblica pro-capite è crescita di più di €1.600. Per averne un’idea prendiamo il dato sulla crescita del PIL e sulla crescita della spesa pubblica. La tabella 2 mette ben in luce qual è il contributo della variazione della spesa sulla crescita del PIL (1).

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Nel confronto fra le variazioni del PIL e della spesa effettiva, si osserva come in alcuni anni la crescita del PIL sia stata ottenuta sostanzialmente modulando la spesa pubblica. Si prenda ad esempio il tasso di crescita nel 2008: senza una vigorosa iniezione di denaro pubblico la crescita dell’economia si sarebbe attestata ad un -4,5%; così, nel 2014 la anemica crescita dello 0,4% si è ottenuta in un momento di riduzione della spesa effettiva: con le stesse risorse pubbliche del 2013 si sarebbe ottenuto una crescita superiore al 2,5%.

Troppo pubblico?

Ben venga, a parere di chi scrive, la spesa pubblica se ha una funzione contro ciclica di tipo keynesiano: quando i privati non generano reddito, l’intervento dello Stato a sostegno della domanda può essere funzionale alla ripresa economica. Intervento che però deve essere modulato e ben indirizzato; in caso contrario il rischio è quello di trovarsi dipendenti dalla spesa pubblica, una dipendenza difficile da eradicare (tabella 3). Un dato su tutti: come già accennato, mentre la spesa pubblica pro-capite aumentava di €1600 fra il 2005 e il 2014, il PIL pro-capite cresceva della metà.

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Dalla tabella si evince chiaramente come la componente generata dall’attività privata e non da attività pubbliche (una distinzione utile più al ragionamento che corretta dal punto di vista sostanziale) si è progressivamente ridotta: se nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 siamo al 45%.
Un bel problema, soprattutto se l’obiettivo è, ad esempio, quello di ribaltare queste proporzioni, portando il pubblico al 45% e il privato al 55%.

Conclusioni

La presenza della spesa pubblica come generatore del PIL è maggiore di quanto si possa attendere. Questa considerazione deve far riflettere quella qualità della spesa e sulla sua pervasività in maniera più incisiva e costruttiva di quanto si faccia ora. Uno dei problemi è che la discussione politica e tecnica affronta la questione da prospettive che servono a colpire il pubblico, più che a formare un’opinione strutturata basata sui dati. Per questo l’utilizzo dei CPT, insieme ai molti altri importanti strumenti messi a disposizione del pubblico negli ultimi anni (un plauso ai vari enti che si sono prodigati per aumentare la trasparenza della cosa pubblica), rappresentano un valido strumento per sminare diversi luoghi comuni sul ruolo dello Stato nella nostra economia.


(1) Ricordiamo che il PIL è formato dalla somma di alcune voci che caratterizzano l’impiego di risorse in un Paese. Ricordando l’equazione principale della macroeconomia che viene insegnata il primo anno di ogni corso di laurea in economia, il PIL è dato dalla somma di: consumi, investimenti privati, spesa pubblica (consumi e investimenti pubblici), bilancia dei pagamenti. Ove una componente si riduca, per mantenere costante il valore del PIL è necessario che aumenti un’altra componente

Debiti PA: lo stock ammonta ancora a 61,1 miliardi

Debiti PA: lo stock ammonta ancora a 61,1 miliardi

Nonostante i reiterati annunci del premier Matteo Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione non ha ridotto i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Secondo la stima di ImpresaLavoro, su dati Intrum Justitia, lo scorso 31 dicembre questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014).

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Questo dato non fa che confermare quanto denunciato a più riprese dal Centro studi ImpresaLavoro: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare (e solo in parte) i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti nel 2015 è costato alle imprese italiane la cifra di 5,4 miliardi (in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014). Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale (pari all’8,84% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti.

Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra PA mantiene dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri principali partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti in media 131 giorni: 16 giorni più della Grecia, 33 giorni più della Spagna, 55 giorni più del Portogallo, 73 giorni più della Francia, 91 giorni più dell’Irlanda, 101 giorni più del Regno Unito e addirittura 116 giorni più della Germania.

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Capezzone (Cr): “Se il Governo si occupa di banche, i titoli crollano”

Capezzone (Cr): “Se il Governo si occupa di banche, i titoli crollano”

Daniele Capezzone*

Qualcuno dica a Renzi che i titoli bancari continuano a crollare. Più il Governo annuncia di “occuparsi” di banche, più c’è caduta libera… Questo dimostra la chiara sfiducia dei mercati verso l’interventismo politico in generale, e verso l’interventismo politico di questo Esecutivo in particolare.

*Deputato dei Conservatori e Riformisti

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

di Cesare Damiano*

Il nostro obiettivo è cambiare la riforma Fornero. E il tema essenziale è quello della flessibilità in uscita: la nostra parola d’ordine è “agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”. Il sistema previdenziale ha bisogno di molte correzioni, in parte dovute a veri e propri errori, come nel caso delle ricongiunzioni, causato da una scelta sbagliata del Governo Berlusconi. Modifiche vanno anche apportate per quanto riguarda i lavori usuranti e i lavoratori precoci, riconoscendo che le attività manuali e più faticose hanno bisogno di un riconoscimento particolare perché la loro aspettativa di vita è mediamente più breve.

Nel prossimo Documento di Economia e Finanza che verrà presentato dal Governo ad aprile, dovrà esserci traccia del tema della previdenza: in caso contrario sarebbe disatteso l’impegno del premier Renzi di fare del 2016 l’anno della flessibilità.

*Presidente della Commissione Lavoro della Camera

Per 11 volte in 14 anni il governo ha previsto una crescita del Pil che non c’è stata

Per 11 volte in 14 anni il governo ha previsto una crescita del Pil che non c’è stata

Tredici errori su quattordici: con 11 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto. Il Centro studi ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica del governo, dal 2002 al 2015. E le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse.

Dai dati raccolti da ImpresaLavoro emerge con chiarezza come – a parte che in tre casi (2006, 2007 e 2010) – le previsioni del governo siano sempre state troppo ottimistiche. Il caso più eclatante è quello che riguarda il 2009, quando a fronte di una previsione di crescita dello 0,9% effettuata un anno prima, il Pil è in realtà calato di 5 punti percentuali e mezzo. Ma non è stata soltanto la crisi a mettere fuori strada gli estensori dei documenti di programmazione economica: nel 2003, invece di crescere del 2,9% il Pil è salito soltanto dello 0,2%; nel 2012, invece di crescere dell’1,3% è addirittura calato del 2,8%. E scarti sostanziali tra previsioni e realtà – con le previsioni sballate sempre per eccesso – sono arrivati nel 2002 (-1,9%), 2008 (-2,9%), 2011 (-1,4%), 2013 (-2,2%) e 2014 (-1,7%).

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Questa distonia tra le ipotesi del governo e i numeri dell’economia reale non può essere spiegata soltanto con una volatilità intrinseca che rende le previsioni molto complicate. Se questa fosse l’unica spiegazione, infatti, alle frequenti sopravvalutazioni dei dati si sarebbe dovuta accompagnare anche una sottovalutazione meno rara di quanto in realtà è accaduto. Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che putroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 14).

Fatto 100 il Pil del 2001, se le previsioni del governo si fossero avverate, il Prodotto interno lordo del nostro Paese sarebbe dovuto crescere del 23,75% rispetto a quindici anni fa. In realtà, invece, il Pil italiano è fermo al 97,84% di quello del 2001.

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«Questi scostamenti dalle previsioni sono preoccupanti – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – perché è proprio su ipotesi di questo tipo, spesso per di più pluriennali, che si basano le simulazioni di sostenibilità del nostro debito pubblico e del nostro sistema pensionistico. Ma se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?».

 

Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

di Giuseppe Pennisi*

Per oltre tre lustri ho scritto il capitolo sulle privatizzazioni del rapporto annuale sulla liberalizzazione della società italiana dell’Associazione Società Libera. È parso evidente sin dalla fine degli Anni Novanta che nel processo di privatizzazione molta poca attenzione è stata alle partecipate delle autonomie locali, spesso con il pretesto che si trattava di materie unicamente di competenza delle Regioni, delle Province (quando esistevano) e dei Comuni. Sono stati compiuti studi egregi sul capitalismo municipale, alcuni pubblicati sulla stessa rivista del Ministero dell’Interno “Amministrazione Civile”.

Il tema è stato posto all’attenzione dei Governi dai vari Commissari alla spending review che si sono succeduti in questi anni. Ma ancora oggi non è chiaro quale sia il numero totale (si parla di circa ottomila, che il Governo in carica avrebbe voluto ridurre a mille). Numerose sono in perdita da anni o richiedono forti sovvenzioni per operare. Altre sono costituite unicamente da organi di governo, ossia i CdA, e da manager ma non hanno personale. È chiaro che sono una delle determinanti dell’enorme debito pubblico che frena l’Italia. È un’area dove, per fare pulizia, occorre utilizzare la scure non il bisturi.

* presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Migranti: nel triennio 2014-2016 l’emergenza sarà costata all’Italia 6,1 miliardi

Migranti: nel triennio 2014-2016 l’emergenza sarà costata all’Italia 6,1 miliardi

L’Italia ha ottenuto a Bruxelles uno sconto di 56,1 milioni di euro (da 281 a 224,9) per la sua quota parte del contributo di 3 miliardi che l’Unione europea verserà alla Turchia a fronte del suo impegno a regolare i flussi migratori dalla Siria. Il governo Renzi continua però a chiedere lo scomputo dal deficit delle spese che l’Italia ha già sostenuto e sosterrà per salvare e accogliere i profughi e clandestini: negli ultimi due anni 300mila persone sono già sbarcate sulle nostre coste e i nostri centri di accoglienza hanno ospitato e ospitano all’incirca 100mila migranti.

Ma a quanto ammonta effettivamente questo onere finanziario? Una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro rivela che nel triennio 2014-2016 l’emergenza migranti sarà costata all’Italia circa 6 miliardi 145 milioni (1 miliardo 399 milioni nel 2014, 2 miliardi 115 milioni nel 2015 e 2 miliardi 629 milioni nel 2016).

La voce di costo più importante è quella dell’accoglienza in senso stretto, quindi il vitto e alloggio dei soggetti per cui si è provveduto all’identificazione e all’inserimento nelle liste di coloro che hanno richiesto asilo: alla fine del 2016 l’importo complessivo sarà stato di 3 miliardi 668 milioni (più di 643 milioni nel 2014, quasi 1,3 miliardi nel 2015 e 1 miliardo 752 milioni nel 2016). Gli sbarchi avranno generato circa 87 milioni di altri costi per la primissima assistenza (trasporti, noleggio strutture presso i porti, acquisto di coperte, indumenti, etc.), ai quali vanno aggiunti 1,2 miliardi di costi militari (pattugliamento delle coste, rafforzamento delle frontiere, le missioni navali e aeree, contributi italiani alle missioni Frontex e EuroForNavMed).

Non vanno poi dimenticate le spese sanitarie (quasi 863 milioni) e quelle amministrative (141,6 milioni) per le istruttorie delle pratiche di richieste di asilo nonché per il gratuito patrocinio. Infine, andrà aggiunto nel conto complessivo quanto speso nel triennio dagli Enti locali (185 milioni) per sistemare le aree adibite all’accoglienza nonché il costo della popolazione carceraria immigrata irregolare e quello dei relativi rimpatri.

«Emerge con chiarezza che i costi per la gestione di questa emergenza stanno crescendo esponenzialmente di anno in anno. L’effetto è generato in parte dall’aumento degli sbarchi, in parte dalla lentezza con con cui il nostro sistema esamina le richieste di asilo e e dispone gli eventuali rimpatri» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Senza una vera politica europea di redistribuzione dei profughi tra tutti i Paesi rischiamo di ritrovarci con una pericolosa bomba nei nostri conti pubblici. L’Italia non può essere lasciata sola di fronte a questo dramma epocale».

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Un anno di governo Renzi: il fact checking definitivo passo dopo passo

Un anno di governo Renzi: il fact checking definitivo passo dopo passo

Angelo Romano, Antonio Scalari, Vincenzo Marino – La Gazzetta di Reggio

«I tempi delle riforme non possono più essere considerati una variabile indipendente», così aveva esordito Matteo Renzi, un anno fa, nel discorso di fiducia al Senato. Da qui, l’annuncio di un cronoprogramma che prevedeva una riforma al mese, che Valigia Blu ha seguito con il countdown . Poi il successo alle elezioni europee e il cambio di passo. Dalla frenesia di promesse con brevi scadenze al piano dei mille giorni , da verificare passodopopasso . A marzo 2014 il governo si presentò agli italiani con le slides della “Svolta Buona”. Molte le riforme e gli interventi previsti. Se alcuni provvedimenti, come il “bonus 80 euro”e il rafforzamento del fondo di garanzia per le PMI, sono stati rispettati, altri lo sono stati solo in parte. Per altri ancora, gli obiettivi che il governo si era proposto rimangono lontani, come per il piano per l’edilizia scolastica o lo sblocco dei debiti della Pa.

[…]

Marzo 2014: «Sblocco immediato e totale pagamento debiti PA, 68 miliardi entro luglio». Matteo Renzi, a Porta a Porta , promette di pagare tutti i debiti della Pubblica Amministrazione entro il 21 settembre. A Febbraio 2015, il Ministero dell’Economia annuncia che i pagamenti effettuati ai creditori ammontano a 36,5 miliardi. Secondo ImpresaLavoro si tratterebbe di meno della metà di quanto dovuto dalla Pubblica Amministrazione ai creditori.

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Prorogando il rinvio

Prorogando il rinvio

Davide Giacalone – Libero

Correre si corre, ma a prorogare e posticipare. Nelle stesse ore in cui l’attuazione della delega fiscale, approvata dal Parlamento un anno fa, veniva ulteriormente posticipata, al punto che della parte più sostanziosa se ne parlerà entro settembre, la Camera votava la fiducia al governo, posta sulla conversione in legge del decreto Milleproroghe. Un mostro che, oramai, accomuna tutti i governi e si ritiene normale esista. Quel decreto, però, scade fra dieci giorni, quindi ora si deve correre al Senato, e il cielo non voglia che non si proroghino i mille ritardi legislativi e governativi. Che non sono figli solo di svogliatezza e complicità, dato che molti devono i natali all’incapacità.

Pensate alla faccenda delle frequenze televisive, che qui abbiamo già raccontato: mentre giornali e pensatori venivano mandati fuori a giocare, discutendo di sconti e regali a questo o a quello, accadeva prima che con un decreto legge si smentisse un decreto legge, togliendo all’Autorità delle comunicazioni un compito che le si era assegnato, poi che si scoprisse non solo lo sgorbio che ne nasceva (come qui avvertito), ma che si pretendeva di far pagare l’affitto a quelli che non erano più gli affittuari (alle emittenti televisive anziché agli esercenti le reti), in una gara a chi commette l’errore più marchiano. Sicché s’è risolta la faccenda prorogando il passato, che almeno un gettito lo assicurava. E di storie come queste “a mille ce n’è nel mio cuore da narrar”, come avvertivano melodiose le “fiabe sonore” della nostra infanzia. Appunto: a mille-proroghe.

Ieri s’è detto, al Consiglio dei ministri, che i tre decreti legislativi in materia fiscale (catasto, fatturazione elettronica e internazionalizzazione delle imprese), non potevano essere discussi perché il ministro dell’economia era assente, impegnato con l’Eurogruppo. Se ne riparlerà fra una decina di giorni. Spero, almeno a testimonianza che l’intelligenza è sopravvissuta, che a qualcuno non sia sfuggita la perfida ironia: si potevano discutere i decreti fiscali alla presenza del ministro competente, ma tenuto all’oscuro di quel che contenevano (il celebre 3% quale esimente per l’avvio del procedimento penale in caso di evasione), ma non si possono discutere con lui assente, benché concordati. Se fosse vera una simile versione si sarebbe potuto procedere diversamente: i decreti venivano posti in discussione e varati, ove non vi fossero state obiezioni; mentre se ne sarebbe rinviata la discussione ove fossero sorti dei dubbi o dei contrasti. Il che risulta piuttosto difficile, visto che la volta scorsa manco s’accorsero di cosa c’era scritto, finché non fu fatto notare dai primi lettori del testo, ovviamente non componenti il Consiglio dei ministri.

Per il governo che corre e s’affretta, la formula qui proposta sarebbe stata più consona. Invece no, hanno rinviato. Come se il varo di un decreto fosse il parto (comunque non rinviabile) cui il futuro babbo intende assistere. La verità è più prosaica: come dimostra il pasticcio dell’imposta sul deposito in banca del denaro contante, che c’era eccome nei documenti preparatori, questi decreti sono il frutto d’insalsicciamenti in cui ciascuno porta il proprio ingrediente, scoprendosi poi che gli uni supponevano fosse un cotechino e gli altri un salame di cioccolata. Un tempo esisteva la regia di Palazzo Chigi, per le stesure definitive. Ora si deve rinviare, per evitare altri scivoloni. Tutto qui.

Peccato che se t’inventi il nome di “certezza del diritto”, per giunta fiscale, e poi metti in scena solo la certezza del rinvio, l’impressione che ingeneri è che il diritto sia nebbioso e incerto, consegnando tutti in balia di toghe che s’esprimono negli anni. Il che nuoce gravemente alla salute produttiva. Oltre a scoraggiare chi voglia investire. Per sfortunata coincidenza, inoltre, tutto questo accade assieme ai supplementari della partita greca. La sostanza è definita, l’apparenza va sistemata. Non era un giallo di Christie, Doyle o Simenon, in cui si deve scoprire come va a finire e chi è l’assassino, semmai una trama alla Levison e Link (il tenente Colombo): sai già chi è l’assassino, lo spettacolo consiste nel vedere come ci si arriva. Ecco, ad Atene, dopo avere riempito i giornali di moda maschile e fatto scrivere fiumi di amenità, hanno scoperto l’ovvio: se rinvii sempre le cose da farsi, o addirittura le neghi, il tempo che perdi non passa in cavalleria, sei tu che passi alla cassa per pagarlo.

Le riforme solo annunciate non convincono più nessuno

Le riforme solo annunciate non convincono più nessuno

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I gufi si stanno accanendo sul pil 2015. Dopo Bankitalia e Standard&Poor’s anche il Fondo monetario internazionale ha più che dimezzato le sue previsioni sull’anno in corso portandole a un +0,4%. L’agenzia di rating, a inizio dicembre, nel motivare il downgrade aveva scritto «crescita perennemente debole» e ora il Fmi chiarisce che neppure nel 2016 il pil raggiungerà quota 1%, fermandosi a un misero 0,8%. Insomma l’Italia dei troppi governi emergenziali e di larghe intese, cioè di intese politiche che vanno oltre i risultati delle urne, rimane buona ultima in termini di crescita economica.

Il confronto con la Spagna deve far riflettere. Quello iberico è l’unico pil rivisto al rialzo dal Fmi per il 2015 al +2% a riprova che le riforme dei governi monocolore politici spagnoli sono state efficaci. Madrid, del resto, non ha solo annunciato ma ha anche fatto: abolite le camere di commercio; privatizzata buona parte della sanità; tagliata la tredicesima al pubblico impiego; riformato per tutti e non solo per i neoassunti il mercato del lavoro; tagliate le aliquote sugli utili delle imprese. L’economia spagnola è oggi profondamente diversa da quella del 2008.

Perché in Italia neppure l’ultima legge di Stabilità, presentata dal duo Renzi-Padoan come un taglio storico delle tasse, è riuscita a stimolare il pil? È abbastanza evidente che con queste previsioni di crescita al rating dell’Italia basta un mini incidente di percorso per sprofondare nella categoria dei titoli spazzatura dai quali i Btp sono separati solo da un notch di giudizio. E ciò dovrebbe preoccupare, perché gli agenti del mercato segnalano di non credere più nella capacità riformista italiana poiché tra quanto annunciato a ripetizione dai governi recenti del Belpaese e quanto poi realizzato ci passa troppa differenza. I contenuti delle slide alle primarie sono rivoluzionari, si annacquano una volta preparate a Palazzo Chigi e diventano un brodino inutile a curare la malattia quando vengono pubblicate sulla gazzetta ufficiale. Adesso le aspettative hanno imparato razionalmente a fare la tara alle slide italiche e si incorporano così nelle previsioni sul pil futuro depotenziandone la probabilità di crescita.

Ovvio che un paese come l’Italia, che deve ripagare uno stock di debito pubblico importante, non può permettersi di rinviare al 2017 o al 2018 la possibilità di crescere almeno dell’1%. È vero che il Premier ha contro parte dell’establishment, della burocrazia e del suo stesso gruppo parlamentare, ancora espressione della segreteria welfarista di Bersani, ma è altrettanto vero che se la crisi italiana non fosse stata tanto profonda e critica mai Renzi avrebbe potuto bruciare le tappe verso il potere. Da lui gli italiani e gli investitori non si aspettano quattro slide ma riforme davvero mirabolanti.