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Poca chiarezza su fisco e lavoro, consumatori e imprese disorientati

Poca chiarezza su fisco e lavoro, consumatori e imprese disorientati

Andrea Tavecchio – Corriere della Sera

Per chi vive il mondo delle imprese il dato negativo del Prodotto interno lordo (Pil) nel secondo trimestre del 2014 non è una sorpresa: lo si vedeva già negli andamenti di questi mesi delle aziende legate al mercato interno. In Italia, purtroppo, la domanda rimane molto debole. Il brutto dato comunicato ieri dall’Istat rende più complicato il percorso che dobbiamo fare e più lontano l’obiettivo – necessario e prioritario – di tornare al più presto alla crescita economica. L’Italia non è in grado di reggere ancora a lungo una crisi che dura da sette anni, di cui gli ultimi tre drammatici, soprattutto per l’occupazione.

Nessuno ha la bacchetta magica, specie in un Paese con il debito pari al 130 per cento del Pil – ed è prevedibile che verso il governo si alzino critiche strumentali. È indubbio, però, che l’esecutivo abbia bisogno di chiarire quale visione ha in campo economico e poi agire in modo concreto e conseguente. La mancanza di chiarezza di questi mesi, specie in campo fiscale e del mercato del lavoro, ha sicuramente disorientato consumatori e imprese. Non è coerente, ad esempio, voler far ripartire la domanda interna e alzare – in modo non selettivo – la tassazione sulle rendite finanziarie. Quest’ultima, per il piccolo imprenditore, in Italia è già altissima: bisogna abbassarla, non aumentarla. Così come non è accettabile per famiglie e imprese il balletto su Imu e Tasi. Anche il cosiddetto “bonus Renzi” da 80 euro, pur apprezzabile nello spirito, è tecnicamente infelice perché non copre i non protetti, mentre viene garantito anche a chi ha redditi familiari ingenti.

Il governo Renzi sta giocando la sua partita, specie in questi ultimi mesi, sulla necessità di modificare i meccanismi decisionali per poter cambiare poi – finalmente – la politica e le policy che questa elabora. Speriamo. Ma per tornare alla crescita economica non esistono scorciatoie: bisogna dare fiducia alle famiglie e alle imprese. Senza una visione e una agenda – in campo fiscale ed economico – chiara, concreta e coerente, questo però è impossibile. Attenzione, si rischia l’avvitamento.

Non basta più tirare a campare

Non basta più tirare a campare

Giuliano Cazzola – Il Tempo

Quando Giulio Tremonti, ancora “folgorante in soglio”, osò affermare che con la cultura non si mangia, fu subissato giustamente di critiche. Eppure, adesso, tutti sembrano voler credere che la manomissione del Senato potrà risolvere i problemi dell’economia e riavviare uno sviluppo che non decolla. Del resto, che cosa possiamo aspettarci da un premier che, pochi giorni or sono, ha dichiarato: «Che la crescita sia dello 0,30, dello 0,80 o dell’1,5% non fa alcuna differenza per le persone»? Oggi l’Istat farà la fotografia dei principali indicatori economici del Paese. Come reagirà il governo se i trend saranno – come si teme – peggiori del previsto? Molti dei nodi dei nostri problemi possono essere sciolti a Bruxelles. Ma il governo italiano è davvero impegnato, grazie al turno di presidenza, a mettere in cantiere nuove regole e politiche innovative o si accontenta di sistemare Federica Mogherini al posto di Lady Pesc, soltanto per avere l’occasione di un giro di poltrone in patria? Certo, è in arrivo la conversione in legge del decreto competitività che dovrebbe sbloccare finanziamenti in opere pubbliche, ma il Jobs act è slittato in autunno. E la questione dimenticata del Mezzogiorno? L’economia sommersa ha un peso decisivo in quelle realtà. E riesce a taroccare anche le statistiche sull’occupazione. L’evasione fiscale è la condizione per la sopravvivenza di pezzi di economia. Non sarà, allora, che la società meridionale non è in condizione di attenersi a regole, anche contrattuali, forzatamente uniformi? Tutti ne siamo consapevoli; ma piuttosto che accettare una realistica diversificazione, al limite del dumping sociale, preferiamo chiudere un occhio e tirare avanti così.

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Eugenio Scalfari invoca la Troika, ancorché nella versione buona (per una politica economica espansiva, e non restrittiva), vuol dire che le cose vanno proprio male per l’economia italiana. Se è vero che il problema è di tutta l’eurozona, l’Italia è comunque il fanalino di coda: basta fare il confronto con Grecia e Spagna, che fino a un anno fa erano messe peggio di noi.

Questo vuol dire che l’Italia, dal governo Monti in poi, ha sbagliato tutto. Con l’aumento stellare della tassazione casa (triplicata); la controriforma del mercato lavoro; la riforma sbagliata delle pensioni; l’aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese, per quanto riguarda Monti e Letta. E con il riformismo confuso, impotente, clientelare, inadeguato del governo Renzi: basti pensare al Jobs act; alla controriforma Madia della Pubblica amministrazione; allo sconquasso dei conti pubblici causato dal “bonus Irpef” di 80 euro; alla Spending review impantanata e alla svendita, senza logica e senza un piano, dei propri gioielli di famiglia (si veda, da ultimo, la cessione del 35% del capitale sociale di Cdp Reti, che contiene il 30% di Snam e il 29% di Terna, al gruppo che controlla le reti energetiche cinesi). Su quest’ultimo punto, del programma di dismissioni del ministro Vittorio Grilli, per un punto di Pil, pari a 16 miliardi, si è persa traccia. Così come restano ad oggi irrealizzati gli 11 miliardi all’anno di dismissioni contenuti nel Def 2014 di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan.

In quasi 3 anni, passati invano, 3 distinti governi, tutti caratterizzati dal fatto di non essere stati eletti dal popolo, non hanno voluto, o non sono stati capaci di fare le cose che si dovevano fare, guarda caso contenute nella lettera che il 26 ottobre 2011 il governo Berlusconi inviò, ricevendo tanti applausi, ai presidenti di Commissione e Consiglio europeo. Misure di modernizzazione e rilancio dell’economia italiana in parte approvate a novembre 2011 con il maxiemendamento alla Legge di stabilità per il 2012 (ultimo atto del governo Berlusconi), ma poi, purtroppo, a causa dei tanti cambi di esecutivo, non attuate (si pensi alla mobilità obbligatoria per il pubblico impiego). Oggi le cose da fare sono chiare a tutti, perfino a Eugenio Scalfari, che invoca la Troika, delegittimando, di fatto, Renzi.

I dati parlano chiaro: per mantenere gli impegni presi con l’Europa nel 2014 mancano tra 29 e 32 miliardi di euro. E per mantenere le promesse che Renzi ha fatto agli italiani bisognerà trovare altri 37 miliardi nel 2015.

IL PIANO BERLUSCONI PER USCIRE DALLA CRISI

1) Attacco al debito pubblico ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia, per una strategia credibile

Innanzitutto, per sopperire alla più grave debolezza italiana e rafforzare la nostra posizione in Europa, si rende necessario, dunque, un intervento straordinario, ma duraturo, di aggressione del debito pubblico. Una riduzione strutturale del debito sovrano dell’ordine di 400 miliardi (circa 20-25 punti di Pil) in 5 anni: 100 miliardi derivano dalla vendita di beni pubblici per 15-20 miliardi all’anno (circa 1 punto di Pil ogni anno); 40-50 miliardi (circa 2,5 punti di Pil) dalla costituzione e

cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi (circa 1,5 punti di Pil) dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute all’estero (5-7 miliardi all’anno); 215-235 miliardi dalla vendita di beni patrimoniali e diritti dello Stato disponibili e non strategici ad una società di diritto privato, che emetterà obbligazioni con warrant. Altro che svendite per fare cassa. Il segnale strategico che si vuol dare con un piano di questo tipo è quello di aumentare l’efficienza, la produttività e la competitività dell’economia italiana; ridurre il peso dello Stato; liberare risorse oggi patologicamente impiegate per il servizio del debito. Vendita del patrimonio pubblico immobiliare, al centro come in periferia, liberalizzazioni e privatizzazioni delle Public utilities, riduzione del peso delle industrie pubbliche, sdemanializzazione nel territorio, emersione del sommerso, per trasformare il capitale morto, come direbbe l’economista peruviano Hernando De Soto, in capitale vivo. E per avere, come vedremo, lo spazio necessario e sufficiente per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, innescando così il circuito virtuoso meno debito-meno tasse-più crescita.

Ma l’attacco stabile e duraturo al debito pubblico, da solo, non basta: per scongiurare l’incertezza e l’ingovernabilità e per avere un’Italia credibile in Europa e sui mercati finanziari, ad esso occorre

accompagnare una parallela verticalizzazione delle istituzioni, che preveda l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e assicuri una guida stabile e democraticamente legittimata alla politica italiana. Altro che l’attuale riforma del Senato. Attacco al debito ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia. Un doppio segnale fortissimo. L’operazione nel suo complesso avrebbe in sé tutta la forza, tutta l’etica, di una vera rivoluzione: si avvierebbe

finalmente un meccanismo positivo di modernizzazione del paese per essere europei a 360 gradi, che i mercati non potrebbero non apprezzare, sia da un punto di vista finanziario sia da un punto di vista di credibilità politico-istituzionale. Un grande, decisivo investimento collettivo nel senso di dare certezze, agli italiani innanzitutto, ai nostri severi (ed egoisti) partners europei, ai mercati, per tirare fuori il paese dalla crisi, dal pessimismo, dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze: debito e cattiva politica. Una grande occasione non solo per l’Italia, maanche per tutte quelle forze politiche e sociali che se ne faranno interpreti.

2) Riduzione della pressione fiscale

Una volta avviato il piano di riduzione strutturale del debito pubblico, andrebbe parallelamente avviato un grande piano di riduzione della spesa pubblica, destinando le risorse così ottenute alla riduzione, di pari importo, della pressione fiscale. Nel programma elettorale 2013 della coalizione di centrodestra, che 10 milioni di italiani hanno votato, Berlusconi ha proposto di ridurre di 80 miliardi in 5 anni (16 miliardi all’anno) la spesa pubblica corrente (attualmente pari a circa 800 miliardi) e di ridurre di pari importo la pressione fiscale. Con l’ambizioso obiettivo di portare la nostra economia a crescere a un ritmo di almeno il 2%, stimolando così i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Con più gettito e più risorse per gli ammortizzatori sociali. Quindi più benessere. Se si riduce di 16 miliardi all’anno la spesa pubblica, di pari importo andrebbe ridotta la pressione fiscale, con provvedimenti per 8 miliardi all’anno a favore delle famiglie e per altri 8 miliardi all’anno a favore delle imprese. Il tutto per portare, in 5 anni (durata di ogni legislatura) dal 45% al 40% la pressione fiscale in Italia.

3) La politica economica europea

Questa è la vera Spending review: attacco strategico e strutturale al debito pubblico, taglio strutturale della spesa corrente, e pari riduzione della pressione fiscale per le famiglie e per le imprese. Cui aggiungere la richiesta, a livello europeo, non di una generica “maggiore flessibilità”, che non porta a niente, ma di una nuova politica economica nell’intera area dell’euro. A partire dalla reflazione in Germania; le riforme simultanee in tutti gli Stati dell’eurozona; l’accelerazione sulle 4 unioni: bancaria, di bilancio, politica e economica (significa Euro bond, Union bond, Stability

bond, Project bond). Solo in questo modo potranno crearsi le condizioni per consentire alla Banca centrale europea di utilizzare al massimo gli strumenti di politica monetaria previsti dal suo Statuto. Fino al Quantitative easing all’europea, di cui abbiamo tanto bisogno. Anche per deprezzare l’euro di almeno il 20%, in modo tale da far riacquistare competitività all’intera eurozona. E per questa strada “domare” i mercati.

4) Riforma del mercato del lavoro, Tfr in busta paga e pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione

Infine, la riforma del mercato del lavoro. Tutto parte dalla lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto 2011, ove, pur riconoscendo gli sforzi dell’esecutivo Berlusconi sul tema e, in particolare, la giusta direzione in cui andava l’accordo del 28 giugno 2011 tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, si chiedeva l’introduzione di una vera flessibilità nel mercato del lavoro, attraverso “un’ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”, nonché “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

Realizziamo questi due punti, fondamentali per far funzionare veramente il mercato del lavoro, e avremo il plauso non solo dell’Europa e dei mercati, ma soprattutto dei nostri giovani, delle nostre famiglie, delle nostre imprese. A tutto questo andrebbe aggiunto uno stimolo immediato per riportare liquidità (fino a 6 miliardi di euro) nelle casse delle imprese e nelle tasche dei lavoratori, da un lato riassegnando alle aziende con più di 50 dipendenti la quota di Tfr non utilizzata per la previdenza complementare (attualmente accantonata presso l’Inps), dall’altro consentendo a tutti i

lavoratori di poter reclamare, in costanza di rapporto di lavoro e senza doverla giustificare, una anticipazione fino al 100% del proprio Trattamento di fine rapporto. Per quanto riguarda le imprese, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, per i 64 miliardi ad oggi restanti, fornirebbe ulteriore liquidità, di cui mai come oggi c’è bisogno. Insieme al Tfr, una manovra espansiva di politica economica.

Questo è il piano Berlusconi contro l’autunno nero che verrà. Renzi lo adotti per uscire dalla crisi. Se c’è stato e c’è ancora dialogo sulle riforme istituzionali, per le quali l’apertura di credito del presidente Berlusconi nei confronti del presidente Renzi è stata grande e generosa; e se la riforma elettorale è ancora in discussione (anche se dobbiamo ricordare che la gente non vive né di riforma del Senato né di riforma elettorale), dopo il fallimento della sua strategia di politica economica, Renzi mostri la stessa generosità che con lui ha avuto Berlusconi in tema di riforme costituzionali. Adotti il suo piano. Uno scambio alla luce del sole, per il bene del paese.

Non farsene una ragione

Non farsene una ragione

Giuseppe De Rita – Corriere della Sera

Tempo fa per andare oltre chi dissentiva o si allontanava da lui, Matteo Renzi usò un orgoglioso e definitivo «ce ne faremo una ragione». Sapeva che avrebbe ripetuto altre volte quella frase, ma certo non si aspettava che essa sarebbe diventata una ricorrente litania nazionale.
Se la ripresa, l’occupazione e i consumi non tornano a crescere, ce ne faremo una ragione; se crescono il «nero», l’economia sommersa e l’evasione fiscale, ce ne faremo una ragione; se non riusciremo a comprimere il nostro debito pubblico, ce ne faremo una ragione; se la tecnoburocrazia europea ci prospetterà una qualche forma di rigoroso commissariamento, ce ne faremo una ragione; se dovremo accettare l’influenza di poteri forti e trasversali (europei e globalizzati, cinesi e tedeschi, bancari e telematici, ecc.), ce ne faremo una ragione; se la classe dirigente risulterà sempre più inadeguata, ce ne faremo una ragione; se per effetto di alcune riforme non avremo più Camere di commercio, Province, Comunità montane, Prefetture, ce ne faremo una ragione; se vinceranno le riforme di verticalizzazione del potere, ce ne faremo una ragione; se la questione meridionale uscirà dall’agenda del Paese, ce ne faremo una ragione; se qualche nostra impresa storica prescinde dall’Italia, ce ne faremo una ragione; se aumenta l’entità delle immigrazioni (un lago ormai, non un flusso) ce ne faremo una ragione; se il nostro sistema continua a occupare gli ultimi posti nelle graduatorie internazionali di modernità ed efficienza, ce ne faremo una ragione.
Chiunque frequenti giornali e televisione potrebbe aggiungere altre situazioni esemplari, magari con qualche nobile negazione o correzione; ma nel complesso resta l’impressione di una società ironicamente apatica, quasi che le cose che ci capitano siano più grandi di noi, non contrastabili dalla nostra cultura, per cui rifuggiamo da un atteggiamento proattivo ed esprimiamo un realistico adattamento.
Si può quindi arrivare alla ipotesi che la frase di Renzi citata all’inizio non sia l’avvio di un’onda di moda, ma piuttosto la messa in circuito di un diffuso impotente disincanto. Forse il declino della lunga cavalcata del «fai da te» (che ha per decenni fatto da base allo sviluppo italiano) ha lasciato il campo a una forma sbiadita ed estenuata di soggettività individuale, che diventa un rinserramento in se stessi e un’apatica indifferenza, molto lontana da quell’orgoglio di essere artefici del proprio destino che ci ha supportato nel recente passato.
C’è spazio per invertire questa tendenza e riproporre quell’orgogliosa catena di impegni che ci ha fatto grandi nella seconda metà del secolo scorso? Non c’è dubbio che la giovinezza orgogliosa di un premier e la sua voglia di essere artefice solitario dei comuni destini sono un input giusto per far capire cosa si voglia anche dal sentire della gente. Ma di solito la gente non vede come proprio obbligato paradigma l’impeto di chi comanda, preferisce delegare, stare a guardare, aspettare, sommergersi in una moltitudine adattativa e deresponsabilizzata. È una prospettiva forse più grave degli avvisi di calamità che si rincorrono in queste settimane. E sarà anche più difficile farsene una ragione.

Bella sinistra

Bella sinistra

Davide Giacalone – Libero 25 luglio 2014

Il Paese è in crisi, impallato, non riesce a crescere e a scrollarsi di dosso la paura. Vero. Sono necessarie riforme strutturali, capaci di ridare potenza al motore. Giusto. La sinistra non deve restare legata ad anacronistici tabù, deve accorgersi che la globalizzazione ha cambiato le carte in tavola e deve tradurre i propri ideali in ricette assai diverse da quelle del passato. Parole sante. Ed ecco, dopo queste premesse, quel che ha in animo di fare il nuovo capo del governo, uomo di sinistra: a. sgravi fiscali alle imprese; b. diminuzione del costo del lavoro, per un totale di 40 miliardi; c. riduzione del debito pubblico per un ammontare di 50 miliardi in tre anni. Sono qui in piedi che applaudo. Quando avrò finito mi mangerò le mani, perché non è il capo del governo del mio Paese, ma della Francia.

Prendiamo quei tre punti, per misurare quanto il governo italiano sta andando in direzione opposta: 1. gli sgravi fiscali, sotto forma di bonus, sono andati a una parte dei lavoratori, non alle imprese che, invece, hanno visto crescere la pressione fiscale, a vario titolo (a fronte della leggera limatura del cuneo sono diminuite le deducibilità, aumentate le tasse sul risparmio, aumentate quelle sulle banche, gli immobili, gli investimenti energetici, etc.); 2. avendo dato il bonus il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato, non per le imprese, ma per il sistema Italia, il che, quindi, non ci ha fatto guadagnare produttività, mentre l’effetto sui consumi deve ancora vedersi; 3. non solo il debito pubblico sale, non solo non ci sono piani di abbattimento, ma la querula petulanza sull’elasticità e la flessibilità lasciano intendere che l’Italia preme sul tetto del deficit, che poi si traduce in debito crescente.

Qui ci siamo spesi per dimostrare, negli anni, quanto la condizione dell’Italia non fosse peggiore di quella di altri, anzi. Abbiamo più volte sottolineato quanto fragile sia la condizione della Francia e delle sue banche. Ma quando leggo le parole di Manuel Valls, capo del governo francese, misuro il loro vantaggio politico: hanno capito e si muovono nella giusta direzione. Noi animiamo la tragicommedia del Senato e facciamo finta di dimenticare che gli appuntamenti autunnali sono ineludibili, mentre i provvedimenti fin qui adottati sono sbagliati, o inutili. Il resto è mera declamazione.

Possibile che a palazzo Chigi non se ne rendano conto? Credo lo sappiano. Lo sanno al punto che hanno idee diverse e contrastanti, su quel che occorre fare. C’è la ricetta Padoan, destinata a trovare spazi di solidarietà in sede europea e internazionale. Quella Delrio, che lancia messaggi di consapevolezza e invita a non fare promesse che non potranno essere mantenute. C’è Calenda, che gradisce la cucina francese, rivendicando la sua coerenza (la riconosco), ma dimenticando che i governi hanno solo responsabilità collegiali e collettive, non individuali (quelle sono penali, tema diverso). Su tutti vola Renzi, che cerca la rissa per avere un colpevole da massacrare, nel frattempo sostenendo tesi più da campagna elettorale che da governo. Fin dall’inizio ha un solo partner, Berlusconi. Connubio che non s’incrina sul Senato, giacché non è la sensibilità costituzionale il loro forte, ma sarà messo alla prova sul terreno dell’economia. Che non può essere imbrogliato a sole parole.

Su quel terreno mi pare che l’atteggiamento italiano conta su un’unica sponda: se si dovesse arrivare alle maniere ruvide, se il trivio fosse fra far finta di non vedere che i conti italiani sono taroccati, costringere l’Italia a un’ulteriore botta fiscale, o, infine, prendere atto degli sfondamenti e avviare una procedura d’infrazione, se si arriva a quello allora il bersaglio diverrebbe la Banca centrale europea, e per essa Mario Draghi. Verrebbe messo su quel conto l’avere comperato tempo rivelatosi inutile. S’indebolirebbe chi, in Germania, ancora considera l’Ue un disegno da completarsi, non da scolorirsi. Con la Bce s’azzopperebbe l’unica cosa che ha funzionato. Può darsi che ciò non rompa l’asse Mineo-Minzolini, e manco quello Berlusconi-Renzi. Scasserebbe tutto il resto, però. Ove mai a taluno interessi. L’alternativa c’è. Valls ne è una dimostrazione. E su quello sì che il connubio sarebbe virtuoso. Meritevole d’essere accostato a quello che, in un lontano passato, tagliò gli estremismi e mise in sicurezza l’Italia.

Governo Renzi, i numeri del disastro: Pil, crescita, consumi, export e produzione industriale. Ecco perché l’Italia sta peggio di 6 mesi fa

Governo Renzi, i numeri del disastro: Pil, crescita, consumi, export e produzione industriale. Ecco perché l’Italia sta peggio di 6 mesi fa

Libero

L’effetto Renzi, se cominciato, è già finito. Questo dicono i numeri, snocciolati in un freddo ed allarmante elenco da tutti gli Istituti economici: Istat, Bankitalia, Bce. Al netto di proclami, promesse e aspettative alimentate dal governo, la verità è che l’Italia sta peggio di sei mesi fa e che la ripresa, più volte prospettata in primavera a turno dal premier, dal presidente dell’Eurotower Mario Draghi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il numero uno di Palazzo Koch Ignazio Visco, non arriverà né nel 2014 né nel 2015.

I numeri del disastro

Mettiamoli tutti in fila, quei numeri: a maggio i consumi sono calati dello 0,7%, proprio in concomitanza con l’annunciato bonus Irpef da 80 euro in busta paga, mentre i saldi estivi dovrebbero registrare un calo intorno al 3-4 per cento. Le spese alimentari sono scese dell’1,2% e a simboleggiare una qualità della vita sempre più all’insegna del risparmio c’è una produzione industriale scesa, sempre a maggio, dell’1,2 per cento. Anche l’export, unica voce trainante in tutti questi anni di crisi, segna il passo: -4,3%, una mezza tragedia anche se Renzi l’Africano continuava a ripetere di voler alzare di 1 punto (appena) il Pil legato alle esportazioni nei prossimi 1.000 giorni. Già, il Pil: nel 1° trimestre del 2014 ha registrato un calo dello 0,5% annuo, cui si somma una previsione di crescita per il 2014 stimata ad aprile allo 0,6% dal Fondo monetario internazionale, che oggi ha però rivisto la previsione allo 0,3. Dimezzato, e pensare che la Bce fissa la soglia a un ancora più pessimistico +0,2 per cento. Il governo parlava di 0,8%: un miraggio.

Confronto impietoso

Se i consumi stagnano, il Pil non cresce, il debito aumenta, si rende praticamente impossibile ogni politica di investimenti statali e aumento della spesa pubblica, perché ci sono da rispettare i rigorosissimi tetti dell’Unione europea sui rapportideficit/Pil e debito/Pil. E il paragone proprio con gli altri Paesi dell’Eurozona certifica lo stato di malato cronico dell’Italia: anche nel 2015, secondo l’Fmi, cresceremo dell’1,2%, variazione minima rispetto all’1,1% del 2014. Le cose all’estero non vanno benissimo, vero, ma meglio che da noi. Secondo il Fondo monetario internazionale nel 2015 il Pil francese crescerà dell’1,4% (-0,1 rispetto alla precedente stima), quello tedesco all’1,7% (+0,1), quello spagnolo all’1,6% (+0,6). Tutti quanti, più o meno, agganciano la ripresa. Noi no.

Il 28esimo trimestre

Il 28esimo trimestre

Enrico Cisnetto – Il Foglio

È destino. L’Italia si occupa sempre di altro rispetto a quello che sarebbe più urgente e necessario. Ora, per esempio, l’attenzione è morbosamente focalizzata sulla “rottamazione” politico-istituzionale in corso – di cui tra l’altro stiamo ancora aspettando la traduzione delle intenzioni, peraltro non sempre encomiabili, in fatti concreti – mentre, viceversa, troppo poco concentrata sul florilegio di dati negativi che sul fronte della congiuntura economica escono quotidianamente. Ultimi quelli di ieri sulla caduta delle vendite al dettaglio e la diminuzione della fiducia dei consumatori, con ciliegina sulla torta la previsione del Fmi di un pil in crescita solo di tre decimi di punto a fine anno (e speriamo sia quella giusta, visto che per Bankitalia sarà dello 0,2 per cento e per Confindustria sarà “piatta”). Ma, ancor più importanti sono i dati sull’export, cui è stato dedicato un centesimo dello spazio giornalistico riservato alla riforma del Senato o a quella della legge elettorale (entrambe pessime, senza per questo sposare le assurde tesi sulla “dittatura di Renzi”). Infatti, le esportazioni italiane verso i paesi fuori dai confini europei a giugno sono calate del 4,3 per cento rispetto a maggio e del 2,8 per cento nei confronti del giugno 2013, considerato che la flessione annuale è stata particolarmente intensa per i beni di consumo durevoli (-9,7 per cento), l’energia (-5,6 per cento) e i beni strumentali (-4,4 per cento). Questi dati fanno scopa con quelli sulla produzione industriale. A maggio è stato certificato il peggior risultato della produzione industriale da novembre 2012 (con un calo dell’1,2 per cento su aprile e dell’1,8 per cento sull’anno precedente) e il peggior dato degli ultimi otto mesi sugli ordini industriali (-2,1 per cento su base mensile e -2,5 per cento annuo), con un allarmante calo del 4,5 per cento degli ordinativi esteri.

Basta guardare i numeri sciorinati da Francesco Daveri su LaVoce.info per capire la dimensione epocale del fenomeno: fatto 100 l’indice della produzione industriale dell’aprile 2008 (pre-crisi), lo scorso maggio il dato depurato dalle componenti stagionali ha fatto registrare un deludente 74,7. Mancano cioè 25,3 punti di produzione rispetto a prima dello tsunami. Una voragine che non solo non si chiude, ma rischia di allargarsi ulteriormente se anche le imprese che esportano, cioè che stanno sull’unica frontiera che ha retto alla crisi e su cui si può ragionevolmente contare per i prossimi anni, danno segni di cedimento. E quel quarto di capacità produttiva andata perduta – e che è inutile pensare di poter recuperare – è una media, perché ci sono settori in cui la caduta è ancora più forte. Per esempio quello dei beni di consumo durevole (automobili ed elettrodomestici bianchi in particolare) che fanno segnare 63,3 punti, cioè quasi 38 in meno rispetto all’aprile 2008. Ma sotto la media è stata anche la produzione di beni strumentali (per esempio mezzi di locomozione acquistati da imprese, non da consumatori) e di beni intermedi (produzione di componenti). Questo significa che non si fanno investimenti (si rinviano al futuro o si eliminano del tutto) e che le imprese maggiori usano sempre meno l’indotto italiano, preferendo il ricorso alle delocalizzazioni di intere filiere sub-produttive.

Tutto questo con conseguenze disastrose sull’occupazione. Un po’ meno pesanti per i fatturati aziendali, che hanno comunque almeno parzialmente beneficiato delle riduzione delle materie prime, delle riduzioni di costo consentite dalla delocalizzazione nell’est Europa e in Asia e, in alcuni casi, dall’apertura di nuovi mercati. Come testimonia l’indagine campionaria di Bankitalia su industria e servizi: per il 2014 le imprese si attendono infatti una ripresa del fatturato nella misura del 2,1 per cento, mentre la dinamica dell’occupazione rimarrebbe negativa, scendendo di un 1 per cento come lo scorso anno. Se a questo si aggiunge che lo scenario mondiale non aiuta – il Fondo Monetario, preso atto della frenata americana e delle prospettive meno rosee relativi ad alcuni mercati emergenti, ha rivisto al ribasso di tre decimi di punto la crescita del pil planetario, che nel 2014 sarà del 3,4 per cento per poi accelerare al +4,0 per cento (stima confermata) nel 2015 – è evidente che il nostro ritorno a un tangibile livello di ripresa e crescita è sfumato per quest’anno e si fa molto incerto per il prossimo, quando entreremo nel 28esimo trimestre dall’inizio della “grande crisi”. Che tale ormai non si può più definire, perché la parola crisi presuppone una fase – necessariamente non troppo lunga – di frattura di una traiettoria, che poi si va a ricomporre per consentire a quella curva di riprendere la sua precedente tendenza. No, qui la frattura è ormai tra un prima e un dopo, e quest’ultimo non potrà mai più essere come fu. Ecco perché si sente l’urgenza dell’azione politica, cui spetta il compito di resettare il paese e la sua economia su basi nuove, obbligatoriamente diverse da quelle precedenti. Solo che mentre essa diventa sempre meno rinviabile, il sistema politico-istituzionale si divide su ben altre questioni e pensa di risolvere le proprie contraddizioni ricorrendo all’arma delle elezioni anticipate. Occhio, perché potrebbe rivelarsi un’arma letale. Per il paese, ma prima di tutto per chi la usa.

 

Sparigliare il gioco

Sparigliare il gioco

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non ci siamo. La scossa che il paese attendeva, e sul presupposto della quale si è costruita la ripresa della fiducia di famiglie e imprese – importantissima sul piano della tenuta sociale – non è arrivata, e ora tutto sembra ancor di più maledettamente in salita. Il ministro Padoan, poco avvezzo alle sparate mediatiche, ci comunica che la ripresa è lenta, eufemismo per dire che non è nemmeno partita, e oppone un «no comment» all’ipotesi di una manovra correttiva dei conti pubblici, che poi un po’ penosamente è costretto a trasformare in un «no, non c’è nessuna manovra in arrivo». Al presidente di Confindustria Squinzi, che da tempo sembra mordersi la lingua per evitare di sbottare, scappa detto che «il tempo per riforme concrete, profonde, incisive, a 360 gradi, è ormai agli sgoccioli», che è un modo per manifestare scontento per quanto fin qui non c’è stato. Può essere che l’Istat fra poco ci comunichi che nel secondo trimestre il Pil abbia fatto +0,2 per cento anziché quel -0,1 per cento che sommando all’analogo risultato dei primi tre mesi ci avrebbe riportato in recessione (per la verità altre voci dicono che comunicherà lo zero senza virgola, così giusto per evitare il segno meno, ma niente di più), ma è dal fronte della produzione industriale che giungono i segnali maggiormente preoccupanti. Per maggio l’Istat ha già certificato il peggior risultato da novembre 2012, con un calo dell’1,2 per cento su aprile (dell’1,5 per cento per il manifatturiero puro) e dell’1,8 per cento sull’anno precedente. Considerato che nel primo trimestre la caduta era stata dello 0,9 per cento e pur mettendo in conto che per giugno Confindustria stima un aumento dello 0,7 per cento su maggio, è plausibile che nel secondo trimestre si arrivi a un’ulteriore riduzione dello 0,5 per cento sul precedente, e che dunque questa dinamica metta a rischio la possibilità di un recupero, seppure marginale, del Pil nella prima metà dell’anno. È ormai evidente, quindi, che gli otto decimi di punto di crescita previsti nel Def dal governo – peraltro del tutto insufficienti a farci rialzare la testa, visto che dal 2008 di punti di Pil ce ne siamo mangiati 9,4 – sono una chimera e che nel migliore dei casi si chiuderà il 2014 con il -0,4 per cento predetto dall’Istat (ma occorrerebbe una seconda parte dell’anno brillante, a essere realisti è più probabile la metà). Insomma, c’è da essere preoccupati, molto preoccupati. E non solo perché tutti i dati economici (persino l’inflazione allo 0,2-0,3 per cento è un problema grosso) sono talmente negativi da spezzare i sogni di ripresa anche dei più inguaribili ottimisti – a proposito, questi ultimi, signor presidente del Consiglio, sono i veri “gufatori” – ma soprattutto perché, mentre la positiva congiuntura internazionale a cui ci siamo aggrappati in questi mesi sembra volgere al termine, rischiamo che la speculazione finanziaria torni a colpirci.

In questo quadro, con la coperta corta che ci ritroviamo addosso della ripresa che non c’è e delle risorse che il rispetto dei vincoli europei ci impedisce di disporre, l’unica chance che abbiamo è sparigliare il gioco. Come? Certamente non tirando la giacca a Bruxelles e a Berlino per ottenere qualche margine di manovra in più, come, per esempio, usare i fondi Ue inutilizzati (nel 2013 ne abbiamo usati solo poco più della metà di quelli di cui avevamo diritto, ultimi in classifica insieme con la Romania). No, qui dobbiamo mettere in campo una doppia manovra. Da un lato, l’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico di cui si parla ormai da troppo tempo – e che anche Delrio ultimamente ha evocato, anche se non si capisce se a titolo personale o a nome del governo – finalizzata sia all’abbattimento una tantum di una fetta dello stock di debito sia all’acquisizione di risorse per fare investimenti pubblici e favorire quelli privati abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto a esso connessi, e di portare – come ha giustamente suggerito in un ottimo intervento sul Sole 24 Ore il viceministro Calenda – dal 30 al 50 per cento, come la Germania, la quota di export sul Pil. Gli strumenti sono ormai individuati, e lo stesso Calenda li riassume efficacemente nella magica parola «riforme strutturali». Il postulato è quello ripetuto più volte in questa rubrica: la crisi non supera dal lato della domanda – che più di tanto non si fa stimolare e che comunque richiederebbe risorse che non abbiamo – ma agendo da quello dell’offerta, che deve essere ripensata partendo dal presupposto che essa deve soddisfare i consumatori del mondo e non più soltanto quelli italiani. Si tratta di rimuovere le cause di contesto che frenano lo sviluppo, specie quelle che hanno a che fare con la Pubblica amministrazione e il mercato del lavoro, così come di favorire il ridisegno di interi settori (turismo, filiera agroalimentare, energie rinnovabili, utilities, trasporto e logistica, facility management, solo per citarne alcune) e la moderna infrastrutturazione, materiale e immateriale, del paese. Attendiamo segnali. Anche a Ferragosto.

Le buone idee di Calenda e le coalizioni di Renzi

Le buone idee di Calenda e le coalizioni di Renzi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Dire che i dibattiti su flessibilità e crescita sono rimasti finora su piano dell’indeterminatezza, come scrive Carlo Calenda sul Sole di martedì, è un eufemismo: sarebbe più esatto dire dell’ambiguità, ambiguità voluta, in modo da poter presentare l’esito di una discussione nel modo politicamente più conveniente. L’idea è di scrivere un Piano industriale per l’Italia, inteso come aumento della competitività dell’offerta e non come stimolo della domanda, agendo quindi sulle condizioni al contorno. Riforma del lavoro, struttura della legge fallimentare, eliminazione dell’Irap, «il tanto che si può ancora fare sul tema delle utility nazionali e locali» (ancora?), spending review e analisi delle procedure di ogni singolo dicastero. Per chi questi temi li ha tante volte evocati vederli autorevolmente sostenuti è motivo di soddisfazione ma anche di perplessità.

Perché ai grilli parlanti il Governo può anche non rispondere, ma quando a parlare è il viceministro dello Sviluppo economico in carica, non può non rispondere a chi gli chiede: scusa, a che punto siamo? E non si dica che la carne al fuoco è tanta, che le Camere sono ingolfate dalle riforme costituzionali e istituzionali, che ci sono centinaia di decreti attuativi da approvare (come se questa fosse una scusa): in politica, è sempre politica la causa per cui non si fa una cosa. Il ddl di semplificazione delle leggi sul lavoro è stato presentato da Pietro Ichino: sicuro che la maggioranza sarebbe compatta nel votarlo? Quanto all’articolo 18, basta nominarlo che partono i fumogeni. E non mi risulta che il premier Renzi li abbia inclusi nei provvedimenti su cui si gioca la testa.

Parliamo di imposte. Nella lunga intervista pubblicata domenica scorsa dal Corriere della Sera, Matteo Renzi dice che vorrebbe allargare la platea di chi riceve gli 80 euro al mese anche a «famiglie, partite Iva, pensionati»; Calenda ricorda l’abolizione dell’Irap; e l’Unione europea si sta muovendo per la riduzione del cuneo fiscale. Come finanziare tutto questo senza imporre nuove tasse? Il premier, a proposito di debito pubblico, ha lasciato cadere un riferimento alle ricchezze dei cittadini, (oltre che un pesantissimo affondo sulle banche) che non è certo servito a migliorare le «condizioni al contorno», come le chiama Calenda. Le imposte – commenta Angelo Panebianco – sono il tabù della sinistra. Tagliare gli stipendi dei politici, come si vanta di aver fatto Matteo Renzi porta qualche voto ma pochi soldi. E su quanto si possa ottenere con i tagli veri, sia da spending review sia da analisi del funzionamento dei dicasteri, si sta sempre nel vago. Tanto da far venire il dubbio se sia perché non si sanno individuare gli sprechi o perché spaventano le riduzioni del personale che inevitabilmente ne conseguirebbero: se per gli esuberi di Alitalia alcuni sindacati sembrano disposti a seminare di mine anche l’ultima spiaggia, figurarsi che cosa succederebbe se si dovessero toccare Sanità o Pubblica istruzione. O Poste, per restare in campo aeronautico.

La diligente razionalità del “piano” di Calende mette ancora più in evidenza la complessa varietà dei temi con cui deve fare i conti il progetto di Renzi. Di un piano si chiede lo stato di avanzamento, di un progetto politico ci si interroga sulla sostenibilità: a quale maggioranza si rivolge Renzi, e quale è il programma che pensa di riuscire a farle approvare? La maggioranza, in Parlamento e nel Paese, che ha sostenuto il Renzi istituzionale, quello della cesura verso le nomenclature di partito, verso l’ideologia dell’antiberlusconismo, verso lo stallo in cui erano finite le riforme istituzionali e costituzionali, è diversa dalla maggioranza, in Parlamento e nel Paese, di cui ha bisogno il Renzi governante: lo sosterrà qualora le dovesse proporre riforme che negano alcuni principi base della sinistra, la redistribuzione fiscale, la solidarietà in tema di immigrazione, il potere dello stato di controllare l’andamento economico? Sosterrebbe riforme come quelle che hanno fatto Tony Blair e Gerhard Schroeder? O non è invece più probabile che Renzi sia indotto a percorrere strade più tradizionali?
Alla fine il risultato potrebbe essere che la maggioranza che ha consentito a Renzi di arrivare al governo del Paese, e che ha anche accettato i compromessi necessari per portare in porto le “grandi” riforme, si trovi a essere governata dalla solita “normale” socialdemocrazia.

L’impeto senza metodo non realizza il cambiamento

L’impeto senza metodo non realizza il cambiamento

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Uno Sturm und Drang che ancora non conosce la sistemazione teorica dell’idealismo: il riformismo renziano acquista sempre più la fisionomia di un impeto senza organicità. Il Sole ha provato a darne una razionalizzazione, e ne sono nate le pagine 2 e 3 di questo giornale, ma anche con una certa esperienza di norme si fa fatica a seguire le linee e i contorni del disegno complessivo.

Lo slancio, appunto, c’è. Così come lo sforzo evidente e meritevole di produrre il cambiamento necessario, a partire proprio dall’economia. Va incoraggiato il premier nel tentativo di superare le resistenze di un’Italia che, nel suo immobilismo, si è messa ai margini delle trasformazioni che hanno cambiato il mondo negli ultimi 25 anni. Ma l’impeto, pur necessario in questa fase, non basta. Produce antitesi, quasi mai sintesi.

Lo dimostra, una su tutte, la vicenda del Jobs Act. Renzi ne presentò con grande urgenza le linee guida nei primissimi giorni dell’anno, quando non era ancora premier. Letta ragionava sul programma 2014, Renzi in poche ore tirò fuori la sua “rivoluzione” del lavoro. Sono passati sei mesi e l’approdo in Aula al Senato del Ddl 1428, la delega sul lavoro appunto, è slittato a fine mese, in attesa che la maggioranza trovi l’intesa sul contratto a tutele crescenti. Poi toccherà alla Camera e, quindi, ai decreti delegati. La rivoluzione, insomma, può attendere.

Anche perché le norme sul lavoro si devono far largo nel vero e proprio ingorgo parlamentare di questi giorni. Tra decreto competitività, Dl e Ddl pubblica amministrazione, riforme istituzionali, sono centinaia gli articoli da discutere e approvare, con il termine dei due mesi che incombe pericolosamente per la conversione dei decreti. Il tutto complicato ulteriormente dalla mole delle norme attuative che continuano a moltiplicarsi mentre si fa fatica a smaltire quelle ereditate dai precedenti governi.
La «nostra novità è il metodo» annunciava Renzi all’esordio del suo governo. Oggi quello che manca è proprio il metodo e l’organizzazione. Il solista c’è, così come la visione e il coraggio, ma lo schema di gioco non ancora. E così la palla, banalmente, non va in porta.