burocrazia

Servono gli investimenti, non i sussidi

Servono gli investimenti, non i sussidi

Massimo Blasoni, imprenditore nel settore della costruzione e gestione di residenze sanitarie per anziani con Sereni Orizzonti, uno dei gruppi nazionali leader di settore che occupa circa 3mila persone, cosa pensa della manovra?

«Premesso che non sempre bisogna essere remissivi in Europa – condivido infatti la posizione sui migranti di Salvini – relativamente alla manovra non solo occorre ridurre il deficit ipotizzato ma soprattutto sarebbe necessario spendere diversamente le risorse. Comprendo i motivi per i quali l’Ue giudichi negativamente misure come il reddito di cittadinanza che paiono alludere al fatto che i problemi non si risolvono con il lavoro. È sbagliato credere che una manovra in deficit migliori il rapporto debito/Pil perché il debito aumenta con certezza e lo stesso non si può dire del Pil vista la crescente propensione al risparmio degli italiani in questi mesi di incertezza».

Però esiste un problema povertà in Italia.

«Servono interventi, ma non a debito. Bisogna mettere l’accento sullo sviluppo delle imprese e sulla creazione di occupazione. Il maggior gettito sarebbe utile anche per le misure di contrasto alla povertà».

Cosa dovrebbe fare il governo secondo lei?

«Infrastrutture, sia fisiche che digitali. Nel 2009 lo Stato investiva 50 miliardi in opere pubbliche, oggi sono scesi a 30, mentre il Paese avrebbe bisogno di rendere più rapidi ed efficienti i trasporti e gli scambi. Resta poi il tema della burocrazia, vero macigno sullo sviluppo delle imprese. Secondo il report Doing Business, una concessione edilizia in Italia richiede in media 227 giorni, mentre in Germania ne bastano la metà. Avviata la progettazione nello stesso giorno, mentre mi starò ancora dibattendo tra bolli e permessi, il mio competitor tedesco starà già costruendo da mesi. Competere così non è facile, visti la diversa disponibilità e costo del denaro e il devastante peso delle tasse, tra le più alte d’Europa».

Il governo afferma di aver pensato alle imprese.

«Misure blande in confronto a reddito di cittadinanza e quota 100. Servirebbe, invece, un grande sforzo per innovare. Andiamo verso un mondo nel quale la metà delle professioni attuali potrebbe essere automatizzata e nel quale i nostri figli che oggi frequentano le elementari potrebbero svolgere un mestiere che ora neppure esiste. L’Italia investe poco in digitale e istruzione. Secondo l’indice Desi della Commissione Ue siamo tra gli ultimi in Europa».

Cosa non si dovrebbe fare?

«Non funziona l’irrigidimento del mercato del lavoro determinato dal decreto Dignità. Non si devono fermare le grandi opere come la Tav. Si dovrebbe evitare lo statalismo insito nelle ipotesi di salvataggio pubblico di Alitalia e di trasformazione di Cdp in una nuova Iri. Non funziona, infine, il reddito di cittadinanza. Mi spiace dirlo, ma tutto quello che M5s vorrebbe fare proprio non va».

Quel lusso che non possiamo più permetterci

Quel lusso che non possiamo più permetterci

di Massimo Blasoni – Metro

Dalla più banale azione quotidiana alle complesse relazioni industriali o fra istituzioni e organismi, quasi tutto è esageratamente regolamentato e spesso in modo cervellotico. Vi sono innumerevoli professionisti che traggono il loro sostentamento dall’interpretazione dei regolamenti, qualche volta quasi sovrastrutture a quello che potrebbe essere semplice. Accanto ai tradizionali avvocati e commercialisti, abbiamo così esperti certificatori e decrittatori di norme sulla sicurezza, sul lavoro e innumerevoli altri. Quante volte queste prestazioni paiono ridondanti, rese necessarie dall’eccesso e dalla complessità della produzione normativa?

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Burocrazia, un vampiro peggiore del fisco

Burocrazia, un vampiro peggiore del fisco

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Vi sono aspetti quasi paradossali della nostra società a cui siamo talmente abituati che finiamo per accettarli, come fossero ineluttabili. Così è dell’eccesso di burocrazia, il vero macigno che frena la crescita del nostro Paese e la vita delle imprese. È questo il primo problema del nostro sistema produttivo, più ancora della pur pesantissima pressione fiscale.

In un Paese normale dovremmo immaginare frotte di funzionari pubblici pronti a stendere tappeti rossi a chi è disponibile a investire o a dare vita a una start up. Percorsi agevolati, autorizzazioni all’esercizio pressoché immediate, adempimenti ridotti e non tortuosi. Un atteggiamento dovuto se pensiamo che gli occupati in Italia sono oggi meno di quelli del 2008 e che in ogni caso il nostro tasso di occupazione è dieci punti inferiore a quello della media UE. Se vogliamo maggiore occupazione devono nascere nuove imprese e quelle esistenti debbono poter lavorare, visto che è ben difficile ipotizzare significativi ampliamenti degli organici nella pubblica amministrazione, che anzi deve dimagrire.

Invece il nostro imprenditore spesso si trova alle prese con il Processo di Kafka. Servono 269 ore – fonte Doing Business- solamente per pagare le tasse. Quasi due mesi di lavoro da perdere con bolli e scartoffie sono un enorme peso per un artigiano, che rischia anche di essere irriso dal suo omologo francese che per questi adempimenti deve utilizzare 137 ore. Se il nostro imprenditore vuole costruire un nuovo capannone sa che disgraziatamente lo aspetteranno 227 giorni per la concessione contro i 64 richiesti in Danimarca. Anche i tempi per l’allacciamento alla rete elettrica sono tra i peggiori d’Europa: ben 124 giorni contro i 28 della Germania. Nell’import-export i moduli da compilare sono decine, dalla scheda di trasporto alla comunicazione all’Agenzia delle Entrate passando per la dichiarazione Intrastat. E il cahier de doléance potrebbe continuare per pagine.

Conosco i temi, ho dato vita a un’azienda che oggi occupa quasi duemila persone. Situazioni come queste hanno spinto tanti imprenditori a mandare tutto quanto a quel paese e ad andarsene all’estero. Anche perché le attese dovute alla burocrazia qualche volta sono infinite: rimangono eclatanti gli oltre quarant’anni che l’imprenditore della grande distribuzione Caprotti ha dovuto attendere per aprire un supermercato a Galluzzo. Accanto ai casi noti sono innumerevoli quelli di tanti altri, di cui magari si parla per un giorno solo e che spesso costano la chiusura dell’azienda. Viene da chiedersi perché il sistema non possa essere semplificato e i controlli fatti a posteriori. Insomma realizzo un’opera o avvio un’attività sulla base di un progetto certificato dai miei professionisti e poi lo Stato controlla, superando costosi indugi.

Il tempo è la variabile che separa un’idea dalla sua attuazione e molto spesso segna la differenza fra successo e insuccesso. Raramente l’ufficio pubblico vedrà come obiettivo preminente la rapidità nel rilascio di qualche permesso o la riduzione di orpelli e procedure. Non vi è una visione socio-economica, a cui l’ufficio non è tenuto, ma solo una formale e in ordine a questo la politica ha enormi responsabilità. Al contrario, lo Stato è molto sollecito quando deve incassare. Prima l’Agenzia delle Entrate poi Equitalia non fanno sconti. Di più: arriviamo al paradosso per cui a seguito di un accertamento l’imprenditore deve comunque anticipare un terzo delle imposte contestate per guadagnarsi il diritto a fare ricorso. Tutto questo in un contesto in cui premi diretti o indiretti spingono talvolta ad accertamenti inizialmente rilevantissimi. Cifre che poi magari si sgonfiano ma che potenzialmente hanno distrutto l’azienda e limitato il suo merito creditizio. In ogni caso a queste contese la nostra partita Iva deve dedicare altro tempo sottratto alla produzione.

Non tutti gli imprenditori sono dei santi, è ovvio. Occorre però scommettere sul nostro sistema produttivo, non con incentivi ma con regole più semplici. L’economia globale è ben più competitiva che solidale e soprattutto non fa sconti.

Tasse e burocrazia, l’Italia soffoca le imprese

Tasse e burocrazia, l’Italia soffoca le imprese

Massimo Blasoni – Il Giornale

Il dibattito politico viene da mesi monopolizzato da numeri, percentuali, tendenze del Pil e andamento dell’occupazione. Cresciamo dello 0,7%, l’inflazione cresce dello 0,2%: si ha spesso l’impressione di parlare di qualcosa di etereo e poco concreto. Le tasse, la burocrazia, le difficoltà di accesso al credito sono invece aspetti quotidiani e molto concreti con cui le imprese si confrontano ogni giorno.
La difficoltà di fare impresa in Italia è evidente dal confronto con gli altri partner europei: ipotizziamo una sfida Italia-Inghilterra. Prendiamo due aziende manifatturiere che producono esattamente la stessa cosa. Una ha sede nell’hinterland milanese e l’altra nella periferia di Londra. Partiamo da uno dei principali fattori produttivi: il lavoro. Anche lasciando da parte per un attimo i difficili rapporti sindacali, il tasso di assenteismo e di sciopero, lo scarso aiuto che i servizi pubblici di collocamento offrono alle imprese ci rendiamo subito conto che il costo che le due aziende sostengono per retribuire i propri dipendenti penalizza nettamente l’impresa italiana. Questa avrà, secondo i dati Eurostat, un costo medio orario di 28,3 euro, contro i 22,3 euro dell’azienda inglese. Purtroppo i nostri lavoratori non sono pagati meglio, piuttosto subiscono un cuneo fiscale (tasse e contributi) che pesa per il 44,9% in Italia e per il 26,8% in Inghilterra.
Non va meglio se guardiamo ai costi dell’energia. Una media impresa italiana paga le proprie forniture energetiche il 30% in più di un’azienda britannica evidenziando tutti gli errori di prospettiva che si sono commessi negli ultimi vent’anni in materia, dall’aprioristico rifiuto del nucleare ai cronici ritardi infrastrutturali.
La burocrazia rende il divario ancora maggiore. Per costruire un nuovo capannone l’imprenditore italiano attenderà 233 giorni per ricevere dalle autorità competenti il permesso di costruzione. L’imprenditore londinese avrà già iniziato a far lavorare l’impresa edile da ben 4 mesi, dovendo aspettare 105 giorni, meno della metà. E a Londra si attende meno della metà anche per l’esito di una causa in sede civile: 407 giorni contro i 1.185 giorni necessari per i nostri tre gradi di giudizio. I dati sono tutti tratti dal rapporto annuale della Banca Mondiale.
Se poi la nostra impresa si trova nella sfortunata condizione di essere fornitrice di una Pubblica Amministrazione dovrà sopportare un’attesa media di 144 giorni. Un tempo sei volte superiore a quello medio nel Regno Unito, dove con 24 giorni trascorsi tra l’emissione della fattura e il pagamento il settore pubblico si dimostra addirittura più celere di quanto richiesto dalla direttiva comunitaria in materia. Questi ritardi nei pagamenti hanno un costo assai rilevante per le nostre imprese: i crediti vanno anticipati presso il sistema bancario e il nostro sistema creditizio è tra i più costosi d’Europa.
Infine ci sono le tasse. Al cuneo fiscale cui si è accennato poco sopra vanno aggiunte le tasse sugli utili d’impresa, con un Total Tax Rate –lo dice sempre la Banca Mondiale – che raggiunge nel nostro paese il livello record del 65.4% dei profitti. Più di 30 punti percentuali sopra il Tax Rate dei sudditi di Sua Maestà che si ferma al 33,7%. Non basta: per noi è anche difficile essere in regola con il fisco. Una media impresa britannica impiega ogni anno 110 ore per gli otto appuntamenti fiscali previsti dal governo. In Italia la cifra raddoppia: 15 pagamenti ogni anno per un impiego di 269 ore e un costo per l’azienda di 7.600 euro. Una specie di tassa sulle tasse.
Un solo accenno alla spesa pubblica, che indirettamente molto incide sulla vita delle aziende. L’esecutivo di David Cameron, dal 2010 al 2013, ha tagliando 2,6 punti percentuali di Pil di spesa facendo scendere i costi statali dal 47% al 44,4%. Una sforbiciata che vale in termini reali 57 miliardi. Nello stesso periodo, nonostante i molti annunci di spending review e i tanti Commissari per la revisione della spesa, l’Italia ha visto crescere la spese pubblica. Ovviamente finanziandosi con le sempre crescenti tasse di cittadini e imprese.
Davanti a questi numeri è davvero difficile stupirsi nel vedere il Pil del Regno Unito crescere del 2,6% su base annua e non capire perché è davvero difficile fare impresa in Italia. Un ultima considerazione. Abbiamo evitato di confrontare la difficoltà del nostro imprenditore dell’hinterland milanese con quelle di un imprenditore bavarese: il confronto sarebbe diventato davvero impietoso.
Massimo Blasoni
Imprenditore, Presidente Centro Studi ImpresaLavoro

Ilgiornale

La burocrazia frena la ripresa – Editoriale di Massimo Blasoni

La burocrazia frena la ripresa – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Metro

Nel 2010 in Italia si sono investiti in costruzioni 169,6 miliardi di euro. Quattro anni dopo, complice la crisi e soprattutto l’inasprimento della pressione fiscale sul comparto del mattone, gli investimenti in costruzioni si sono fermati a 138,9 miliardi con un calo in termini reali del 18%. I tempi necessari per ottenere un permesso di costruzione sono invece rimasti invariati a 233 giorni, un tempo record in Europa e che ci fa impallidire davanti ai 64 giorni della Danimarca.

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Non culliamoci sull’euro e sul petrolio

Non culliamoci sull’euro e sul petrolio

Massimo Blasoni – Panorama

Lo spiraglio di ripresa che si intravede nella crescita della produzione industriale dipende da fattori evidenti. Il basso prezzo del petrolio e l’euro svalutato rispetto al dollaro sono alla base di quel 5,4 per cento in più che le nostre esportazioni hanno fatto registrare a fine 2014, rispetto all’anno precedente. Inoltre iniziano a farsi sentire anche gli effetti del «quantitative easing» (l’acquisto sul mercato di titoli pubblici e privati) varato dalla Banca centrale europea, garanzia di un credito più generoso.
A questi fattori di stimolo esterni non si somma tuttavia l’incisiva azione del governo. Occorre agire per stimolare la domanda interna ma soprattutto rafforzare il nostro sistema produttivo che si trova spesso a sopportare una concorrenza estera che beneficia di costo del lavoro, valori di cambio e fiscalità più favorevoli. Tranne che per il Jobs act che, pur perfettibile, introduce importanti elementi di novità nel mercato del lavoro, non vi sono stati interventi significativi in tema di fiscalità, liberalizzazioni e sburocratizzazione.
La contrazione dell’Irap dispiegherà i suoi effetti solo nel 2016 e gli indicatori internazionali continuano a collocare il nostro tra i peggiori e più onerosi sistemi fiscali al mondo. Per la Banca mondiale (rapporto «Doing business») l’insieme complessivo delle imposte più i contributi sociali pagati da un imprenditore italiano, raggiunge il 65,4 per cento del reddito d’impresa, 16 punti in più della Germania e 31 in più dell’Inghilterra. Quanto agli investimenti, l’andamento della spesa pubblica certificata da Eurostat dimostra che il governo ha applicato la spending review dal lato sbagliato, tagliando gli investimenti e non la spesa corrente. Rispetto al 2009 l’Italia ha ridotto del 30 per cento la spesa pubblica per investimenti, passata così dai 54,2 miliardi del 2009 ai 38,3 miliardi del 2013, riportandoci in termini reali indietro di dieci anni. Nello stesso periodo la spesa pubblica complessiva è, però, cresciuta di 12,8 miliardi: la causa, ovviamente, è da ricercarsi in una spesa corrente che nessun governo, nonostante gli annunci, è riuscito a comprimere.
A tralasciare la burocrazia oppressiva, la carenza delle infrastrutture fisiche ed informatiche, resta infine da ricordare il tema dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Il problema non si è affatto risolto, malgrado gli annunci del premier in tv. Il debito nel corso del 2014 si è riformato e ammonta oggi a oltre 75 miliardi (dati Eurostat e Intrum Justitia) con tempi medi di pagamento vicini ai 130 giorni che obbligano le imprese ad anticipare i crediti presso il sistema bancario. Un’operazione costosa e che pesa sui bilanci delle imprese fornitrici dello Stato per sei miliardi di euro ogni anno, cifra che non ha eguali in Europa. Larga parte di questo cahier de doléances può trovare almeno parziale soluzione agendo tempestivamente. La timida ripresa va sostenuta, pena un’immediata ricaduta.
Burocrazia lenta Renzi intervenga

Burocrazia lenta Renzi intervenga

Massimo Blasoni – Metro

Il rapporto di fiducia tra Stato e aziende si è ormai rotto per eccesso di burocrazia. Ogni giorno si confrontano due realtà diverse e cinconciliabili: da un lato l’imprenditore che avrebbe voglia di costruire e sviluppare il suo business; dall’altro l’amministrazione pubblica che lo frena appigliandosi a una selva di leggi e regolamenti spesso barocchi e inutili.
Un esempio: i giorni di attesa per la concessione di un’autorizzazione edilizia. L’ultimo rapporto annuale di Doing Business (Banca Mondiale) rivela che in Italia sono mediamente 233 contro i 96 in Germania e i 64 in Danimarca.
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Ti piace perdere facile?

Ti piace perdere facile?

Fare impresa in Italia non significa soltanto assumersi i rischi connessi al libero mercato ma soprattutto doversi misurare con una burocrazia asfissiante e una tassazione eccessiva, che mortificano il lavoro e contribuiscono al declino economico del nostro Paese. Per questo il Centro studi ImpresaLavoro ha deciso di pubblicare a pagamento, su “Il Giornale” e “Il Fatto quotidiano”, un inedito gioco dell’oca che ricordi a tutti – in particolar modo alla classe politica – i tanti ostacoli che decine di migliaia di imprenditori trovano ogni giorno sul proprio cammino.

 

gioco dell oca DEF

Una burocrazia troppo lenta e inefficace. Così il «grimaldello» europeo rischia  di lasciare il nostro Paese a bocca asciutta

Una burocrazia troppo lenta e inefficace. Così il «grimaldello» europeo rischia di lasciare il nostro Paese a bocca asciutta

Giuseppe Pennisi – Avvenire

I documenti ufficiali sul “Piano Juncker” – essenzialmente i quelli all’esame del parlamento europeo – affermano che il programma, ancora in costruzione, è un grimaldello: attivare con una leva di 21 miliardi di “garanzie” (non di finanziamenti diretti) di Commissione europea (Ce) e Banca europea per gli investimenti (Bei) un totale di 315 miliardi di euro. Come tutti i grimaldelli, ha virtù o opportunità – apre le 28 scatole dei piani d’investimento degli Stati Ue – ma anche vizi o rischi: mostra quali scatole sono piene e quali vuote e quali potrebbero essere piene se i vincoli del Fiscal Compact non mettessero a repentaglio fondi di contropartita, a valere sui conti dei singoli Stati per arrivare la finanza privata.

Per l’Italia, da un lato, il “grimaldello” minaccia di mostrare che quasi nessuna amministrazione ha ottemperato ai decreti legislativi 102 e 228 del 2011 di adeguamento alla normativa europea, con i quali si richiedeva una programmazione pluriennale per progetti esecutivi  corredati da analisi economica e finanziaria. Di conseguenza, in una gara in cui i progetti non sono allocati per Paese ma scelti da un comitato di investimenti in base alla loro qualità e cantierabilità, rischiamo di restare a bocca asciutta. O quasi. Al tempo stesso, però, il “grimaldello” all’esame del parlamento si pone sul solco di una maggiore “flessibilità” nella lettura dei trattati europei e di accordi intergovernativi quali il Fiscal Compact.

Già a dicembre – a causa del periodo natalizio pochi se ne sono accorti – una comunicazione della commissione chiariva che per investimenti di rilevanza europea i contributi diretti dei paesi al Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (il fulcro del Piano Juncker) non saranno “computati” ai fini della procedura per deficit eccessivo e che la commissione terrà conto dei cofinanziamenti nazionali ai programmi europei nel valutare i progressi verso il pareggio strutturale, consentendo “deviazioni temporanee”, ma solo se l’economia è in recessione e sia rispettato il tetto massimo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Una nuova “comunicazione” ha iniziato il proprio percorso; potrebbe essere emanata prima dell’estate. È possibile un ulteriore ampliamento dell’interpretazione nell’ambito di un approccio coordinato di Bei (al centro del sistema) e banche nazionale di sviluppo e di promozione degli investimenti. In particolare, le “deviazioni” potrebbero diventare pluriennali (dato che tali sono gli investimenti), il tetto del 3% ammorbidito e con esso anche la clausola che ora richiede un “economia in recessione”. È un’opportunità importante per l’Italia, sempre che si sia in grado di allestire un adeguata platea di progetti. Altrimenti l’opportunità verrà colta principalmente da Germania ed Austria che hanno disperato bisogno di infrastrutture (principalmente nel comparto dei trasporti) e progetti pronti. Come ben sa chi si avventura sulle loro autobahn e sui loro treni.