giuseppe pennisi

Attenzione alle cryptocurrencies

Attenzione alle cryptocurrencies

Sino a qualche tempo, gli esperti ne conoscevano una sola: il bitcoin. Dei rischi e delle opportunità di utilizzare una moneta sintetica creata da un algoritmo messo a punto da un matematico (pare) cinese, ne discutevano solamente pochi specialisti, usi alla speculazione monetaria. Le cryptocurrencies sono aumentate rapidamente, molto più di quanto non ci si immagini. Il 2017 Gobal Cryptocurrencies Benchmarking Study, pubblicato a fine maggio ,documenta che nel mondo ci sono più di cento cryptocurrencies copie o varianti degli originali bitcoin e circa trenta differenti ‘minatori’ di cryptocurrencies in 38 differenti Paesi e che ben tre milioni di individui utilizzano cryptocurrencies invece di valute emesse da banche centrali. Il documento sottolinea che il mercato delle cryptocurrencies in gran misura si autoregolamenta, anche se non esistendo una regolamentazione codificale le transazioni in cryptocurrencies hanno soprattutto una base fiduciaria.

Due economisti britannici del Cambridge Center for Altenative Finance scrivono in un paper recente (per averne copia scrivere a m.raucus@ibs.cam.account.UK) che, da un lato, le cryptocurrencies spingono a una sana competizione di mercato tra valute ma, da un altro, occorre trattarle con cura perché possono essere una Mecca per truffatori.

Appare interessante anche un lavoro (Bitcoin is not alone. Qantifying and Modelling Long Term Dynamics of the Cryptoxorrency market) curato da una squadra di economisti della Cuty University di Londra, del Max Planck Institute di Lipsia, della Università della Catalogna. Questo studio osserva come il mercato delle cryptocurrencies sia giunto a 55 miliardi di dollari e continui a crescere. Dall’aprile 2013 sono apparse e scomparse numerose cryptocurrencies. In questo contesto, la quota di mercato degli originali bitcoin si sta ovviamente contraendo, anche se resta la maggiore.

Le trappole cinesi della Via della Seta

Le trappole cinesi della Via della Seta

La nuova Via della Seta – o come preferiscono chiamarla i Cinesi OneBelt OneRoad – è la rete di infrastrutture in via di progettazione per meglio collegare il Celeste Impero con l’Europa e incrementarne il commercio. Gli obiettivi sono, o dovrebbero essere, bilaterali poiché gran parte degli Stati dell’Asia centrale hanno pochissimo intercambio e con la Cina e con l’Europa. Quelli che ne sono dotati esportano principalmente materie prime (soprattutto oli minerali) e, dopo una fase in cui hanno investito moltissimo nell’immobiliare, sono in stagnazione. L’obiettivo principale, ove non unico, è quindi l’aumento degli scambi con l’Europa.

Un paper di Jonathan Holsag, della Vrje Universiteit Brussel, pubblicato sul No. 4 di The International Spectator (l’elegante rivista in inglese dell’Istituto Affari Internazionali, un quadrimestrale italiano che ha 52 anni di vita) esamina gli aspetti economici della Via della Seta sulla base di documenti inediti della Celeste Burocrazia cinese. Prima di inneggiare alle nuove opportunità di esportazioni che si aprono alle imprese europee, vale la pena leggerlo con attenzione. Il lavoro, molto documentato, dimostra che per l’Europa la Via è in realtà una grande trappola

Occorre fare una premessa. La Cina fa parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (il codice di regole per l’interscambio internazionale) solamente dal 1991. Numerosi Stati membri dell’OMC non pensavano che avesse i requisiti minimi per entrare, anche e soprattutto perché un commercio internazionale libero e competitivo è poco compatibile con politiche economiche interne stataliste e autarchiche. In questo ultimo quarto di secolo, il settore dei servizi ha avuto un buon grado di liberalizzazione, gli investimenti esteri sono stati autorizzati, le restrizioni sulla distribuzione all’ingrosso e al dettaglio sono state rimosse e parimenti sono stati un poco aperti i mercati dei servizi finanziari, delle banche, delle assicurazioni e delle telecomunicazioni.

Non facciamoci però illusioni. La Cina resta un Paese fortemente mercantilista e ha capacità di celare i protezionismi nel modo più astuto. Dal 2008 a oggi sulla Via della Seta le esportazioni di beni e servizi cinesi verso l’Europa sono aumentate del 250% mentre quelle di Francia, Germania e Italia diminuite rispettivamente del 14%, del 26% e del 9%.

Resisterà l’euro alla tempesta che viene da Washington?

Resisterà l’euro alla tempesta che viene da Washington?

Così come è stata concepita, la moneta unica europea (l’euro) appare a rischio nonostante il Presidente della Banca centrale europea (Bce) ripeta che la crisi è superata. Sono stati in tanti a dirlo, sulla base dell’esperienza degli ultimi cinquant’anni, quando la si preparava; il vostro chroniqueur aveva all’epoca una rubrica quotidiana sul quotidiano Il Foglio in cui esprimeva perplessità e venne accusato di essere un agente CIA o KGB.  L’elenco potrebbe essere lungo. Alberto Alesina venne licenziato in tronco dal Ministero del Tesoro per avere espresso dubbi in un saggio accademico. In un lavoro con Enrico Spolaore e Romain e Romain Wacziarg, ha infatti anticipato conflitti anche armati sia all’interno dell’area dell’euro sia tra quest’ultima e i suoi vicini. Nouriel Roubini (considerato, a torto o a ragione, come l’economista che ha previsto con più precisione la crisi finanziaria iniziata nel 2007) ha affermato che «l’eurozona è alla vigilia di una vera e propria rottura: anche ove si riuscisse a ridurre il fardello del debito sovrano, non si riuscirebbe a tornare a tassi adeguati di competitività e di crescita; per molti Paesi i costi di restare nell’unione monetaria ne supererebbero di gran lunga i benefici». Conclusioni analoghe arrivano peraltro dalla lontana Asia: Hwe Kwan Chwo della Singapore Management University afferma che, da un lato, le vicende dell’eurozona negli ultimi anni hanno frenato i progetti (peraltro preliminari) di un’”area monetaria” nell’Asean (l’associazione degli Stati del Sud Est asiatico) e, dall’altro, hanno rafforzato il ruolo di transazione e di riserva di alcune monete asiatiche rispetto all’euro, oltre che al dollaro.

Nel mondo accademico Usa l’analisi di Roubini è ampiamente condivisa: importanti esponenti, prima di tutti Martin Feldstein (alla guida del comitato dei consiglieri economici di due Presidenti degli Stati Uniti oltre che per un trentennio del National Bureau of Economic Research, Nber), non hanno creduto che l’unione monetaria europea sarebbe durata a lungo. Più cauti gli ambienti istituzionali ufficiali quali Tesoro e Federal Reserve Board che non celano un certo scetticismo, pur sperando che si riesca a salvare “il soldato euro” in quanto la sua eventuale dissoluzione creerebbe un lungo periodo di caos nei mercati.

La crisi politica e istituzionale apertasi negli Stati Uniti, con la minaccia di empeachment del Presidente, potrebbe scatenare una tempesta a cui l’euro non reggerebbe. Come avvenne all’inizio degli Anni Settanta quando il ‘caso Watergate’ che portò alla dimissioni dell’allora Presidente Nixon travolse il ‘piano Werner’, primo progetto organico di un’unione monetaria europea.

Per questo motivo è utile leggere il lavoro Luciano Andreozzi e Roberto Tamborini, ambedue dell’Università di Trento. Il paper “Why Is Europe Engaged in an Inter-Dependence War, and How Can It Be Stopped?” (Perché l’Europa è in una guerra di interdipendenza e come può essere arrestata?) è il DEM Working Paper N. 2017/26 e dimostra che tra gli Stati Europei è in corso una “guerra di interdipendenza” (come previsto un quarto di secolo da Martin Feldstein e da Alberto Alesina, Enrico Spolaore e Romain Wacziarg). Quello di Andreozzi e Tamborini è un lavoro altamente teorico ma che descrive in modo acuto le tensioni all’interno dell’area dell’euro, tanto all’interno di ciascun Paese membro quanto tra Paesi e istituzione europea.

Le conseguenze economiche della Brexit

Le conseguenze economiche della Brexit

Il negoziato per la Brexit è solo ai prolegomeni ma già le polemiche infuriano. Più sotto il profilo politiche che sotto quello economico. A metà aprile, sono state esaminate in un convegno alla State University (SUNY) of New York a Buffalo. Del convegno si stanno mettendo on line i paper. Particolarmente, interessante il lavoro introduttivo di Winston W. Chang, intitolato per l’appunto Brexit and its Economic Consequences.

Il procedimento formale della Brexit è già iniziato – afferma lo studio – ma c’è molta incertezza sugli impatti della uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (UE) in termini del futuro economico, politico e sociale del Paese. Il lavoro tratta degli impatti economici. Dopo un breve sunto delle caratteristiche dei trattati europei come materiale sulla cui base esaminare gli argomenti principali dei due campi, il leave ed il remain, lo studio pone l’accento sul fatto che in ultima istanza gli esiti dipendono dalle specifiche delle conclusioni del risultato. Ogni divorzio comunque costa.

I principali argomenti sul tavolo della trattativa riguardano il commercio di beni e servizi, l’agricoltura e la pesca, la regolamentazione finanziaria e l’immigrazione. Il paper delinea differenti scenari di nuovi possibili regimi commerciali, ciascuno dei quali avrebbe diversi impatti sull’economia britannica. Dato che ciascuna delle due parti ha le proprie carte da giocare, il lavoro esamina le varie strategie possibili di Gran Bretagna ed UE. Chang utilizza la teoria dei giochi ed esamina uno cooperativo che tenga conto anche di altri aspetti come la sicurezza reciproca, la difesa, l’ambiente e i guadagni e le perdite potenziali in caso la Gran Bretagna stipuli altri accordi commerciali con Stati che non fanno parte dell’UE.

Occorre aggiungere al paper che tanto la posizione della Gran Bretagna quanto quella dell’Unione europea nell’ambito dell’Omc sono quanto meno anomale e ambigue. La Commissione europea ha in base al Trattato di Roma, le cui ambizioni si limitavano alla creazione di un mercato comune, il compito di negoziare i trattati commerciali internazionali dato che all’epoca per l’Europa dei Sei tali trattati riguardavano essenzialmente la tariffa doganale comune, e i pertinenti contingenti nonché la politica agricola comune (le cui linee principali vennero definite nel 1963). In effetti, si tratta di un espediente per facilitare il lavoro commerciale internazionale. Non è un compito, però, che la Commissione europea (Ce) possa esercitare in autonomia ma solo sulla base di direttive specifiche degli Stati membri (oggi ancora 28, se si considera anche la Gran Bretagna). La Ce ha però sempre esercitato questo diritto come grimaldello per essere considerata come uno Stato (o un super Stato) al pari degli altri Stati membri dell’Omc. Tale privilegio le è stato sinora negato: è ultimo firmatario del Trattato istitutivo dell’Omc, non ha diritto di voto, non paga i contributi all’organizzazione.

Ci sono già frizioni tra la Ce (che il 3 maggio ha chiesto formalmente al Consiglio europeo  dell’Ue l’autorizzazione a negoziare in nome e per conto dell’intera Unione) e gli Stati membri dell’Ue, su come condurre la trattativa, ad esempio sulla lingua. Da quando la Gran Bretagna è entrata nell’Ue nel 1973, l’inglese ha di fatto soppiantato il francese come lingua di lavoro dell’eurocrazia e anche dei negoziati commerciali. Nelle trattativa intra-Ue i diplomatici britannici si sono dimostrati abilissimi e molto preparati. Per quanto riguarda la Brexit, il capo negoziatore è Michel Barnier che agirà per conto e sotto il controllo dei 27 Paesi che restano e che hanno approvato il mandato di negoziato. Barnier non fa parte della Ce: è stato personalmente designato da Juncker con il consenso dei 27 ma si avvarrà dell’indispensabile sostegno tecnico dei servizi della Ce. È solo un caso che l’attuale presidente della Ce non sia inglese: se lo fosse, il corto circuito Ue-Brexit sarebbe stato visibile anche per i non addetti ai lavori.

La sostenibilità del debito sovrano

La sostenibilità del debito sovrano

La Banca centrale europea (Bce) ha organizzato un gruppo di studio per definire nuovi metodi per analizzare la sostenibilità del debito sovrano europeo. Ne fanno parte Othman Bouabdalla, Critisna D. Checherita Westpal, Thomas Warmedinger, Roberta De Stefani, Francesca Drudi, Ralph Setzer, Andreas Wespphal, tutti del servizio studi della Bce tranne il primo proveniente dalla Banque de France. Lo studio (ECB Occasional Paper No. 185) si intitola Debt Sustainabily Analysis for Euro Area Sovereigns. A methodological Framework.

In breve, il documento sottolinea che la crisi del debito sovrano nell’area dell’euro ha sottolineato sia l’importanza di ridurre i livelli del debito sia di creare, in tempi normali, adeguate riserve. Ha anche messo in risalto l’esigenza di una accurata analisi della sostenibilità del debito (Debt Sustainability Analysis, DSA) che serva come campanello di allarme. Il lavoro propone i lineamenti di tale DSA strutturata in tre blocchi:

  1. Una DSA ‘deterministica’ basata su simulazioni del debito in base a scenari alternativi di shock economici e finanziari sia interni sia internazionali;

  2. Una DSA stocastica o probabilistica in modo da valutare le probabilità di una crisi debitoria;

  3. Una batteria di altri indicatori per tener conto dei rischi di difficoltà di liquidità e di insolvenza.

Le informazioni nei tre blocchi possono essere riassunte in una mappa che può guidare nella valutazione complessiva dell’andamento del debito, delle sua sostenibilità e dei suoi rischi. È possibile che le indicazioni del documento vengano recepite e diventino direttive alla banche centrali nazionali.

Il nazionalismo economico con gli occhiali del business

Il nazionalismo economico con gli occhiali del business

Il dibattito, o meglio il conflitto tra sovranisti e internazionalisti, colora in questo momento la politica europea. Ne colora anche gli affari? Nel business si dovrebbe guardare essenzialmente ai rendimenti e non al colore (nazionale o meno) di coloro coi quali si tratta. Si sono posti l’interrogativo, dandosi una prima risposta, tre economisti dell’Università di Dublino – Ronan Powell, Sarah Predergast e Ruchira Sharma – che hanno firmato un paper non ancora online ma che si può ottenere scrivendo a ronan.powell@ucd.ie. Il suo titolo è The Impact of Economic Nationalism in Europe on the Returns to Rival of Crossborde M&A Bids (L’impatto del nazionalismo economico in Europa sui rendimenti di offerte per fusioni ed acquisizioni attraverso frontiere).

Lo studio analizza l’effetto di ricchezza atteso del nazionalismo utilizzando un campione innovativo di offerte bloccate per operazioni di acquisizioni nei confronti di aziende dell’Unione Europea (UE) da parte di aziende non nell’UE nel periodo dal 1990 al 2013. L’accento è sui rendimenti anormali cumulatici (Cumulative Abnormal Returns, o CARs), sia al momento dell’annuncio dell’acquisizione sia al momento di eventuali interventi pubblici sia al momento della conclusione o meno dell’acquisizione. L’analisi conclude che esiste un effetto significativo al momento dell’annuncio dell’offerta di acquisizione, soprattutto quando si tratta di imprese rivali: in media 31 milioni di euro dopo avere controllato per altre determinanti. L’intervento pubblico comporta invece CARs negativi, ossia lo Stato farebbe bene a stare alla larga e non interferire per motivi nazionalistici o meno. Tali effetti negativi risultano più pronunciati quando l’impresa rivale è straniera. I CARs diventano ancora più negativi alla data della risoluzione dell’affare: una perdita in media di 23 milioni di euro. In breve, il nazionalismo economico ha un costo significativo.

L’asticella del debito e il sovranismo

L’asticella del debito e il sovranismo

Il debito pubblico è uno dei temi di fondo delle elezioni presidenziali in Francia, il cui primo turno è il 23 aprile. Lo sarà anche di quelle tedesche e italiane. Su questo tema si è scritto proprio tutto? La settimana scorsa è uscito un paper con interessanti novità negli Economics Research Papers di Bath (N. 61/17). Ne sono autori due economisti spagnoli Marta Gomez-Puig e Simon Sosvilla Rivero. Si intitola Heterogeity in the Debt-Growth Nexus. Evidencce from EMU Countries (Eterogeneità nel nesso tra debito pubblica e crescita) e ci riguarda da vicino. Sulla base di dati e analisi più recenti mette in discussione circa venti anni di scritti secondo cui, sulla base del lavoro pioneristico di Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, il debito pubblico frena la crescita se supera il 90% del Pil.

Sulla base di un’analisi relativa ai Paesi dell’unione monetaria europea dal 1961 al 2015, Marta Gomez-Puig e Simon Sosvilla Rivero pongono l’asticella molto più in basso utilizzando tecniche di analisi più raffinate di quelle di Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff. In tutti i Paesi dell’unione monetaria, il debito pubblico comincia ad avere effetti negativi sulla crescita quando raggiunge il 40% del Pil nei Paesi dell’Europa centrale ed il 50% in quelli dell’Europa meridionale. L’obiettivo, fissato nel trattato di Maastricht, che il debito non superi il 60% del Pil dovrebbe essere, quindi rivisto al ribasso. Secondo i due economisti spagnoli, le politiche di austerità devono continuare ad essere applicate nell’unione monetaria ma, dato che non sembra abbiano inciso sul debito, vanno accompagnate da politiche strutturali tali da aumentare i rispettivi Pil potenziali. Tuttavia, l’asticella varia da Paese a Paese, una media generalizzata sarebbe poco utile. L’analisi conclude che l’aggiustamento dovrebbe essere più lento in Grecia e Spagna e più veloce in Italia.

Ancora sull’economia sommersa

Ancora sull’economia sommersa

In questa rubrica siamo spesso tornati sul tema dell’economia sommersa nella convinzione che in Italia incide particolarmente sul Pil a ragione dei troppi vincoli amministrativi e dell’eccessiva oppressione tributaria. A fronte di uno Stato tentacolare ‘ci si sommerge’ per non essere visti e tartassati. Abbiamo però avuto perplessità sulle stime periodiche dell’OCSE che -riprese nei saggi di Friedrich Schneider e Andreas Buehn (il più recente risale a 2013 ed è Shadow Economies in highly developed OECD countries: What are the driving forces?) – stimano il sommerso italiano come il più alto del mondo avanzato (dal 27,8% del Pil nel 1999 al 26,7% nel 2010), quasi il doppio della media dei 39 Paesi censiti e con appena una leggera flessione nei dieci anni.

Ci rallegriamo ,quindi, che secondo i più recenti dati Istat l’economia sommersa sommata alle attività illegali sia pari (dati 2013) al 12,9% del Pil, una percentuale in crescita rispetto al 12,7% stimato nel 2012 e al 12,4% del 2011. In termini assoluti, vale 206,4 miliardi di euro. Comunque i numeri dell’economia illegale e sommersa giustificano la decisione dell’Istat di «esplorare la fattibilità di un conto satellite dell’economia illegale» con l’obiettivo di avere «una migliore conoscenza del fenomeno» e mettere a punto adeguate «politiche di contrasto». Il 2012 e il 2013 sono stati anni di una forte crisi che può avere pesato sulla crescita del sommerso. Il conto satellite sarebbe una novità assoluta perché oggi non esiste in letteratura né in altri Paesi, se non a livello molto sperimentale. Il suo obiettivo sarebbe quello di capire meglio come funziona l’economia illegale, la sua produzione, come si trasferisce sul consumo, la relazione tra le imprese e se in essa vi siano investimenti.

A questa scommessa risponde il lavoro di Cecilia Morvillo del Dipartimento del Tesoro nel paper Evoluzione delle determinanti dell’economia sommersa: analisi panel di regioni italiane (NT n.1/2016). Il lavoro è volto ad analizzare empiricamente la relazione esistente tra l’economia sommersa e alcune variabili esplicative. A tal fine si dispone di dati panel riguardanti le 20 regioni italiane con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 ed il 2012, per un totale di 240 osservazioni. Nella presente nota l’economia sommersa viene identificata con il tasso di irregolarità del lavoro, pubblicato dall’Istat e calcolato come la quota percentuale delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro. Le variabili esplicative sono invece in parte dedotte da una rassegna di studi econometrici relativi all’economia sommersa, tra le quali la densità di popolazione e il tasso di industrializzazione, proprie della dimensione e della struttura economica regionale; il PIL pro capite e la partecipazione femminile al mercato del lavoro, quali variabili di controllo dell’economia sommersa; una proxy dell’intensità della regolamentazione in grado di fornire una fotografia del contesto istituzionale italiano. Dopo una breve descrizione dei dati, supportata da una rappresentazione cartografica a livello regionale delle variabili più rappresentative delle diverse condizioni economiche delle regioni italiane, l’analisi empirica si declina in una stima di quattro distinti modelli panel dai quali emergono risultati sui quali riflettere.

Ancora su imposte e robot

Ancora su imposte e robot

Ha suscitato un certo dibattito la nota sui paper relativi all’imposta sui robot uscita lo scorso 28 marzo su questo sito. Giuliano Cazzola mi ha fatto notare come il tema sia stato trattato nei Bollettini dell’associazione Adapt (fondata dal mai troppo compianto Marco Biagi) e come la soluzione indicata sia una maggiore e migliore formazione dei lavoratori per stare al passo con l’innovazione tecnologica. Dall’Università mi è stato indicato come il tema, fortemente dibattuto ai tempi della prima industrializzazione, si ripropose con la diffusione dell’automazione negli Trenta quanto venne impostato in modo corretto su come giungere a ‘neutralità’ di imposizione su capitale e lavoro; fondamentale a questo proposito un saggio di Paul Studenski, Towards a Theory of Business Taxation, apparso nel 1940 sul “Journal of Political Economy”. In Italia ci siamo dati un sistema di tassazione moderno solo negli anni Settanta. Sul tema resta essenziale il lavoro uscito nel 1986 a firma Antonio Di Majo, Struttura economica e struttura tributaria: il prelievo sulle imprese, a cui Governo e Parlamento si ispirarono (non senza travisamenti) nel creare l’Irap.

A questo riguardo in questi ultimi giorni sono apparsi sulla Rete due lavori molto interessanti: Automation and Jobs: When Technology Boosts Employment di James Bessen (Boston University, School of Law, Law and Economics Research Paper No. 17-09) e Robots and Jobs: Evidence from the US Labor Market di Daron Acemoglu (MIT e Pascual Restrepo della Boston University).

Il primo sottolinea che sovente il miglioramento tecnologico e l’innovazione aumentano l’occupazione complessiva e ricorda come per oltre un secolo nell’industria manifatturiera siano aumentate di pari passo la produttività e l’occupazione, diminuendo invece quando i mercati sono diventati saturi. Utilizzando due secoli di dati, un semplice modello di domanda spiega accuratamente l’ascesa e il declino del tessile, della siderurgia e della industria automobilistica (e del suo indotto). Estrapolando, il modello indica che informatica e robotica genereranno in aggregato posti di lavoro ma non nell’industria manifatturiera. In breve, ci sarà un aumento complessivo, grazie principalmente alla crescita di occupazione di qualità nei servizi.

Il secondo studio impiega un modello econometrico in cui i robot competono con i lavoratori in varie produzioni e distingue due fasi: prima e dopo il 1990. L’impatto dei robot è molto differente da quello della globalizzazione e della concorrenza di Cina e Messico. In futuro, ove si arrivasse a un rapporto di un robot per mille lavoratori, la riduzione dell’occupazione in un Paese come gli Stati Uniti sarebbe al massimo dello 0,18-0,34% e quella dei salari dello 0,25-0,50 per cento. Quindi trascurabile.

Ricordo infine che su questi temi, il CNEL (in collaborazione con Ocse e Centro studi ImpresaLavoro) terrà un seminario il 6 aprile dalle 10 alle 13 alla presenza del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Verrà discussa la bozza di un documento CNEL di osservazioni e proposte che verrà rivisto alla luce del dibattito e quindi presentato a Governo e Parlamento in vista del DEF e del PNR. È un’iniziativa ‘aperta’. Chi vuole partecipare, per ovvi problemi organizzativi, mandi un mail a apicciocchi@cnel.it

I robot devono pagare le imposte?

I robot devono pagare le imposte?

I robot devono pagare le imposte? Non è stata solo una boutade quella di Bill Gates il fondatore di Microsoft, l’uomo più ricco del mondo. «Oggi se un essere umano guadagna 50 mila dollari all’anno, lavorando in una fabbrica, deve pagare le imposte. Se un robot svolge gli stessi compiti, dovrebbe essere tassato allo stesso livello». Messa così può sembrare quasi una provocazione ma, intervenendo alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, Gates si è proiettato nel futuro ormai prossimo: «Non ritengo che le aziende che producono robot si arrabbierebbero se fosse imposta una tassa. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale può generare profitti con risparmi sul costo del lavoro». Il miliardario americano sembra prospettare una doppia imposizione. Dovrebbero pagare un prelievo extra sia le aziende che costruiscono i robot sia le imprese che li installano per sostituire la manodopera di uomini e donne.

Solo negli Stati Uniti circa otto milioni di posti potrebbero essere bruciati dall’automazione. In Gran Bretagna, secondo alcune stime, sarebbero addirittura 15 milioni. Le previsioni, però, oscillano. Uno studio di McKinsey giunge alla conclusione che, se si considera «l’attuale tecnologia», solo il 5 per cento delle occupazioni attuali verrebbe cancellato dai robot. Ma il ragionamento, naturalmente, deve tenere conto dei progressi tumultuosi e allora la soglia di sostituzione tra uomo e macchina può salire fino al 45 per cento. Il dibattito è in pieno sviluppo su piani diversi. Da quello filosofico con la tesi del trionfo finale della tecnica (sostenuta da Emanuele Severino) alle implicazioni etiche fino a quelle tributarie.

Sul tema esiste già una letteratura sterminata. Ecco un elenco dei testi scaricati più frequentemente:

  • Jennifer Bird-Pollan (Kentucky), Utilitarianism and Wealth Transfer Taxation, 69 Ark. L. Rev. 695 (2016)

  • Marco Bonomo (Insper Institute of Education and Research), Joao De Mello (Pontifical Catholic University of Rio de Janeiro), and Lira Mota (Columbia Business School), Short-Selling Restrictions and Returns: A Natural Experiment

  • Leopoldo Fergusson (Universidad de los Andes), Carlos Molina (Universidad de los Andes), and Juan Feipe Riaño (University of British Columbia), I Evade Taxes, and So What? A New Database and Evidence from Colombia

  • Jeremiah Harris (Kent State) and William O’Brien (University of Illinois at Chicago), The Effect of the U.S. Worldwide Taxation Policy on Domestic Mergers and Acquisitions

  • Jost Heckemeyer (Leibniz Universität Hannover) and Pia Olligs (University of Cologne), ‘Home Sweet Home’ versus International Tax Planning: Where Do Multinational Firms Hold Their U.S. Trademarks?

  • Daniel Hemel (Chicago), Pooling and Unpooling in the Uber Economy, 2017 U. Chi. Legal Forum (forthcoming)

  • David Kamin (NYU) and Brad Setser (Council on Foreign Relations), House Plan’s Bad Math: Over-Estimates of Revenue from a Border Adjustment, Tax Notes (forthcoming 2017)

  • Jacqueline Lainez (University of the District of Columbia), Holding U.S. Corporations Accountable: The Convergence of U.S. International Tax Policy and International Human Rights

  • Wayne L. Nesbitt, Edmund Outslay, and Anh Persson (Michigan State), The Relation Between Tax Risk and Firm Value: Evidence from the Luxembourg Tax Leaks

  • Adam J. Olson (Cincinnati), Consequences of Executive Focus on Support Activities: Evidence from Executive Influence on Firm Tax Strategy

  • Dhruv Sanghavi (Maastricht University), BEPS Hybrid Entities Proposal: A Slippery Slope, Especially for Developing Countries, 85 Tax Notes Int’l 357 (Jan. 23, 2017)

  • Richard Schmalbeck (Duke), Jay A. Soled (Rutgers), and Kathleen DeLaney Thomas (North Carolina), Advocating A Carryover Tax Basis Regime, Notre Dame L. Rev. (forthcoming)

  • Samer E. Semann (Purdue), Tax Avoidance, Income Diversion, and Shareholder Value: Evidence from a Quasi-Natural Experiment

  • Anindya Sen (University of Waterloo), Smokes, Smugglers and Lost Tax Revenues: How Governments Should Respond, C.D. Howe Inst., Commentary No. 471 (Feb. 2017)

  • Antony Ting (University of Sydney), Base Erosion by Intra-Group Debt and BEPS Project Action 4’s Best Practice Approach – A Case Study of Chevron, 2017 British Tax Rev. no. 1, at 80

A mio avviso, il testo più utile, più conciso e più direttamente mirato al tema resta il paper di Ryan Abbot e di Bret N. Bogenschneider (ambedue della University of Surrey) messo sulla rete il 24 marzo. Per averlo, basta scrivere a  drryanabbot@gmail.com In sintesi, il papero sottolinea che le tecnologie oggi esistenti possono automatizzare gran parte delle funzioni del lavoro. Il loro costo decresce mentre quello del lavoro umano aumenta. Questa determinante – unitamente con il progresso tecnico in materia di informatica, intelligenza artificiale e robotica – induce a prevedere che ci saranno perdite significative di posti di lavoro e un aumento dell’ineguaglianza dei redditi. Coloro che hanno  responsabilità politiche stanno dibattendo come trattare questi temi. Gran parte delle proposte riguardano gli investimenti in formazione o nella spesa sociale per attutire le conseguenze dell’automazione. L’importanza della politica tributaria è stata sottovalutata, affermano Abbot e Bogenschneider. A loro parere i sistemi tributari incentivano l’automazione anche quando non è socialmente efficiente. Infatti, gran parte del gettito proviene dall’imposta sul reddito, un’imposta che i robot non pagano a ragione di sistemi tributari che tassano il lavoro piuttosto che il capitale. I robot sono, quindi, pessimi contribuenti. Secondo Abbot e Bogenschneider occorre cambiare rotta. Il sistema tributario deve essere almeno neutrale tra lavoro e capitale, ossia tra lavoro dei robot e degli esseri umani. Ciò può essere realizzato abolendo le deduzioni o detrazioni tributarie per l’automazione oppure creando un’imposta sull’automazione oppure ancora aumentando le imposte sulle persone giuridiche o meglio ancora una combinazione  di queste proposte.

Per affascinanti che siano queste proposte hanno il profumo di  luddismo, un movimento di protesta operaia sviluppatosi all’inizio del diciannovesimo secolo in Gran Bretagna e caratterizzato dal sabotaggio della produzione industriale. Macchinari come il telaio meccanico, introdotti durante la rivoluzione industriale, erano infatti considerati una minaccia dai lavoratori salariati perché causa dei bassi stipendi e della disoccupazione. Il nome del movimento deriva da Ned Ludd, un giovane forse mai esistito realmente che nel  1779  avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta. Ludd divenne simbolo della distruzione delle macchine industriali e si trasformò nell’immaginario collettivo in una figura mitica: il Generale Ludd, il protettore e vendicatore di tutti i lavoratori salariati oppressi dai padroni e sconvolti dalla rivoluzione industriale.