Economia sommersa

I dati Istat delle famiglie non tengono conto del nero

I dati Istat delle famiglie non tengono conto del nero

di Massimo Blasoni – La Verità

La crisi economica, che dopo un decennio può dirsi ormai sistemica, ha sicuramente accentuato il divario tra le classi più abbienti e quanti invece hanno visto sensibilmente ridursi il proprio patrimonio. Occorre però distinguere bene le situazioni. Nelle scorse settimane ha ad esempio fatto molto rumore, guadagnandosi le prime pagine dei giornali, la notizia che nel nostro Paese un milione e 85mila famiglie risultano prive di reddito e che oltre la metà di queste (587mila) vivono nel Mezzogiorno. Molti osservatori ne hanno tratto la conclusione che la situazione in Italia  sia a tal punto peggiorata da ridurre alla povertà una quota rilevante di nostri connazionali. In realtà i dati diffusi da Istat registrano un milione di famiglie senza lavoro, il che non significa che non abbiano comunque un reddito: una famiglia infatti può essere composta da pensionati, disporre di rendite proprie oppure di redditi da lavoro in nero.

Quest’ultima categoria non è per nulla residuale, anzi. Basti considerare che nella sua ultima rilevazione (ottobre 2016) lo stesso Istituto nazionale di Statistica attesta che nel 2014 il valore aggiunto generato in Italia dalla sola economia sommersa ammontava a 194,4 miliardi di euro mentre quello connesso alle attività illegali (incluso l’indotto) a circa 17 miliardi di euro. Il valore aggiunto generato da questa “economia non osservata” nel 2014 derivava per il 46,9% (47,9% nel 2013) dalla componente relativa alla sottodichiarazione da parte degli operatori economici. La restante parte era invece attribuibile per il 36,5% all’impiego di lavoro irregolare (34,7% nel 2013), per l’8,6% alle altre componenti (fitti in nero, mance, ecc.) e per l’8% alle attività illegali. Detta in soldoni, il mondo degli evasori e dei lavoratori in nero due anni fa ha prodotto un giro d’affari pari al 12,0% del Pil), tra sotto-dichiarazioni (99 miliardi) e lavoro irregolare (77 miliardi).

A questo si aggiunga un altro dato significativo: è stato sufficiente cambiare il sistema per la quantificazione dell’Isee – passando dall’autodichiarazione alla verifica oggettiva (con incrocio dei dati all’anagafe tributaria) – per assistere nel 2015 a un vero “miracolo” economico: gli italiani che per ottenere sconti fiscali dichiaravano di essere nullatenenti sono infatti diminuiti dal 70% al 14% (nel Mezzogiorno da quasi il 90% al 20%).

Tutto questo per ricordare che se la crisi economica è grave e perdura da molti anni, altrettanto grave e longeva è la propensione di molti a comportamenti non trasparenti. Un motivo in più per diffidare della politica dei bonus governativi elargiti a pioggia (magari a persone che non ne hanno reale bisogno) e che comunque non ha finora assicurato un’ effettiva ripresa dei consumi. Occorre piuttosto rilanciare gli investimenti pubblici in infrastrutture e stimolare, detassandoli, quelli privati. La convinzione è che l’unica strada percorribile per combattere le povertà (reali) sia quella di creare nuova occupazione.

Ancora sull’economia sommersa

Ancora sull’economia sommersa

In questa rubrica siamo spesso tornati sul tema dell’economia sommersa nella convinzione che in Italia incide particolarmente sul Pil a ragione dei troppi vincoli amministrativi e dell’eccessiva oppressione tributaria. A fronte di uno Stato tentacolare ‘ci si sommerge’ per non essere visti e tartassati. Abbiamo però avuto perplessità sulle stime periodiche dell’OCSE che -riprese nei saggi di Friedrich Schneider e Andreas Buehn (il più recente risale a 2013 ed è Shadow Economies in highly developed OECD countries: What are the driving forces?) – stimano il sommerso italiano come il più alto del mondo avanzato (dal 27,8% del Pil nel 1999 al 26,7% nel 2010), quasi il doppio della media dei 39 Paesi censiti e con appena una leggera flessione nei dieci anni.

Ci rallegriamo ,quindi, che secondo i più recenti dati Istat l’economia sommersa sommata alle attività illegali sia pari (dati 2013) al 12,9% del Pil, una percentuale in crescita rispetto al 12,7% stimato nel 2012 e al 12,4% del 2011. In termini assoluti, vale 206,4 miliardi di euro. Comunque i numeri dell’economia illegale e sommersa giustificano la decisione dell’Istat di «esplorare la fattibilità di un conto satellite dell’economia illegale» con l’obiettivo di avere «una migliore conoscenza del fenomeno» e mettere a punto adeguate «politiche di contrasto». Il 2012 e il 2013 sono stati anni di una forte crisi che può avere pesato sulla crescita del sommerso. Il conto satellite sarebbe una novità assoluta perché oggi non esiste in letteratura né in altri Paesi, se non a livello molto sperimentale. Il suo obiettivo sarebbe quello di capire meglio come funziona l’economia illegale, la sua produzione, come si trasferisce sul consumo, la relazione tra le imprese e se in essa vi siano investimenti.

A questa scommessa risponde il lavoro di Cecilia Morvillo del Dipartimento del Tesoro nel paper Evoluzione delle determinanti dell’economia sommersa: analisi panel di regioni italiane (NT n.1/2016). Il lavoro è volto ad analizzare empiricamente la relazione esistente tra l’economia sommersa e alcune variabili esplicative. A tal fine si dispone di dati panel riguardanti le 20 regioni italiane con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 ed il 2012, per un totale di 240 osservazioni. Nella presente nota l’economia sommersa viene identificata con il tasso di irregolarità del lavoro, pubblicato dall’Istat e calcolato come la quota percentuale delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro. Le variabili esplicative sono invece in parte dedotte da una rassegna di studi econometrici relativi all’economia sommersa, tra le quali la densità di popolazione e il tasso di industrializzazione, proprie della dimensione e della struttura economica regionale; il PIL pro capite e la partecipazione femminile al mercato del lavoro, quali variabili di controllo dell’economia sommersa; una proxy dell’intensità della regolamentazione in grado di fornire una fotografia del contesto istituzionale italiano. Dopo una breve descrizione dei dati, supportata da una rappresentazione cartografica a livello regionale delle variabili più rappresentative delle diverse condizioni economiche delle regioni italiane, l’analisi empirica si declina in una stima di quattro distinti modelli panel dai quali emergono risultati sui quali riflettere.

Quanto è vasto il sommerso in Italia?

Quanto è vasto il sommerso in Italia?

La vastità dell’economia sommersa in Italia è un interrogativo che si pongono in molti, soprattutto da quando, diversi anni fa, uno studio Ocse stimò l’economia sommersa (e illegale) in Italia pari a circa un terzo del Prodotto interno lordo (Pil). Un contributo utile viene dal Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze con il paper di Cecilia Morvillo “Evoluzione delle determinanti dell’economia sommersa: analisi panel di regioni italiane” (NT) No1/2016.

Il lavoro è volto ad analizzare empiricamente la relazione esistente tra l’economia sommersa e alcune variabili esplicative. A tal fine si dispone di dati panel riguardanti le 20 regioni italiane con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 ed il 2012, per un totale di 240 osservazioni. Nel paper l’economia sommersa viene identificata con il tasso di irregolarità del lavoro, pubblicato dall’Istat e calcolato come la quota percentuale delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro. Le variabili esplicative sono invece in parte dedotte da una rassegna di studi econometrici relativi all’economia sommersa, tra le quali la densità di popolazione e il tasso di industrializzazione, proprie della dimensione e della struttura economica regionale; il Pil pro capite e la partecipazione femminile al mercato del lavoro, quali variabili di controllo dell’economia sommersa; una proxy dell’intensità della regolamentazione in grado di fornire una fotografia del contesto istituzionale italiano. Dopo una breve descrizione dei dati, supportata da una rappresentazione cartografica a livello regionale delle variabili più rappresentative delle diverse condizioni economiche delle regioni italiane, l’analisi empirica si declina in una stima di quattro distinti modelli panel dai quali emergono risultati sui quali riflettere.

Prendendo spunto da molti studi esistenti sull’economia sommersa, il lavoro si incardina nel filone di approfondimenti con approccio modellistico. L’approccio econometrico ha riscosso negli ultimi anni molto successo in quanto è in grado di studiare l’economia sommersa attraverso le sue cause, non limitandosi solamente all’analisi degli aspetti puramente fiscali, ma individuando anche fattori di carattere sociale ed economico che in misura diversa influenzano il fenomeno. In accordo con l’ipotesi che il lavoro irregolare è “il principale fattore produttivo su cui si basa il funzionamento dell’economia sommersa”, la variabile in esame viene in questo contesto identificata con il tasso di irregolarità del lavoro.

Il presente studio è stato applicato dapprima su un campione di dati costituito da un panel bilanciato relativo alle 20 regioni d’Italia e composto da 6 variabili con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 e il 2012, per un totale di 240 osservazioni. L’analisi è stato successivamente arricchita con ulteriori fattori sociodemografici ed economici. I modelli esaminati, oltre a confermare alcune relazioni già esistenti, hanno fatto emergere due risultati importanti. La relazione tra economia sommersa e intensità della regolamentazione non risulta positiva. Ciò dipende dalla modalità di costruzione dell’indicatore, dal campione di riferimento utilizzato e dalla tecnica di stima applicata. L’interpretazione economica della nuova relazione trovata è perfettamente intuibile considerando la specifica scelta dell’indicatore. E’ infatti agevole ritenere che nelle zone con una maggiore presenza di dipendenti pubblici il sommerso sia meno radicato e ciò a dimostrazione della positiva opera dei pubblici dipendenti di tutte le istituzioni centrali e periferiche. Infine la relazione tra l’economia sommersa e la densità di popolazione mostra un segno negativo, poiché laddove la maggior densità è legata ad una necessità lavorativa, tale variabile può essere correlata negativamente all’economia sommersa.