giuseppe de rita

La paura che paralizza famiglie e imprese

La paura che paralizza famiglie e imprese

Giuseppe De Rita – Corriere della Sera

Siamo ormai assuefatti alla massa di valutazioni e previsioni ansiogene che si affollano nel dibattito sul nostro futuro economico con il protagonismo costante di agenzie di rating, presidenti di enti internazionali, capi di governo, opinionisti di ogni competenza ed orientamento. Gli unici assenti finiscono per risultare i due grandi soggetti presenti e futuri del nostro sviluppo, le imprese e le famiglie, dalla cui silenziosa presenza non si può prescindere, anche perché sono loro che hanno nelle mani una crescente ricchezza finanziaria, anche se non la usano, non la mettono in movimento. Viene spontanea la citazione di San Bernardino da Feltre, che scriveva: «moneta potest esse considerata vel rei; vel, si movimentata est, capitale», cioè: la moneta può essere considerata una cosa o, se viene movimentata, capitale. A parte la curiosità di vedere questo termine, «capitale», usato da un santo veneto mezzo millennio prima di Marx, la citazione serve bene a descrivere la attuale situazione italiana: mettiamo in cantina sempre più ricchezza finanziaria, ma non riusciamo a immetterla in circuiti e politiche di sviluppo.

Pensiamo anzitutto alle famiglie: stanno negli ultimi mesi tenacemente incrementando il risparmio e la ricchezza finanziaria netta, attraverso la crescita dei depositi bancari, delle sottoscrizioni di polizze vita, dei flussi del risparmio gestito (110 miliardi in più nei primi undici mesi di quest’anno); cosicché a fine anno arriveremo ben più in alto della vetta di ricchezza che avevamo raggiunto nel 2006. Un capitale però «inagito», bloccato certo dalla paura di cosa ci può portare il futuro, ma che è anche, e forse specialmente, il sintomo che le famiglie non hanno aspettative e desideri, e non riescono quindi a esprimere una domanda significativa di beni e servizi.

Dal canto loro le imprese non vedono opportunità di investimento e si rifugiano anche loro nel risparmio, sempre più propense a diventare finanziariamente autonome e solide; ed aumentando quindi negli ultimi mesi il proprio patrimonio, la propria disponibilità finanziaria, la propria liquidità. E non investono sulla potenziale dinamica del sistema, così come del resto fanno minoranze imprenditoriali che lavorano sull’estero, che certo concorrono a fare un buon terzo del reddito nazionale ma che il proprio capitale se lo agiscono per conto loro, senza reale efficacia sul complessivo sviluppo nazionale. Se poi dalla trasparenza dei dati ufflciali si passa a considerare il grande mondo del sommerso (familiare e imprenditoriale) si resta sorpresi dalla forte crescita del lavoro e dei redditi sommersi, e quindi della consistenza del risparmio cash (chi si fa pagare in nero i soldi non li mette in banca) che è gestito in proprio secondo i propri bisogni, e senza molta voglia di rimetterlo in giuoco.

Se i più importanti soggetti dell’economia nazionale (famiglie e imprese, emerse e sommerse) sono quindi titolari sia di una crescente disponibilità finanziaria, sia di una resistenza a immetterla in circuiti e politiche di sviluppo, allora perché vengono trascurati dal dibattito economico e politico? La risposta implicitamente espressa, a loro colpa, è che essi, non avendo né aspettative né opportunità reali, si sono chiusi in se stessi e nel loro statico interesse particolare. Ma forse c’è anche un’altra risposta, cioè che è il dibattito politico che li esclude, occupato com’è dallo strapotere di chi ragiona di parametri, di algoritmi, di vincoli di bilancio, di spread, di stabilità: tutti strumenti e saperi statici, lontanissimi dal bisogno di una politica capace di far rivivere i soggetti, le loro ricchezze, le loro aspettative e i loro spazi di opportunità.

Non farsene una ragione

Non farsene una ragione

Giuseppe De Rita – Corriere della Sera

Tempo fa per andare oltre chi dissentiva o si allontanava da lui, Matteo Renzi usò un orgoglioso e definitivo «ce ne faremo una ragione». Sapeva che avrebbe ripetuto altre volte quella frase, ma certo non si aspettava che essa sarebbe diventata una ricorrente litania nazionale.
Se la ripresa, l’occupazione e i consumi non tornano a crescere, ce ne faremo una ragione; se crescono il «nero», l’economia sommersa e l’evasione fiscale, ce ne faremo una ragione; se non riusciremo a comprimere il nostro debito pubblico, ce ne faremo una ragione; se la tecnoburocrazia europea ci prospetterà una qualche forma di rigoroso commissariamento, ce ne faremo una ragione; se dovremo accettare l’influenza di poteri forti e trasversali (europei e globalizzati, cinesi e tedeschi, bancari e telematici, ecc.), ce ne faremo una ragione; se la classe dirigente risulterà sempre più inadeguata, ce ne faremo una ragione; se per effetto di alcune riforme non avremo più Camere di commercio, Province, Comunità montane, Prefetture, ce ne faremo una ragione; se vinceranno le riforme di verticalizzazione del potere, ce ne faremo una ragione; se la questione meridionale uscirà dall’agenda del Paese, ce ne faremo una ragione; se qualche nostra impresa storica prescinde dall’Italia, ce ne faremo una ragione; se aumenta l’entità delle immigrazioni (un lago ormai, non un flusso) ce ne faremo una ragione; se il nostro sistema continua a occupare gli ultimi posti nelle graduatorie internazionali di modernità ed efficienza, ce ne faremo una ragione.
Chiunque frequenti giornali e televisione potrebbe aggiungere altre situazioni esemplari, magari con qualche nobile negazione o correzione; ma nel complesso resta l’impressione di una società ironicamente apatica, quasi che le cose che ci capitano siano più grandi di noi, non contrastabili dalla nostra cultura, per cui rifuggiamo da un atteggiamento proattivo ed esprimiamo un realistico adattamento.
Si può quindi arrivare alla ipotesi che la frase di Renzi citata all’inizio non sia l’avvio di un’onda di moda, ma piuttosto la messa in circuito di un diffuso impotente disincanto. Forse il declino della lunga cavalcata del «fai da te» (che ha per decenni fatto da base allo sviluppo italiano) ha lasciato il campo a una forma sbiadita ed estenuata di soggettività individuale, che diventa un rinserramento in se stessi e un’apatica indifferenza, molto lontana da quell’orgoglio di essere artefici del proprio destino che ci ha supportato nel recente passato.
C’è spazio per invertire questa tendenza e riproporre quell’orgogliosa catena di impegni che ci ha fatto grandi nella seconda metà del secolo scorso? Non c’è dubbio che la giovinezza orgogliosa di un premier e la sua voglia di essere artefice solitario dei comuni destini sono un input giusto per far capire cosa si voglia anche dal sentire della gente. Ma di solito la gente non vede come proprio obbligato paradigma l’impeto di chi comanda, preferisce delegare, stare a guardare, aspettare, sommergersi in una moltitudine adattativa e deresponsabilizzata. È una prospettiva forse più grave degli avvisi di calamità che si rincorrono in queste settimane. E sarà anche più difficile farsene una ragione.